Un italiano in maglia gialla
Vincenzo Nibali ha vinto il Tour de France. Il commento di Simone Gambino
Settimo italiano a vincere il Tour de France, Vincenzo Nibali, 29enne siciliano di nascita ma toscano di formazione ciclistica, entra a far parte dell’esclusivo circolo composto dai sei corridori capaci di vincere i tre grandi giri ciclistici.
Il messinese affianca il suo nome a quello degli immortali degli ultimi 50 anni del pedale. Negli anni Sessanta prima Jacques Anquetil, il normanno stilisticamente perfetto in bicicletta, e poi Felice Gimondi, il bergamasco che seppe vincere tanto nonostante dovesse competere con Eddy Merckx, riuscirono a conquistare Giro, Tour e Vuelta.
Il cannibale brabantino si aggiunse alla lista nel 1973 seguito dal tasso bretone Bernard Hinault nel 1980. Nel 2008, infine, fu la volta del pistolero madrileno Alberto Contador che, mirabilia, realizzò il triplete in soli 14 mesi.
A Vincenzo Nibali, al contrario, di mesi ne sono occorsi ben 46 a conferma di una maturazione lenta ma costante. Etichettato come predestinato ancor prima dei 20 anni, quando ai mondiali juniores di Verona conquistò un inatteso bronzo a cronometro, lo squalo dello stretto ha dovuto servire un lungo apprendistato nello squadrone Liquigas (oggi Canondale) come scudiero di due vincitori del Giro d’Italia: Danilo Di Luca nel 2007 ed Ivan Basso nel 2010.
Fu proprio questa edizione della corsa rosa che fece comprendere che Nibali era ormai pronto per grandi cose. Selezionato all’ultimo momento per lo stop biologico imposto a Franco Pelizzotti, Nibali corse un Giro da assoluto protagonista, con tre giorni in maglia rosa, terminando al 3° posto e lasciando il dubbio in molti addetti ai lavori che, se non fosse stato sacrificato per Ivan Basso, lui, e non il varesino, avrebbe vinto quella edizione della corsa rosa.
Fatto sta che con quel Giro comincia l’era di Nibali sommo interprete delle grandi corse a tappe. Nelle ultime cinque stagioni, infatti, ne ha corse otto, vincendone tre e fallendo una sola volta il podio, 7° alla Vuelta 2011.
Sarei disonesto se non ammettessi in questa sede che personalmente ritenevo molto improbabile la vittoria dello squalo sulle strade francesi. La storia, d’altronde, parlava chiaro. Escluso Bartali nel 1938, tutti i campioni nostrani che avevano preparato il Tour, rinunciando al Giro, erano andati incontro a cocenti delusioni. Al contrario, fare bene al Giro, se non addirittura vincerlo, era sempre stato il miglior viatico per un Tour da protagonista.
Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il Tour, l’unico a riuscirci per due anni consecutivi nel 1924 e 1925, fu anche il solo a non conquistare mai il Giro. Reduce dalla Grande Guerra, il bersagliere trevigiano, non riuscendo a trovare ingaggio in Italia, emigrò in Francia piazzandosi secondo nella Grande Boucle del 1923. Nel 1924, primo nella storia, vestì la maglia gialla dal primo all’ultimo giorno, bissando il successo l’anno dopo.
Fatta fortuna, unì le forze con la famiglia Carnielli creando un marchio di bici attivo ancora oggi. Morì a Gemona del Friuli nel giugno 1927, a poco meno di 33 anni, in circostanze misteriose e mai chiarite. Bottecchia fu trovato morto a bordo strada ucciso a colpi di pistola, secondo alcuni per motivi politici, secondo altri per non aver rispettato i patti in alcune corse combinate legate a un grosso giro di scommesse.
(Nella foto qui sotto il primo ministro francese Manuel Valls si congratula con Vincenzo Nibali)
I due successi di Gino Bartali, distanziati di 10 anni tra loro, un record per il Tour, sono quelli maggiormente legati ad aspetti extra sportivi. Ad onor del vero, il fiorentino, a soli 23 anni, nel 1937, vinto il suo secondo Giro d’Italia, si apprestava, primo nella storia, a conquistare nello stesso anno anche il Tour de France.
