Calcio, profughi, armi, guerre: il sistema di potere di Erdogan è un’eredità scomoda per la Turchia
Erdogan ha fondato il consenso su un sistema capace di infiltrare i suoi fedelissimi nei settori chiave del Paese, una rete di imprese, associazioni e complicità istituzionali con cui, chiunque governerà in futuro ad Ankara, dovrà fare i conti
Recep Tayyip Erdogan ha cambiato la Turchia per sempre. Durante il suo ventennio, prima da premier e poi da presidente, ha creato un sistema di potere e una macchina di consensi che hanno segnato non solo la politica ma l’intera società nazionale e continueranno a farlo per i prossimi decenni. A partire da una rete di grandi aziende e imprenditori amici, fino all’editoria, alla vita religiosa e persino al calcio, passando per l’ormai fondamentale industria delle armi perché, comunque andrà a finire il ballottaggio, il Paese non sarà mai più lo stesso.
Padrone del cielo
È stato lo stesso presidente turco a sottolinearlo in un discorso tenuto a settembre a una platea di reclute della Marina: «Tutti vogliono i nostri droni». Il riferimento è al micidiale Bayraktar TB2, il più desiderato – soprattutto in Ucraina, Africa, Medio Oriente ma anche da alcuni Paesi Nato – vista la capacità di consegna in tempi brevi e il costo contenuto (5 milioni di dollari al pezzo rispetto ai quasi 40 necessari per acquistare l’Heron israeliano o ai 30 richiesti per il Reaper statunitense, se e quando disponibili). Non a caso, durante la campagna elettorale, Erdogan ha presenziato a numerosi eventi legati all’industria militare, con la presentazione di nuove armi e persino di una nave da guerra, progettata proprio per lanciare i droni prodotti dalla Baykar, fiore all’occhiello del comparto privato turco della difesa, che il candidato dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu vorrebbe riportare sotto l’egida dello Stato. Ed è chiaro il perché.
Cresciuta di dieci volte da quando Erdogan è salito al potere nel 2003, l’azienda è ormai il maggior esportatore di armi della Turchia, con vendite per oltre 1 miliardo di dollari soltanto nel 2022 (anche grazie all’aggressione di Putin a Kiev). Comproprietario della società (insieme al fratello Haluk) è il genero del presidente turco, Selcuk Bayraktar, sposato dal 2016 con la figlia minore di Erdogan, Sumeyye. Paragonato a Elon Musk, Bayraktar pubblica spesso sui social post religiosi e interventi a favore del suocero, che raggiungono i suoi oltre 2,5 milioni di follower. Sebbene neghi da sempre ambizioni politiche – forse per non bruciarsi come successo all’altro genero del presidente, Berat Albayrak, marito della figlia maggiore Esra, prima ministro dell’Energia e poi delle Finanze, costretto a dimettersi nel 2020 – il 43enne e la sua famiglia hanno da sempre legami con i vertici dello Stato. Suo padre Ozdemir infatti era molto vicino all’ex premier Necmettin Erbakan, leader del partito islamico Refah (poi bandito dalla politica dopo il golpe militare del 1997) in cui da giovane militava anche Erdogan e tra le cui fila nel 1994 fu eletto sindaco di Istanbul, centro di un altro grande strumento di consenso del presidente: le mega-infrastrutture.
…e dell’economia
In Turchia li chiamano “progetti folli” e, a giudicare dalle dimensioni e dai costi faraonici, sembra un appellativo azzeccato. Basta ricordarne solo alcuni, tutti realizzati a Istanbul: il terzo ponte sul Bosforo (lo Yavuz Sultan Selim) costato 3 miliardi di dollari e inaugurato nel 2016; un altro sul Mar di Marmara (l’Osman Gazi) aperto lo stesso anno e per cui sono stati spesi 1,2 miliardi di dollari; la grande moschea Camlica, la più grande del Paese con i suoi sei minareti e capace di ospitare 30mila persone (costata 290 milioni di dollari); il terzo aeroporto cittadino, il più grande del mondo aperto nel 2019; e il vicino Canale di Istanbul, un’opera lunga 45 chilometri attualmente in costruzione a ovest della città, che dovrebbe costare quasi 25 miliardi di dollari e raddoppiare la capacità di trasporto navale da e verso il Mar Nero. Senza dimenticare poi, tra gli altri progetti previsti nel resto della Turchia, il Ponte sospeso sullo stretto dei Dardanelli, il più lungo del mondo grazie a una campata di oltre due chilometri, inaugurato l’anno scorso dopo lavori per 2,7 miliardi di dollari; e la centrale atomica di Akkuyu, nella provincia meridionale di Mersin, la prima del Paese, un progetto da 20 miliardi di dollari in corso di realizzazione con la russa Rosatom.
