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Home » Esteri

Rapporti con la lobby pro-Israele e critiche sulla guerra: ecco come la pensa Kamala Harris su Gaza

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Da anni ha legami con l'Aipac, la principale lobby pro-Tel Aviv negli Usa, ma in questi mesi è stata una delle voci istituzionali più critiche sul conflitto. Ecco qual è la posizione della vicepresidente e candidata democratica in pectore sul dossier più scottante delle presidenziali americane

Quando Kamala Harris scese le scale del quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme e vide il Muro Occidentale, non ebbe alcuna esitazione. Era il novembre del 2017 e per l’allora senatrice degli Stati Uniti non era certo la prima visita in Israele ma per il marito Doug Emhoff sì.
Infilò la mano in tasca, tirò fuori una kippah e delle mollette preparate per l’occasione e chiese al consorte di chinarsi per fargliela indossare. Il momento fu immortalato in una foto dall’allora Consigliera per la sicurezza nazionale di Harris e attuale direttrice del Jewish Democratic Council of America, Halie Soifer, che oggi sostiene la sua candidatura alle elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre negli Stati Uniti. «Sapeva che sarebbe stato un momento significativo per (il marito, ndr) Doug», ha raccontato Soifer all’agenzia di stampa Jta. «Parte del motivo per cui quel viaggio è stato così speciale per entrambi è perché era la sua prima volta in Israele», la terza invece per la moglie Kamala Harris, il cui rapporto con Tel Aviv e la comunità ebraica, non solo statunitense, è molto solido.
«Guardate la mia vita: figlia di una madre proveniente dall’Asia meridionale e di un padre giamaicano ha celebrato il proprio matrimonio interreligioso con il marito, rompendo vetri mentre tutti urlavano mazeltov», aveva ricordato Harris qualche mese prima intervenendo per la prima volta alla conferenza dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), la principale lobby israeliana negli Usa.
Suo marito d’altra parte, anch’egli un legale californiano, è stato inserito da Joe Biden nel team della Casa Bianca che ha lanciato la Strategia nazionale degli Stati Uniti per contrastare l’antisemitismo. Ma questo non basta per capire come la pensi la candidata democratica in pectore su Israele e soprattutto sulla guerra a Gaza, uno dei dossier più scottanti ereditati dal presidente dopo la sua rinuncia alla corsa per la rielezione.
In quello stesso viaggio infatti Kamala Harris visitò anche Gerusalemme est, dove incontrò gli studenti dell’Università Al-Quds. «La senatrice ha elogiato l’ateneo per la “incredibile istruzione” che offre ai suoi studenti», riportò allora il portale Palestinian News Network, secondo cui «Harris ha detto di essere passata in auto davanti al muro» che separa Israele dalla Cisgiordania occupata «e ha chiesto agli studenti se questo rappresentasse “una vera barriera” per i loro spostamenti». «L’aula ha esclamato di “sì” all’unanimità e ha espresso la propria rabbia per le restrizioni imposte dalle autorità israeliane», ottenendo la comprensione dell’allora senatrice.

I rapporti con Israele
Eppure, come ricordato, nel gennaio di quell’anno Kamala Harris aveva appena parlato per la prima volta alla conferenza dell’Aipac, creato negli anni Cinquanta per sostenere la causa dello Stato ebraico e considerato il più potente e influente gruppo d’interesse a Washington. Non certo un forum per i diritti umani in Palestina. A quanto è dato sapere, l’attuale vicepresidente incontrerà i rappresentanti della principale lobby filo-israeliana tre volte in tre anni (nel 2017, 2018 e 2019).
Pochi giorni dopo aver prestato ufficialmente giuramento come senatrice, Harris si unì al collega repubblicano Marco Rubio e a un folto gruppo di altri parlamentari statunitensi per promuovere una mozione contraria alla risoluzione di condanna nei confronti di Israele appoggiata dall’amministrazione Obama al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
«Credo che una risoluzione a questo conflitto non possa essere imposta. Deve essere concordata dalle parti stesse. La pace può arrivare solo attraverso una riconciliazione delle differenze e ciò può avvenire solo al tavolo delle trattative», disse allora Harris all’Aipac, rivendicando la firma della mozione come il suo primo atto da senatrice degli Stati Uniti. «Credo che quando un’organizzazione delegittima Israele, dobbiamo alzarci in piedi e parlare perché Israele riceva un trattamento equo».
Nel suo intervento poi affermò che si sarebbe schierata fermamente al fianco di Tel Aviv, impegnandosi a sostenere il diritto di Israele all’autodifesa e la cooperazione militare tra gli Usa e lo Stato ebraico, indicando comunque la soluzione dei due Stati come l’unica strada per porre fine al conflitto in Medio Oriente.