La malasorte, però, era in agguato. Ginettaccio, in maglia gialla sulle Alpi, cade in un torrente, si prese la bronchite e fu costretto a tornare a casa. Dodici mesi dopo, però, non ce ne fu per nessuno. Tenuto a riposo dal Giro per ordine del Duce in persona, Bartali dominò il Tour, coronando alla perfezione il magico 1938 sportivo del regime fascista nella Francia bolscevica che vide l’Italia vincere il suo secondo Mondiale di calcio e Nearco, il cavallo figlio del vento, trionfare nel Grand Prix de Paris.
Se la prima vittoria transalpina di Bartali nel 1938 ebbe, contro il suo volere, effetti propagandistici, il bis nel 1948 è a tutt’oggi la pagina politico-sportiva più coinvolgente della storia repubblicana. Distaccato dall’idolo di casa in maglia gialla, un ancora acerbo Louison Bobet, Bartali dopo i Pirenei avrebbe voluto ritirarsi.
Dall’Italia, però, giungono notizie inquietanti. Antonio Pallante, uno studente di estrema destra, ha tentato di assassinare il leader comunista Palmiro Togliatti. Si teme una guerra civile in un Paese che sta ancora rimarginando le sue ferite dopo il conflitto mondiale. Il presidente del Consiglio in persona, Alcide De Gasperi, telefona a Bartali a Cannes e, a metà tra implorazione e ordine, chiede a Gino di vincere il Tour per pacificare l’Italia. Il fiorentino esegue conquistandosi così per sempre il soprannome di Pio.
Il 1949 è per l’Italia sportiva, in particolare per il Piemonte, un anno di sofferenze e gioie estreme. Il 4 maggio si schianta su Superga l’aereo che riportava in patria da Lisbona il Grande Torino. Dalle ceneri di questa tragedia a risollevare il morale degli italiani ci pensa l’Airone. Il tortonese Angelo Fausto Coppi, infatti, diviene il primo uomo nella storia della bicicletta a realizzare la doppietta Giro-Tour.
Non è una impresa da ragioniere, quella di Coppi. Il Giro lo vince alla terzultima tappa compiendo quella che ancora oggi viene ritenuta la più grande impresa nella storia del ciclismo: 192 chilometri di fuga solitaria nella tappa che da Cuneo, passando per la Francia, porta la corsa rosa a Pinerolo attraverso cinque passi alpini. Bartali, secondo quel giorno e al termine del Giro, è distanziato di quasi 12 minuti. Nondimeno, è un Coppi riluttante quello che due settimane dopo parte per il Tour. La corsa francese essendo riservata a squadre nazionali, al contrario del Giro corso dai gruppi sportivi, non è chiaro chi sia il capitano dell’Italia: Gino Bartali, campione uscente, o Fausto Coppi, dominatore al Giro ma pur sempre esordiente al Tour. Alfredo Binda, il leggendario commissario tecnico, deve barcamenarsi tra i suoi due fuoriclasse.
L’inizio del Tour è disastroso per Coppi: dopo cinque tappe, è staccato di 36 minuti dal francese Marinelli in maglia gialla. Fausto vuole tornare a casa ma per fortuna è in programma una cronometro, a La Rochelle sull’Oceano Atlantico, in cui il tortonese infligge distacchi paurosi agli avversari. La classifica generale, però, sembra compromessa con Fiorenzo Magni, capitano dei cadetti italiani, saldamente in maglia gialla.
I Pirenei riavvicinano sia Bartali che Coppi ai vertici della classifica e il 18 luglio, giorno del 34° compleanno del toscano, i due staccano tutti nella tappa resa nota per la foto del passaggio della borraccia. Sul traguardo di Briançon, Fausto frena volutamente lasciando a Gino tappa e maglia gialla. Sa bene che oramai il Tour è suo alla luce della crono di 137 chilometri in Alsazia che attende la carovana il penultimo giorno. Tuttavia, il giorno successivo, approfittando di una foratura di Bartali, attacca, fa il vuoto e sul traguardo di Aosta conquista la maglia gialla che porterà a Parigi.