Tutte queste infrastrutture, secondo la Banca mondiale, hanno permesso alla Turchia di classificarsi tra i primi dieci Paesi del mondo per numero di progetti infrastrutturali realizzati negli ultimi trent’anni. Non solo: secondo l’organismo di Washington, tra i primi 10 sponsor privati impegnati in questo genere di progetti, ben cinque sono società turche: Limak Holding, Cengiz Holding, Kolin, Kalyon e Mng Holding, quattro delle quali (Limak, Kolin, Cengiz e Kalyon) sono state coinvolte ad esempio nella realizzazione del nuovo aeroporto di Istanbul. In un video pubblicato l’anno scorso, Kilicdaroglu l’aveva definita la «banda dei 5», insinuando che le aziende avessero legami con l’Akp di Erdogan che, almeno nei primi anni del suo governo, rivendicava la bontà delle politiche neoliberiste per l’economia turca.
D’altronde, dal 2002, grazie a un accordo con il Fondo monetario internazionale, il partito al potere ha perseguito una campagna di privatizzazioni volte a modernizzare e rilanciare l’economia turca e che, secondo l’Akp, ha permesso di triplicare il Pil pro capite nazionale. Al centro di questo programma ci sono i cosiddetti “İhale”, un sistema di appalti e partnership pubblico-private che ha consentito di realizzare grandi infrastrutture e promuovere la crescita. Secondo l’opposizione però, questo ha anche permesso a una ristretta cerchia di aziende e imprenditori vicini al leader turco di ottenere lucrosi contratti pubblici. Prendiamo ad esempio la Cengiz Holding, il cui presidente del Cda, Mehmet Cengiz, è amico intimo di Erdogan, oltre a essere uno degli uomini più ricchi del Paese. Tra il 2002 e il 2020, secondo la Banca mondiale, la sua azienda si sarebbe aggiudicata 42,1 miliardi di dollari di appalti, tutti vinti in modo perfettamente legale. Secondo l’inchiesta Pandora Papers però, una parte della ricchezza di Cengiz sarebbe finita alle Isole Vergini Britanniche, una destinazione non esattamente in linea con la politica di rilancio nazionale promossa dall’amico Erdogan, la cui cerchia di sostenitori tra politici e uomini d’affari è penetrata persino nel mondo del calcio.
Un leader nel pallone
Prima della politica, il pallone fu la vera passione del leader turco. Cresciuto nel quartiere operaio di Kasimpasa a Istanbul, grazie al suo metro e ottantacinque di altezza e a una corporatura atletica ma robusta, da adolescente il presidente ricevette diverse offerte dalle giovanili di alcuni club professionistici, tra cui il Fenerbahce, tutte rifiutate per la contrarietà del padre, che gli ordinò di proseguire gli studi, in primis quelli religiosi. Ma il leader non dimenticò mai il calcio, riuscendo a coniugarlo con la politica.
Dopo il tentato golpe del luglio 2016, ad esempio, il suo governo obbligò il Galatasaray, il club più titolato del Paese, a recidere ogni legame con la leggenda del calcio turco Hakan Sukur, rifugiatosi negli Usa e accusato di legami con l’imam Fethullah Gulen, considerato da Ankara l’ispiratore del colpo di Stato. Nel 2017 poi, l’allora presidente della Federcalcio turca, ex patron del Besiktas e imprenditore del settore gas, Yildirim Demiroren, appoggiò la campagna per il referendum con cui Erdogan trasformò la Turchia in una repubblica presidenziale.
Ma i suoi forti legami con il calcio risalivano già a qualche anno prima. Non a caso un suo grande ritratto campeggia ancora nell’atrio del centro di allenamento di una delle maggiori squadre della Super Lig: il Basaksehir, acquistato nel 2014 dall’imprenditore ed ex funzionario dell’Akp, Goksel Gumusdag, sposato con Muge Gulbaran, nipote di Emine, la moglie Erdogan, che grazie a lui ha potuto realizzare un sogno che aveva sin da bambino. Dopo aver acquisito il club, Gumusdag invitò il presidente turco a giocare un’amichevole nell’appena inaugurato stadio Fatih Terim, gara in cui il leader segnò addirittura una tripletta. Ma la proprietà della squadra, arrivata a vincere il campionato nel 2020, non è l’unica a essere vicina al presidente. Nel 2015, il club ha firmato un accordo di sponsorizzazione con Medipol, una rete di ambulatori e ospedali fondata dal ministro della Salute, Fahrettin Koca, strenuo alleato di Erdogan nell’Akp.
Anche la tifoseria è con lui. Come descritto nel libro “1312: Among the Ultras” dello scrittore britannico James Montague, il quartiere di Basaksehir è diventato uno dei maggiori centri di consenso dell’Akp a Istanbul. Tanto è vero che i tifosi di altre squadre ben più blasonate, come Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas, che parteciparono alle manifestazioni antigovernative di Gezi Park nel 2013, chiamano il club in modo sprezzante “Erdogan FC”. Tuttavia non sembra solo una questione politica: il principale gruppo ultras si chiama infatti “1453”, anno della conquista ottomana e islamica di Costantinopoli. Secondo Montague, la «rete» di potere e consensi costruita intorno al club potrebbe anche servire a promuovere i valori politici e religiosi del partito al governo, interessato a coinvolgere soprattutto i giovani, a partire dalle scuole.
