Di Kamala in peggio: tutte le ragioni del grande flop dei democratici negli Usa
Non ha conquistato la popolarità sperata nei suoi quattro anni da vicepresidente. Ha ottenuto la nomination solo per l’abbandono di Biden. E ha perso addirittura il voto popolare. Ma la sua sconfitta mostra il fallimento della strategia elettorale dei dem
Quando Kamala Harris fu indicata come candidata dei democratici dopo il ritiro in corsa di Joe Biden, sui media mondiali sembrava ci fosse un generale entusiasmo intorno alla vicepresidente, al suo background personale e alla possibilità che per la prima volta una donna potesse sedere alla Casa bianca. Tuttavia, in quella fase ci si è dimenticati una cosa: Kamala Harris era stata apertamente scelta nel 2020 come vice proprio nella prospettiva di poterla candidare presidente nel 2024, con Biden che già aveva i suoi anni e si era presentato con la chiara possibilità di non correre nuovamente dopo il primo mandato. Se nonostante questa prospettiva si era originariamente scelto di mantenere in campo l’anziano presidente con tutte le perplessità del caso, forse è anche perché Kamala Harris non aveva conquistato negli ultimi quattro anni la popolarità sperata.
Indubbiamente la sua candidatura ha giovato nell’immediato ai dem. Da tempo le perplessità sull’età di Biden erano sempre più insistenti, al punto da trasformarsi in un campanello d’allarme dopo il disastroso faccia a faccia televisivo con Donald Trump. Più o meno consciamente l’elettorato si chiedeva se Biden fosse veramente il candidato, e il suo passo indietro in favore di Harris ha sicuramente rappresentato prima di tutto un elemento di chiarezza. Elemento positivo, ma che da solo non è bastato e non può bastare a vincere le elezioni.
L’identità non basta
I dati elettorali dei democratici lo scorso 5 novembre parlano chiaro: una sconfitta senza appello, un risultato più basso delle aspettative con Kamala Harris battuta addirittura nel voto popolare, in cui sembrava vincitrice annunciata ma che, per il sistema elettorale americano, non sarebbe stato automaticamente sufficiente ad arrivare alla Casa bianca. E soprattutto battuta in tutti e sette gli Stati ritenuti a ragione in bilico dai sondaggisti, attraverso i quali si sarebbe capito il vincitore.
Nel 2020 i democratici avevano vinto le presidenziali in modo deciso. Biden aveva conquistato diversi Stati in bilico, aveva ripreso quei tre del blue wall conquistati a sorpresa da Trump nel 2016 e saputo addirittura vincere inaspettatamente in Stati come l’Arizona o la Georgia, in cui i democratici non vincevano da tempo. Era un momento storico preciso, con il Covid che da mesi aveva stravolto le vite delle persone, il movimento Black Lives Matter che prendeva piede in tutta l’America e Donald Trump che pensava di arrivare al voto con dei validi dati economici ma si trovava in una situazione che non sembrava riuscire a gestire. In questo contesto i democratici seppero fare al meglio una cosa: far fruttare al massimo l’affluenza nelle aree e nei segmenti della popolazione in cui storicamente sono più forti, ovvero le grandi aree urbane e le minoranze. Fu proprio l’elevata partecipazione elettorale di queste realtà, favorita anche da un aumento del voto postale per via della situazione pandemica, a fare la differenza e a contribuire alla netta vittoria di Biden. Uno degli errori compiuti da Harris e compagnia è stato probabilmente limitarsi a cercare di replicare questo schema, senza peraltro riuscirci.
Il risultato dello scorso 5 novembre mostra infatti tutti i limiti di una strategia che si mostra più difensiva che altro per il consenso dem, ovvero quello di arrivare alla maggioranza in primis grazie alla somma dei voti delle minoranze, dei neri, dei latinos, della popolazione Lgbt, di capitalizzare al massimo il voto nelle grandi città, il tutto facendo forza sia sulla tradizione del voto identitario che usando come spauracchio il presunto estremismo di Trump. Tuttavia, l’identità, che sia etnica o di genere, questa volta in assenza di altri fattori non è bastata, e sorte vuole che un’elezione in cui i democratici hanno provato a farsi forza anche sul background culturale della propria candidata potrebbe rappresentare il voto che sancisce la crisi di questa strategia.
Non solo Kamala Harris ha ottenuto una vittoria contenuta tra le donne, su cui i dem avevano puntato molto, ma tra le donne bianche è stata sconfitta da Trump. Tra i latinos, segmento elettorale storicamente vicino ai democratici, il primato conquistato dalla vicepresidente non ha superato il 53 per cento dei voti (Biden nel 2020 ottenne il 65), ma tra i maschi ispanici ha addirittura vinto, a sorpresa, Trump, aumentando notevolmente il consenso repubblicano in Stati come la Florida, ormai lontana dal suo recente passato di Stato in bilico, o il Texas, in cui da anni i democratici sperano di poter riuscire in una clamorosa rimonta, forti del fattore demografico.
Basarsi sull’identità solo in quanto tale non basta più. Le persone oltre all’identità hanno necessità di natura sociale, economica, e di fronte a proposte molto generiche nei campi della vita di tutti i giorni – Harris ha spesso puntato su un vago concetto di “opportunity economy” – hanno preferito le risposte più dirette di Donald Trump.
Quale base sociale?
Le minoranze, tuttavia, non sono state le uniche occasioni mancate dai democratici per cercare di mantenere la Casa Bianca. Per vincere, Harris avrebbe dovuto ottenere la maggioranza negli Stati del cosiddetto blue wall, quella zona del Nord dove un tempo sorgevano numerose importanti industrie chiuse dalla delocalizzazione e che tra il 1992 e il 2012 ha sempre votato per i democratici, finché nel 2016 proprio Donald Trump non riuscì a sorpresa a irrompervi ottenendo ampio consenso tra quella middle class bianca oggi impoverita, strappando ai dem Wisconsin, Michigan e Pennsylvania. Nel 2020 Biden era riuscito a vincervi nuovamente, ma lo scorso 5 novembre abbiamo assistito a un’altra rottura del blue wall, sempre per gli stessi fattori. Prendiamo la Pennsylvania, uno Stato in cui Biden quattro anni fa aveva vinto con poco più di un punto di vantaggio: in quell’occasione, il presidente uscente aveva fatto il pieno a Philadelphia, la città più popolosa, superando l’80 per cento, aveva vinto con otto punti di vantaggio la contea di Lackawanna, dove si trova la sua città natale Scranton, cara agli spettatori di The Office, e aveva conquistato la contea di Erie, storicamente determinante per imporsi in Pennsylvania.
A quattro anni di distanza, Kamala Harris avrebbe dovuto fare il pieno in queste aree per vincere, ma a Philadelphia si è fermata al 78 per cento, nella Lackawanna il suo vantaggio si è ridotto a soli tre punti e ha perso la Erie, che ha confermato il suo ruolo decisivo. E le speranze di mantenere blu la Pennsylvania sono sfumate, in un modo molto simile a quello in cui sono andate le cose in Michigan e in Wisconsin.
E adesso? Ora starà ai democratici saper interpretare questi dati, capire quali sono stati i loro errori non solo nel sottovalutare Trump, che hanno probabilmente ritenuto erroneamente al capolinea dopo l’incriminazione post Capitol Hill, ma anche nel comprendere il loro rapporto con settori di elettorato che ritenevano più che consolidati. Alle elezioni si può vincere come perdere, ma l’importante è imparare a non ripetere certi errori.