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Home » Esteri

Usa: giornalista aggiunto “per sbaglio” a una chat segreta della Casa bianca. Ecco cosa pensano e come parlano (in privato) dell’Europa i vertici dell’amministrazione Trump

Immagine di copertina
Screenshot dalla conversazione di gruppo su Signal Credit: Tutti i diritti riservati a ©The Atlantic

Il caporedattore della rivista The Atlantic, Jeffrey Goldberg, ha così avuto accesso ai piani di attacco agli Houthi due giorni prima dei raid Usa in Yemen. Ma le conversazioni riguardano anche l’Europa

Europei “scrocconi” e “patetici”, a cui “addebitare i costi” delle operazioni militari degli Stati Uniti in Yemen. Sono solo alcune delle affermazioni emerse da “una chat di gruppo altamente confidenziale” a cui il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa bianca Mike Waltz ha aggiunto “per sbaglio” il caporedattore della rivista The Atlantic, Jeffrey Goldberg, insieme a 17 alti funzionari dell’amministrazione del presidente Donald Trump (che non era presente), tra cui il vicepresidente JD Vance, il segretario alla Difesa Pete Hegseth, il segretario di Stato Marco Rubio e il direttore della CIA John Ratcliffe, per discutere dei piani di attacco agli Houthi due giorni prima dei raid condotti dagli Usa. 

La vicenda è stata confermata dalla Casa bianca, con il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Brian Hughes che ieri ammesso come il numero del reporter sia stato “erroneamente incluso” nella chat su Signal. “Stiamo indagando su come il suo numero sia stato aggiunto per errore”, ha dichiarato Hughes, mentre il presidente Trump ha negato di essere a conoscenza della vicenda. “Non ne so niente. Non sono un grande fan di The Atlantic“, ha dichiarato ieri in conferenza stampa il presidente dallo Studio Ovale. “Non sono stati discussi ‘piani di guerra’” e “non è stato inviato materiale classificato” sul gruppo, ha precisato oggi su X la sua portavoce Karoline Leavitt. Cominciamo però dall’inizio.

Chi c’era nella chat segreta dell’amministrazione Trump
«Martedì 11 marzo ho ricevuto una richiesta di connessione su Signal da un utente identificato come Michael Waltz», ha scritto Goldberg in un articolo pubblicato ieri su The Atlantic in cui confessa il suo iniziale scetticismo. «Ho dato per scontato che il Michael Waltz in questione fosse il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump. Non ho dato per scontato, tuttavia, che la richiesta provenisse dal vero Michael Waltz. L’ho incontrato in passato e, sebbene non abbia trovato particolarmente strano che potesse contattarmi, l’ho giudicato un po’ insolito, dati i rapporti controversi dell’amministrazione Trump con i giornalisti e la fissazione periodica di Trump su di me in particolare. Mi è subito venuto in mente che qualcuno potesse fingersi Waltz per intrappolarmi in qualche modo. Non è affatto raro al giorno d’oggi che attori nefasti cerchino di indurre i giornalisti a condividere informazioni che potrebbero essere utilizzate contro di loro. Accettai la richiesta di collegamento, sperando che si trattasse del vero consigliere per la sicurezza nazionale e che volesse parlare di Ucraina, Iran o di qualche altro argomento importante. Due giorni dopo, giovedì (13 marzo, ndr), alle 16:28, ricevetti una notifica che mi avrebbe incluso in un gruppo chat su Signal. Si chiamava “Houthi PC small group”».

L’obiettivo, come spiegato poi da Waltz ai presenti, era il «coordinamento sugli Houthi», il gruppo armato che ormai da un decennio controlla la maggior parte dello Yemen settentrionale e occidentale e dal 7 ottobre 2023 minaccia la libera navigazione nello Stretto di Bab el-Mandeb, con attacchi missilistici e sequestri di navi occidentali per fare pressione su Stati Uniti ed Europa affinché costringano Israele a interrompere le operazioni militari nella Striscia di Gaza. È così che Goldberg viene a conoscenza di chi partecipa al gruppo perché ciascuno dei presenti nomina uno dei propri assistenti, incaricato di coordinarsi con il team del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa bianca. Oltre ai suddetti JD Vance, Marco Rubio, Pete Hegseth, John Ratcliffe e Mike Waltz, alla chat partecipano anche la direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard; il segretario al Tesoro Scott Bessent; l’inviato del presidente Trump in Medio Oriente e principale negoziatore per l’Ucraina Steve Witkoff;  il capo dello staff della Casa bianca Susie Wiles e il suo vice Stephen Miller. In tutto erano 18 persone, compreso il caporedattore della rivista The Atlantic, identificato soltanto come JG.

Come l’amministrazione Trump parla (in privato) dell’Europa
La discussione, secondo Goldberg, si fa accesa soltanto venerdì 14 marzo (il giorno prima dei raid in Yemen) quando Waltz avvisa il gruppo di aver girato ai rispettivi indirizzi e-mail le “conclusioni con gli incarichi affidati secondo le linee guida del Presidente” e le “notifiche suggerite dai dipartimenti di Stato e della Difesa per gli alleati e i partner regionali”, in attesa di “una sequenza di eventi più specifica” da parte dello Stato maggiore congiunto delle forze armate per gli attacchi contro gli Houthi.