Una generazione pia?
Il tentato golpe ha permesso a Erdogan e al suo Akp di portare avanti una campagna di arresti ed epurazioni, costata la libertà a decine di migliaia di oppositori, reclusi in carcere o fuggiti in esilio, e conclusasi con il licenziamento di quasi 130mila dipendenti pubblici, compresi magistrati, professionisti ma anche docenti di scuole e università, sospettati di essere coinvolti nel colpo di Stato. A tutto questo il presidente turco, che da giovane frequentò una delle prime scuole pubbliche religiose del Paese, ha aggiunto una campagna volta a promuovere l’insegnamento dell’Islam in classe, arrivando nel 2018 ad augurarsi di poter «allevare una generazione pia». Personalmente contrario al fumo e all’alcool e da sempre favorevole al diritto delle ragazze di portare il velo anche nei luoghi pubblici, il suo partito si fregia di difendere i “valori tradizionali” della famiglia, spesso a spese della comunità Lgbtqi+ e delle donne (nel 2021 ha persino ritirato Ankara dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere).
Ma non basta: l’Akp ha anche sfruttato la Presidenza turca per gli affari religiosi (Diyanet), un organo costituzionale volto alla supervisione statale in questo campo, per promuovere politiche conservatrici nella società e anche all’estero. Negli anni infatti, Diyanet ha organizzato una serie di attività rivolte alla diaspora turca in Germania, ma anche nel Regno Unito e in altri Paesi, collaborando invece in patria con il ministero della Famiglia e delle Politiche Sociali. In particolare, il governo avrebbe permesso a questo organismo di schierare alcune religiose presso le strutture di assistenza sociale e di organizzare progetti e seminari nelle moschee per “difendere i valori della famiglia”, promuovendo la visione conservatrice tanto cara all’Akp. D’altra parte, l’Islam è da sempre la bandiera del suo partito e la solidarietà con i Paesi e i fedeli musulmani è storicamente un’arma molto utile per Erdogan.
Accoglienza interessata
Proprio in ossequio a questo principio (almeno ufficialmente), il presidente turco aprì le frontiere ai siriani in fuga dalla guerra scoppiata nel 2011. Da allora, secondo i dati delle Nazioni Unite, la Turchia ospita quasi 3,5 milioni di rifugiati siriani, oltre a più di 320mila profughi di varie nazionalità.
Un’accoglienza che si è rivelata un formidabile strumento nelle mani del governo turco, in primis per ottenere finanziamenti dall’Europa. Grazie a un accordo mediato nel 2016 dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, Erdogan ottenne infatti dall’Unione europea la promessa di 6 miliardi di euro di aiuti, oltre alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, in cambio dell’impegno a fermare l’afflusso di migranti nel Vecchio Continente, uno spauracchio usato spesso dal presidente turco per ottenere ulteriori concessioni in Europa.
Ma questo non è l’unico vantaggio che avrebbe ottenuto da Erdogan, almeno secondo l’opposizione. Negli ultimi vent’anni, stando al partito Chp, la Turchia ha naturalizzato oltre 200mila tra siriani, afghani, iracheni, iraniani e libici, che hanno ottenuto la cittadinanza turca e quindi il diritto di votare e a cui l’Akp ha promesso che non espellerà i loro amici e parenti ancora senza documenti. Tutto questo mentre i sostenitori di Erdogan dipingono il presidente come l’unico difensore della nazione e l’opposizione come vicina all’insurrezionalismo curdo, anche grazie all’influenza ottenuta dal partito di governo sui media.
Manipolati
I principali gruppi editoriali sono infatti di proprietà di personaggi considerati vicini al presidente. Una delle prime realtà del settore è il Turkuvaz Media Group che, tra gli altri, controlla il quotidiano Sabah e l’emittente televisiva Atv, tra i più strenui sostenitori di Erdogan. Non dovrebbe sorprendere visto che il gruppo è guidato da Serhat Albayrak, fratello maggiore del già citato genero del presidente ed ex ministro, Berat. A questo si aggiunge anche il gruppo Demiroren, guidato dal già citato ex presidente della Federcalcio turca, Yildirim Demiroren, che nel 2018 ha acquisito il quotidiano Hurriyet e altre testate da Aydin Dogan, considerato fino ad allora un critico del presidente.
Così, secondo Reporter senza frontiere, il 90 per cento delle testate nazionali risulta sotto il controllo del governo, che dal 2016 ha chiuso quasi 150 media indipendenti e incarcerato 25 giornalisti soltanto nel 2022, arrestandone altri 10 proprio lo scorso 25 aprile, portando la Turchia al 165esimo posto su 180 Paesi per libertà di stampa e consegnando a Erdogan e alla sua cerchia di potere il controllo dei messaggi rivolti all’opinione pubblica. Arma vincente, insieme a tutte le altre qui citate, con cui il presidente è riuscito a mantenere i consensi. Un’eredità scomoda per la Turchia comunque dovesse andare a finire, questa o la prossima volta.