Nasce così il mito del Campionissimo. Decisamente meno esaltante la seconda vittoria di Coppi tre anni dopo, anch’essa nel quadro di una doppietta rosa-gialla. Dominato il Giro, Coppi fece lo stesso al Tour, chiudendo il discorso sulla vittoria finale alla 10° tappa all’Alpe d’Huez e costringendo gli organizzatori francesi a inventare in corsa un premio speciale per il secondo classificato in modo tale da mantenere desto l’interesse del pubblico.
Bottecchia, Bartali e Coppi, tre campioni tutti capaci di bissare i loro trionfi in terra di Francia. Dal 1952 al 2013, l’Italia dovrà accontentarsi di sole tre vittorie. La prima arrivò nel 1960 per merito di un grande guerriero della bicicletta: Gastone Nencini, il leone del Mugello. A Nencini, discesista spericolato, vengono associate corse dal finale drammatico: perse il Giro 1955, da lui dominato, a causa di una estemporanea alleanza tra Coppi e Magni (che si detestavano) nella penultima tappa Moena-San Pellegrino Terme. Due anni dopo, al contrario, beneficiò della rivalità tra Charly Gaul e Louison Bobet, con il francese che attaccò l’angelo della montagna lussemburghese in maglia rosa mentre faceva pipì. Nencini si accodò al bretone che non riuscì a staccarlo e vinse quel Giro per l’inezia di 19”.
Nel 1960 altri due transalpini incrociarono le armi con il toscano. Jacques Anquetil, forse il più grande cronoman della storia, riuscì a sconfiggere Nencini per soli 28″ al termine di un Giro avvincente, ricco di continui colpi di scena, deciso dagli eventi leciti e meno che ebbero luogo durante la prima scalata del Passo Gavia. Sembrava che Nencini fosse riuscito a ribaltare la corsa con uno spettacolare attacco in discesa, ma il normanno riuscì a recuperare soprattutto grazie a insperate alleanze trovate per strada tra gli italiani nemici di Nencini.
Gastone, con il dente avvelenato, partì quindi per il Tour, non prima di aver fatto escludere dalla Nazionale i traditori del Gavia. Anquetil, spossato dal Giro, rinunciò alla Grande Boucle, lasciando i gradi di capitano della Francia al suo grande rivale d’oltralpe, Roger Riviere. La prima metà del Tour si svolse all’insegna del duello Nencini-Riviere. La 10° tappa, la prima pirenaica, segnò il destino della corsa e anche, tragicamente, quello del francese che, staccato da Nencini in discesa, si lanciò al suo inseguimento finendo in un burrone e restando paralizzato per le conseguenze della caduta. Fu un Tour trionfale per il ciclismo italiano con lo spezzino Graziano Battistini secondo a Parigi alle spalle di Nencini e il vicentino Imerio Massignan dominatore dei Gran Premi della Montagna.
Il 22enne neo professionista Felice Gimondi non avrebbe dovuto partecipare al Tour del 1965. Giunto terzo al Giro d’Italia, vinto dal suo capitano Vittorio Adorni, la sua prima stagione nella massima categoria poteva considerarsi ottima. Accade, però, che a 48 ore dalla partenza della corsa francese, Battista Babini, uno dei gregari scelti da Adorni per sostenerlo nel tentativo di emulare la doppietta coppiana, dà forfait e Gimondi viene convocato al suo posto, non prima che per convincerlo ad accettare il patron Salvarani gli ha triplicato lo stipendio.
Dopo quattro vittorie consecutive, Anquetil non è al via di questo Tour. I francesi puntano le loro speranze su Raymond Poulidor, l’eterno secondo negli scontri con Anquetil, gli italiani su Adorni e sul giovane Gianni Motta. Ma c’è solo Gimondi. Prende la maglia gialla a Rouen dopo aver vinto la quarta tappa. La perde temporaneamente sulla costa atlantica ma nella prima tappa pirenaica con arrivo a Bagneres de Bigorre, in coincidenza con il ritiro di Adorni, indossa in via definitiva il simbolo del primato che rafforzerà strada facendo vincendo la cronoscalata del Mont Revard e quella finale di Parigi.
Il successo di Gimondi è il preludio del più lungo digiuno azzurro in terra di Francia. Trentatré lunghissimi anni in cui il ciclismo italiano deve accontentarsi dei secondi posti di Gimondi (1972), Chiappucci (1990 e 1992) e Bugno (1991) oltre a qualche occasionale successo di tappa. Il 1998 è l’anno in cui Marco Pantani prende un sabbatico dalla malasorte che ha accompagnato la sua tormentata carriera.