A questo punto interviene il vicepresidente JD Vance. «Penso che stiamo commettendo un errore. Il 3 percento del commercio statunitense passa attraverso (il canale di, ndr) Suez. Il 40 percento del commercio europeo passa da lì. C’è un rischio reale che il pubblico non capisca perché sia necessario (attaccare, ndr)», scrive Vance, mostrandosi per la prima volta in disaccordo con Trump (finora non era mai successo in pubblico dalla sua nomination). «La ragione più forte per farlo è, come ha detto POTUS (il presidente degli Stati Uniti, ndr), inviare un messaggio. Non sono sicuro però che il presidente sia consapevole di quanto ciò sia incoerente con il suo messaggio sull’Europa in questo momento. C’è un ulteriore rischio che si verifichi un picco moderato o grave nei prezzi del petrolio. Sono disposto a sostenere le decisioni adottate dal team e a tenere per me queste preoccupazioni. Ma ci sono forti argomentazioni per ritardare questo (attacco, ndr) di un mese, fare il (necessario, ndr) lavoro di comunicazione sul perché sia importante, vedere a che punto è l’economia, ecc». A dargli ragione interviene subito il direttore in pectore del National Counterterrorism Center, Joe Kent. «Non c’è nulla di urgente che determini la linea temporale. Avremo esattamente le stesse opzioni tra un mese».

Allora risponde il segretario alla Difesa Pete Hegseth. «Aspettare qualche settimana o un mese non cambia fondamentalmente il ragionamento. Corriamo però due rischi immediati nell’attesa: 1) che l’operazione possa trapelare, facendoci apparire indecisi; 2) che Israele intraprenda un’azione prima – o che il cessate il fuoco a Gaza vada in pezzi – impedendoci di portare avanti l’azione alle nostre condizioni», sostiene l’ex commentatore di Fox News. «Possiamo gestire entrambe le cose. Siamo preparati ad andare avanti e se avessi io l’ultima parola sul procedere o meno, credo che dovremmo attaccare. Non si tratta degli Houthi. Per come la vedo io si tratta di: 1) Ripristinare la libertà di navigazione, un nostro interesse nazionale fondamentale; 2) Ristabilire la deterrenza, che Biden ha distrutto. Ma possiamo tranquillamente fermarci. E se lo facciamo, farò tutto il possibile per far rispettare al 100% la segretezza dell’operazione. Accolgo con favore altri pensieri».

Pochi minuti dopo, Michael Waltz segnala una lunga lista di dati sul commercio e sulle limitate capacità delle Marine militari degli Stati europei per risolvere la questione. «Che sia adesso o tra diverse settimane, toccherà agli Stati Uniti riaprire queste rotte di navigazione. Su richiesta del presidente (Trump, ndr) stiamo lavorando con i dipartimenti della Difesa e dello Stato per determinare come calcolare i costi associati e come addebitarli agli europei», spiega il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa bianca.

Al che torna a parlare JD Vance, che però risponde direttamente a Pete Hegseth. «Se pensi che dovremmo farlo, facciamolo. Semplicemente odio salvare di nuovo l’Europa», scrive il vicepresidente Usa. Meno di tre minuti dopo il capo del Pentagono ribatte: «Condivido pienamente il tuo odio per il parassita europeo. È PATETICO. Ma Mike ha ragione, siamo gli unici sul pianeta (…) che possono farlo. Nessun altro ci va neanche vicino», scrive Hegseth. «La questione è il tempismo. Penso che questo sia il momento migliore, data la direttiva del POTUS (presidente degli Stati Uniti, ndr) di riaprire le rotte di navigazione. Penso che dovremmo attaccare; ma il POTUS (presidente degli Stati Uniti, ndr) ha ancora 24 ore di spazio decisionale».

A questo punto interviene anche il vicecapo dello staff della Casa Bianca Stephen Miller. «Come ho sentito, il presidente è stato chiaro: luce verde, ma presto chiariremo all’Egitto e all’Europa cosa ci aspettiamo in cambio», scrive il confidente storico di Trump. «Dobbiamo anche capire come far rispettare tale requisito. Ad esempio, se l’Europa non ci ripaga, allora cosa (facciamo, ndr)? Se gli Usa ripristinano con successo la libertà di navigazione a caro prezzo, dobbiamo ricevere un profitto in cambio». «Sono d’accordo», conclude poi Hegseth.

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Dichiarazioni non certo lusinghiere per gli alleati europei degli Stati Uniti, che a differenza di quanto affermato dai funzionari dell’amministrazione Trump partecipano già alla difesa della libertà di navigazione al largo dello Yemen. Dal febbraio dello scorso anno infatti, in questo strategico tratto di mare, l’Unione europea ha schierato la missione militare navale Aspides (dal greco “scudi”), che vede la partecipazione della Grecia, che ha assunto il comando della missione, dell’Italia, che detiene il “comando tattico”, e di Belgio, Danimarca, Francia e Germania. L’operazione, che affianca la missione europea Atalanta avviata nel 2008 per combattere la pirateria al largo del Corno d’Africa tra il Golfo di Aden e il bacino della Somalia, ha un mandato difensivo e non prevede la partecipazione ai bombardamenti contro gli Houthi, limitandosi al pattugliamento, alla sorveglianza e all’intercettazione di eventuali attacchi dallo Yemen contro le navi in transito nello Stretto di Bab el-Mandeb. A differenza invece dell’operazione Prosperity Guardian, lanciata con regole d’ingaggio ben diverse da Stati Uniti e Regno Unito, che periodicamente hanno attaccato le postazioni del gruppo armato finanziato dall’Iran.

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