Qualche mese prima invece, durante la campagna elettorale per il Senato, rispose in modo piuttosto evasivo a una domanda sugli insediamenti israeliani illegali in Palestina. «Una pace duratura può essere trovata solo attraverso negoziati bilaterali che proteggano l’identità di Israele, garantiscano la sicurezza per tutte le persone e includano il riconoscimento del diritto di Israele a esistere come Stato ebraico», rispose Harris al Jewish News of Northern California, segnalando anche la sua opposizione al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e la Sanzioni (Bds) contro Tel Aviv, «basato sull’errato assunto che Israele sia l’unico responsabile del conflitto». Allora rifiutò persino l’appoggio di J Street, la lobby liberal pro-Israele, che oggi invece sostiene la sua candidatura alla presidenza.
Il rapporto con l’Aipac invece sembra piuttosto consolidato. Quando nel 2019 il gruppo progressista MoveOn esortò i candidati alle primarie democratiche a non partecipare alla conferenza annuale della lobby pro-Israele, citandone i legami con la destra fedele al premier Netanyahu, Kamala Harris si unì a Elizabeth Warren e a Bernie Sanders annunciando che non sarebbe intervenuta all’evento.
Tuttavia, in privato, incontrò diversi importanti attivisti dell’Aipac della California in visita a Washington proprio per partecipare al raduno dell’organizzazione. Allora l’attivista del Comitato Sam Lauter rivelò che fu proprio Harris a chiamare sia lui che altri membri dell’Aipac per chiedere un incontro.
«È stato fantastico incontrare oggi nel mio ufficio i leader dell’Aipac della California per discutere della necessità di una forte alleanza tra Stati Uniti e Israele, del diritto di Israele a difendersi e del mio impegno a combattere l’antisemitismo nel nostro Paese e nel mondo», twittò l’allora senatrice, che non ha mai nascosto il proprio impegno al fianco di Tel Aviv.
Come disse alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di quest’anno, gli Stati Uniti devono mantenere le promesse a favore della sicurezza e del diritto all’autodifesa dello Stato ebraico e contrastare «l’aggressione dell’Iran e dei suoi alleati, prevenire l’escalation e promuovere l’integrazione regionale», un tratto distintivo della politica estera di Joe Biden, che ha tentato più volte di garantire la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita. Insomma, il suo appoggio a Tel Aviv è indubbio ma la sua posizione sull’attuale conflitto è un’altra storia.

Le critiche sulla guerra a Gaza
Sebbene si sia schierata da subito con lo Stato ebraico dopo i brutali attentati compiuti da Hamas e dalla Jihad Islamica il 7 ottobre scorso in Israele, chiedendo l’immediato e incondizionato rilascio di tutti gli ostaggi e condannando le violenze – anche sessuali – perpetrate dai gruppi terroristici palestinesi, Kamala Harris ha progressivamente assunto una posizione sempre più critica nei confronti di Tel Aviv per la conduzione della guerra nella Striscia di Gaza e per quanto accade nei Territori occupati.
Non ha perso occasione di far notare al presidente israeliano Isaac Herzog che i coloni in Cisgiordania dovrebbero essere ritenuti responsabili delle azioni violente contro i palestinesi, aumentate drasticamente dall’ottobre scorso e che hanno spinto Washington a imporre sanzioni ai responsabili e alle loro organizzazioni.
Alla luce del bilancio delle vittime a Gaza poi, che ormai ha superato i 39 mila morti e i 90 mila feriti, Kamala Harris ha osservato che «Israele deve fare di più per proteggere i civili innocenti» della Striscia. «Non ci sono scuse», disse in un discorso pronunciato nel marzo scorso. «(gli israeliani, ndr) Devono aprire nuovi valichi di frontiera. Non devono imporre restrizioni non necessarie alla consegna degli aiuti. Devono garantire che il personale, i siti e i convogli umanitari non siano presi di mira».
Non solo: la vicepresidente ha anche mostrato simpatia per le proteste avvenute in decine di campus e università degli Stati Uniti contro la guerra a Gaza. «Stanno mostrando esattamente cosa dovrebbe essere l’emozione umana, come risposta a quanto avviene a Gaza», ha detto Harris in un’intervista concessa a The Nation. «Rifiuto categoricamente alcune delle cose che dicono alcuni manifestanti, quindi non intendo sostenere incondizionatamente tutti i loro argomenti. Ma capisco l’emozione che c’è dietro».
Tutte critiche riportate direttamente anche all’allora membro del gabinetto di guerra israeliano e attuale principale sfidante del premier Netanyahu, Benny Gantz, durante la sua visita a Washington a marzo quando, secondo la Casa Bianca, Harris si disse «profondamente preoccupata» per la situazione umanitaria nel territorio costiero palestinese.

