Non è che l’Europa non sta facendo nulla per contrastare l’attacco militare della Turchia in Siria, è che non ha alcun mezzo per farlo
Non è che l’Europa non sta facendo nulla per contrastare l’attacco militare della Turchia in Siria, è che non ha alcun mezzo per farlo
E l’Unione europea cosa fa? È la domanda che tutti – dagli euroscettici agli europeisti convinti – si sono fatti almeno una volta nella vita. Le accuse al gigante/nano europeo, come lo definisce Emma Bonino, vanno in due direzioni: l’Europa “non fa nulla”, e l’Europa non ha veri ed efficaci strumenti di politica, di diplomazia, ha le mani legate.
A scanso di qualsiasi discorso qualunquista ed approssimativo, ci siamo chiesti cosa l’Ue ha fatto o intende fare per la questione più calda del momento: l’invasione della Siria da parte di Erdogan, a parte le più o meno dure parole di condanna dell’offensiva militare. Ma c’è poi una seconda parte della domanda da tenere in considerazione: cosa potrebbe effettivamente fare? O meglio, potrebbe effettivamente fare qualcosa?
Alla luce dell’Unione europea così come esiste oggi, la risposta appare molto più semplice di quanto non si pensi: poco o nulla. Emblematiche in questo senso le parole di Emma Bonino, per la quale l’Europa non deve far finta di stupirsi che curdi del Rojava, abbandonati dai loro alleati, vivano questo come un tradimento, fino a chiedere la protezione di chiunque, persino di Assad. “Non abbiamo una politica comune né estera, né di difesa e di sicurezza comune. Sono competenze che i governi nazionali hanno voluto tenere per sé, e che dunque richiedono unanimità per ogni decisione”, dice Emma Bonino, sostenendo che tutto ciò fa il gioco di attori come Trump e Putin, che “non amano l’Unione europea, e preferiscono negoziati bilaterali”.
“Tanto tempo fa un mio collega belga definì ‘l’Europa, un gigante economico, un nano politico ed un verme militare’ anche solo per la difesa delle proprie frontiere. Definizione cruda, forse troppo, ma che rende l’idea”, ha detto Bonino commentando il ruolo della Ue.
I comunicati al termine delle riunioni formali, le timide minacce di bloccare l’export di armi, le dichiarazioni su quanto sia folle continuare i negoziati di ingresso della Turchia nella Ue hanno effettivamente senso o efficacia? Possono aspirare a incidere in un qualsiasi modo sulla situazione? La risposta, anche qui, appare abbastanza scontata.
Mentre intraprendiamo qualsiasi tipo di discorso che metta nella stessa frase le parole Ue e Turchia, non possiamo prescindere dall’ingombrante accordo che Bruxelles ha stipulato con Ankara nel 2016 per trattenere i profughi siriani e non farli avventurare nella cosiddetta rotta balcanica. In quel caso l’Ue ricoprì letteralmente la Turchia di soldi per stroncare il problema sul nascere. Erdogan naturalmente sta usando in questi giorni quell’accordo come spauracchio nei confronti di Bruxelles, minacciando di mandarci oltre 3 milioni di profughi, se avessimo osato criticare le sue azioni militari in Siria.
E lo spauracchio dei migranti è una delle leve che Erdogan usa non appena la Ue parli di interrompere i negoziati di adesione alla Ue.
L’Ue si trova quindi in una posizione delicata, oltre che totalmente sprovvista di strumenti per intraprendere qualsiasi azione realmente efficace per spaventare Erdogan – peraltro presidente di un paese della Nato – e spingerlo a rivedere la sua aggressione ai curdi in Siria.
C’è da dire poi che il blocco dell’export, finora una delle azioni più concrete, non ha un reale peso sulle decisioni di Ankara, dal momento che la Turchia ha aumentato i fondi statali destinati al materiale bellico del 65 per cento, arrivando a circa 17 miliardi di euro all’anno e si sta sganciando dal vincolo delle importazioni dall’estero, producendo gli armamenti direttamente in patria.
E come se non bastasse, a rincarare la dose c’è il fatto che molte delle decisioni dei paesi Ue, come quella dell’Italia, riguardano i contratti di esportazione di armi futuri e non quelli già in essere. In che modo allora il ban delle armi può avere conseguenze concrete sull’azione militare contro i curdi di queste ore? E, in ogni caso, il mercato delle armi è così vasto, che se anche Berlino o Parigi e tutte le capitali Ue chiudessero i rubinetti, ci sarebbero tanti altri paesi pronti a stipulare contratti di vendita con Ankara.