L’85° Tour de France nasce servo dei mondiali di calcio in programma in Francia quell’anno. Si parte tardissimo, l’11 luglio da Dublino, giungendo sul suolo francese solo lunedì 14 luglio, festa nazionale francese. Marco Pantani aveva appena vinto il suo primo Giro d’Italia d’Italia dopo una estenuante lotta contro il russo Pavel Tonkov. Non era entusiasta di andare in Francia, esattamente come Coppi nel 1949. A fargli cambiare idea fu la morte di Luciano Pezzi. Presidente della Mercatone Uno-Bianchi (la squadra per cui correva il Pirata), Pezzi era stato il direttore sportivo di Gimondi in occasione dell’ultima vittoria italiana al Tour. Per uno strano gioco del destino, fu Gimondi a prendere il posto di Pezzi alla Mercatone Uno-Bianchi, quasi un presagio del futuro trionfo del romagnolo.
La classifica del Tour cominciò a delinearsi dopo l’8° tappa, una crono individuale nella Languedoc in cui il campione di Cesenatico rimediò quasi 5 minuti da Jan Ullrich, il tedesco che difendeva il suo titolo e che pareva oggettivamente imbattibile. Un piccolo recupero sui Pirenei permise a Pantani di arrivare ai piedi delle Alpi, poste all’inizio dell’ultima settimana, con tre minuti di ritardo sul tedesco. Considerando che il penultimo giorno c’era un’altra megacrono favorevole a Ullrich, di fatto lo svantaggio di Pantani era di almeno sei minuti. Serviva una impresa per rovesciare le sorti del Tour.
La mattina di lunedì 27 luglio 1998 alla partenza di Grenoble pioveva. Avrebbe piovuto ininterrottamente per tutti i 189 chilometri fino al traguardo posto a Les Deux Alpes ma a patire le conseguenze del tempo fu il teutonico e non il solatio romagnolo. Pantani attaccò a metà della salita del Galibier, a 50 chilometri dall’arrivo. In vetta aveva guadagnato un minuto. Decisamente poco. Ma nella discesa avvenne l’impensabile.
Ullrich, colpito da una crisi di fame, acuita dalla giornata autunnale, andò in crisi. Non riusciva a spingere il piede sul pedale e dovette essere spinto all’ingiù dai suoi gregari. Sul traguardo, quando il tedesco giunse con 9’ di ritardo, Pantani era già in maglia gialla. Sei giorni dopo a Parigi, Felice Gimondi premiava il suo corridore, ma accanto ai due in molti pensarono di vedere anche Luciano Pezzi. Sono passati 16 anni da quel giorno e da 10 Marco Pantani non c’è più, sconfitto alla fine da quei demoni di cui solo nel 1998 per due magici mesi riuscì a liberarsi.
La vittoria odierna di Nibali, una cavalcata trionfale iniziata già a Sheffield al termine della seconda tappa, non ricorda in nessun modo la rimonta di Pantani o quelle precedenti di Bartali nel 1948 e Coppi dodici mesi dopo. Piuttosto, il dominio del messinese riporta alla memoria il primo trionfo azzurro di Ottavio Bottecchia nel 1924, maglia gialla dall’inizio alla fine, o il secondo di Fausto Coppi, quando nel 1952 costrinse gli organizzatori a istituire un premio speciale per il secondo classificato dopo aver ucciso la corsa al termine della prima settimana.
Re di Francia, dopo esserlo stato di Spagna e d’Italia, cosa aspetta adesso Vincenzo Nibali? Il messinese ha posto come obiettivo per il 2015 quello di eguagliare Coppi e Pantani diventando il terzo italiano a sovrapporre nello stesso anno il giallo al rosa. Una impresa riuscita per l’ultima volta proprio al Pirata nel 1998 e ritenuta da tutti impossibile per un ciclista al giorno d’oggi e, per questo, mai tentata negli anni d’immunità dorata dal doping neanche da Lance Armstrong. Ma quello che è oltre le possibilità di tanti grandi ciclisti potrebbe non essere precluso a uno squalo.