D’altra parte, la vicepresidente è da sempre una delle voci istituzionali più accanitamente critiche sulla questione. Lily Greenberg Call, prima collaboratrice ebrea a dimettersi dall’amministrazione Biden per protesta contro il sostegno di Washington a Israele ed ex attivista pro-Harris alle primarie del 2020, ha ricordato al Guardian che Kamala «è stata la prima figura del governo a usare l’espressione cessate il fuoco». «Sono fiduciosa, cercando di non essere troppo ottimista visti i suoi legami con l’Aipac, ma è in una posizione migliore per ascoltare la maggioranza degli elettori democratici che vogliono un cessate il fuoco duraturo e la liberazione degli ostaggi. Penso anche che faccia sul serio nel combattere l’autoritarismo in patria. Deve combatterlo però anche all’estero. Non possiamo finanziarlo in Israele mentre cerchiamo di contrastarlo qui».
Un’altra ex collaboratrice dell’amministrazione Biden, Hala Rharrit, ex portavoce in lingua araba del dipartimento di Stato Usa, ha rivelato a Politico che alla fine dello scorso anno chiese espressamente di citare Kamala Harris in una dichiarazione di condanna delle violenze contro i giornalisti nella Striscia. «Sapevamo che un messaggio proveniente dalla vicepresidente sarebbe stato più accettato dal pubblico mediorientale». Alla fine il comunicato fece a meno delle dichiarazioni di Harris ma le sue esternazioni pubbliche sono state comunque sfruttate dalla diplomazia Usa.
Come rivelato da un rapporto riservato del dipartimento di Stato trapelato al giornalista Ken Klippenstein, secondo Washington, Kamala Harris figura tra i «messaggeri più efficaci per aumentare la consapevolezza che gli Stati Uniti hanno a cuore sia i civili israeliani che quelli palestinesi». In particolare in Paesi come Marocco, Algeria, Tunisia ed Egitto, la vicepresidente «aumenta la consapevolezza che gli Usa inviano aiuti umanitari ai palestinesi». Fin qui la percezione ma quale sarebbe il suo contributo reale alla politica estera Usa sulla questione?

Nel segno della continuità
Malgrado Kamala Harris appaia più in sintonia con i giovani progressisti rispetto a Joe Biden, che si è dichiarato «sionista» e ha conosciuto personalmente quasi tutti i leader israeliani degli ultimi 40 anni, secondo alcuni ex collaboratori dell’amministrazione statunitense, in caso di vittoria il 5 novembre la sua politica somiglierebbe molto a quella americana attuale.
Non foss’altro perché, come ha fatto notare a Politico l’ex direttore per gli affari mediorientali presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa bianca Michael Singh, «in gran parte le loro amministrazioni avrebbero probabilmente il medesimo personale». Inoltre, secondo la sua ex collaboratrice Halie Soifer, sul conflitto «non c’è stata davvero alcuna distanza» tra il presidente e la sua vice.

Pur non mettendo mai in discussione l’appoggio Usa a Tel Aviv, a volte però Harris ha preceduto Biden nel criticare l’approccio militare di Israele a Gaza. Tanto che le sue dichiarazioni fanno sperare qualcuno in un cambio di passo in senso progressista della politica americana in Medio Oriente. «Con una presidente Harris, una soluzione a due Stati potrebbe finalmente essere possibile», ha dichiarato in via anonima a Politico un funzionario dell’amministrazione Usa.
Ma non tutti sembrano d’accordo. «Potrebbe apparire una giocatrice più energica, ma c’è una cosa che non dovreste aspettarvi: grandi, sostanziali e immediati cambiamenti rispetto alla politica estera di Biden», ha spiegato all’agenzia di stampa Reuters Aaron David Miller, ex negoziatore in Medio Oriente per le amministrazioni di Bill Clinton e George W. Bush.
Un esempio potremmo averlo sotto gli occhi proprio in questi giorni. Kamala Harris infatti ha annunciato che non presenzierà al discorso al Congresso di Benjamin Netanyahu durante la sua visita a Washington, ma la vicepresidente avrà comunque un incontro a porte chiuse con il premier israeliano, il primo con un leader straniero da quando Biden ha rinunciato alla sua corsa alla rielezione. Un gesto pubblico di sfida e allo stesso tempo una mano tesa perché, come ha osservato il già citato Michael Singh, «naturalmente gli interessi degli Stati Uniti e le sfide poste al mondo non dipendono dai risultati delle elezioni».

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