Fuori discussione poi un impegno militare nella zona: non solo l’Ue non ha un esercito comune (tema spinoso su cui si dibatte da anni e anni senza aver mai trovato un accordo), ma nessun paese oggi ha uomini o mezzi in quell’area, da rappresentare un deterrente per Erdogan. Mezzi scarsi, rischi altissimi, e probabilmente nessunissima volontà politica.
La difesa dell’Ue oggi è affidata ad ogni singolo Stato membro e non è neanche lontanamente tra i piani a breve, medio o lungo termine, la creazione di una difesa comune. “L’Europa è una tigre di carta, senza un impatto reale in una situazione di crisi come quella in atto, come d’altronde lo è stata fin dall’inizio della guerra in Siria, otto anni fa”, scrive Pierre Haski, di France Inter.
Alla luce di tutti questi elementi citati, appare chiaro come la reale domanda da porsi sia non tanto cosa sta facendo l’Europa per i curdi in Siria, quanto, cosa potrebbe effettivamente fare, al di là di prese di posizioni dall’efficacia nulla o limitatissima. E allo stato attuale il quadro è più desolante che mai.
Cosa ha fatto finora l’Ue in merito all’invasione della Turchia in Siria
“L’Ue condanna l’azione militare della Turchia che mina seriamente la stabilità e la sicurezza di tutta la regione”. Sono le parole della nota conclusiva del Consiglio esteri dell’Ue sull’offensiva militare di Ankara nel nord est della Siria. I ministri degli Esteri degli stati membri, riuniti a Lussemburgo lunedì 14 ottobre si sono limitati a demandare ai singoli paesi qualsiasi azione concreta, in primis il blocco dell’export delle armi alla Turchia, che peraltro molti stati, Francia e Germania in primis, avevano già deciso nei giorni precedenti.
Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, prima del vertice, aveva sollecitato l’Ue a “parlare con una voce sola”.
L’operazione militare è stata dunque “condannata” all’unanimità dai ministri degli Esteri europei, ed è stata aperta la strada a sanzioni per le trivellazioni illegali turche in acque cipriote, oltre a chiedere a Washington la convocazione di una riunione ministeriale della Coalizione internazionale anti-Daesh per far fronte al riemerge della minaccia dell’Isis. Si può riassumere così l’impegno della Ue all’indomani dell’offensiva di Ankara.
L’Alto rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, si è detta soddisfatta della decisione sul blocco delle armi, che dovrà necessariamente essere presa da tutti e 28 gli stati membri. Dovrà poi esserci un meccanismo di verifica di quanto effettivamente fatto, come chiesto da Di Maio.
In molti hanno criticato il fatto che la Ue abbia demandato ai singoli stati la decisione di bloccare l’export, ma in realtà si è trattato di una soluzione più rapida, e capace di aggirare alcuni problemi tecnici derivanti sia dal fatto che la Turchia è un Paese candidato all’adesione all’Ue, sia perché è membro della Nato (Alleanza di cui molti dei 28 fanno parte).
La linea però, secondo le indiscrezioni, non era esattamente comune: se da un lato Di Maio spingeva per una condanna unanime delle azioni militari di Ankara, dall’altra c’erano paesi riluttanti, come Regno Unito, Bulgaria e Ungheria.
Parole dure nei confronti della Turchia invece quelle dell’Austria: “È assurdo che si stia discutendo di sanzioni e misure come l’embargo di armi contro un Paese che è formalmente impegnato nel dialogo di adesione con l’Ue. Come austriaci pensiamo che questi negoziati per l’adesione, che abbiamo congelato in questi ultimi due o tre anni, siano ora da cancellare formalmente”, ha osservato il ministro degli Esteri Alexander Schallenberg.
C’è da sottolineare poi come le minacce di Erdogan di mandare in Ue 3,6 milioni di profughi che attualmente si trovano in Turchia non abbia lasciato del tutto indifferenti i paesi europei più “sensibili” al fenomeno migratorio. Cipro, Grecia e Germania, i paesi Ue interessati dalla cosiddetta rotta balcanica.