Ekrem Imamoglu: chi è l’anti-Erdogan che può diventare Sultano
Proviene da una famiglia osservante della Turchia orientale, è un musulmano praticante e da giovane lo voleva un club di calcio poi però si laurea ed entra in politica. La carriera del sindaco di Istanbul ricalca quella del presidente turco. Ma lui parla di uguaglianza, democrazia e benessere e può riportare al governo l’opposizione del Chp
Ekrem İmamoğlu ha un conto aperto con Recep Tayyip Erdoğan, letteralmente. Nella primavera del 1994 l’attuale presidente turco era appena diventato sindaco di Istanbul e poche settimane dopo si reca in visita nel distretto di Güngören, sulla sponda europea della città, dove il suo amico, compagno di partito e capo dell’amministrazione locale Yahya Baş lo porta a mangiare in un localino che serviva polpette tipiche di Akçaabat, una cittadina vicino Trabzon, sul Mar Nero. Pare che Erdoğan apprezzi: pur essendo nato nella più grande metropoli turca è infatti cresciuto a meno di 100 chilometri da Akçaabat, a Rize dove il padre era capitano della Guardia costiera.
Ma quel ristorante era gestito dal 24enne Ekrem İmamoğlu, che anni dopo diventerà sindaco di Istanbul. «Non presi i suoi soldi», ha ricordato qualche mese fa. «Non salderà mai quel conto». In realtà Erdoğan si offrì scherzosamente di pagare già durante l’udienza concessa da presidente all’allora candidato sindaco nel gennaio 2019. Ma İmamoğlu rifiutò: «È un debito d’amore, non può essere rimborsato in denaro».
Questo conto aperto però potrebbe essere regolato nel 2028, alle urne, quando il premio in palio sarà la presidenza della Repubblica. Il due volte sindaco di Istanbul è considerato l’astro nascente del Partito Popolare Repubblicano (Chp), il principale movimento di opposizione, capace di attirare non solo il voto laico ma anche una parte dei conservatori islamici, il tradizionale bacino elettorale di Erdoğan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). I due politici infatti, malgrado i quasi vent’anni di differenza, sono più simili di quanto si creda.
Il “sacco volante”
Sulla scrivania del suo studio İmamoğlu tiene sempre due libri: il Nutuk, testo chiave del padre della patria Atatürk, e il Corano. Il sindaco infatti, come il presidente, è un musulmano praticante e come lui proviene da una famiglia osservante con radici nella Turchia orientale: madre religiosa e conservatrice e padre nazionalista. Ma le similitudini non finiscono qui.
Ambedue amano il calcio, tanto da aver ricevuto in gioventù offerte da club professionistici. Da adolescente Erdoğan avrebbe potuto firmare per il Fenerbahçe, dopo il liceo invece İmamoğlu ha l’occasione di entrare nel Sebatspor, allora club di seconda divisione oggi fallito. In entrambi i casi però è il padre a impedirlo.
Ma sul campo, come in politica, i due giocavano su versanti opposti: se l’attuale presidente turco agiva da attaccante, il sindaco si piazzava sempre in porta. Anche perché il suo primo sport non era il calcio ma la pallamano, di cui alle elementari vinse il campionato turco di categoria per tre anni consecutivi.
Poi però conosce il calcio e comincia ad allenarsi sempre più spesso, tanto da impensierire il padre Hasan. La famiglia lo iscrive così a un liceo privato esclusivo ma Ekrem rifiuta di seguire le lezioni per settimane finché il padre non gli permette di frequentare il liceo locale di Trabzon, tradizionale fucina di talenti calcistici da dove vent’anni prima era uscito un giovane Şenol Güneş, per due volte c.t. della nazionale e del Beşiktaş. L’ultimo anno però gli allenamenti erano così intensi che İmamoğlu perde una cinquantina di giorni di lezione e viene rimandato in storia. Il giovane portiere era così bravo da essere stato avvicinato dal Sebatspor, che voleva offrirgli un contratto da professionista.
Ma i genitori volevano per lui una carriera da ingegnere per l’impresa edile di famiglia e così interviene lo zio Ali che porta il ragazzo a Cipro Nord, dove Ekrem si iscrive alla facoltà di ingegneria civile. Non basta però per fargli dimenticare il calcio. Soprannominato “sacco volante”, va a giocare per il Türk Ocağı di Limassol ma alla fine lascia sia la squadra che ingegneria e si iscrive a economia aziendale alla Girne American University. Due anni dopo abbandona l’isola, si trasferisce a Istanbul, passa al corso in inglese in amministrazione aziendale dell’università cittadina e nel 1994 si laurea, conseguendo anche un master in gestione delle risorse umane. Non rinuncerà mai allo sport, diventando dirigente del Trabzonspor calcio e basket e del Beylikdüzü, ma la sua passione è sempre di più la politica. D’altronde è un vizio di famiglia.
Dna politico
Agli ideali socialdemocratici İmamoğlu si avvicina già ai tempi dell’Università di Istanbul dove conosce la futura moglie Dilek Kaya, attivista contro le discriminazioni con cui avrà tre figli. È proprio questo incontro ad aprirgli le porte di un mondo che fino ad allora gli era estraneo ma che ormai padroneggia. «Può parlare con tutti e a tutti», dirà di lui il suo collaboratore storico Selçuk Sariyar per spiegarne la capacità di attrarre sia il voto laico che religioso. «Parla di uguaglianza, di qualità della vita, di democrazia», aggiungerà Necati Özkan, responsabile della sua campagna elettorale.
Ma la politica fa parte del suo Dna. Il bisnonno e il nonno erano membri del Partito Democratico (Dp), sciolto dopo il golpe militare del 1960. Un suo prozio appoggiava Necmettin Erbakan, leader del partito islamico Refah in cui mosse i primi passi Erdoğan, bandito dal colpo di stato del 1997. Uno dei suoi zii era un militante del Movimento Nazionalista (Mhp), un altro fu candidato dal Partito della Retta Via (Dyp). Il padre Hasan poi era un dirigente del Partito della Madrepatria (Anap), nella cui sezione giovanile si iscriverà anche Ekrem all’inizio degli anni ’90. Quasi tutta la famiglia della madre invece appoggiava il Chp e proprio al partito kemalista İmamoğlu si iscriverà nel 2008, dopo aver lavorato nell’impresa edile di famiglia. L’anno successivo si candida come consigliere nel distretto Beylikdüzü di Istanbul, prendendo la guida del Chp locale finché nel 2014 non viene eletto sindaco dell’amministrazione distrettuale. Da qui prende il via la volata che nel 2019 lo porta alla guida della capitale economica del Paese, che gli costa cara.
“Una sciocchezza” legale
La vittoria del marzo di quell’anno, arrivata per soli 13 mila voti contro l’ultimo premier turco Binali Yıldırım, viene contestata da Erdoğan che pretende di ripetere le consultazioni. Tre mesi dopo però il distacco tra i due supera gli 800 mila voti per İmamoğlu, che definisce “una sciocchezza” il ritorno alle urne. Una dichiarazione che nel 2022 gli vale una condanna a due anni di carcere e di interdizione dai pubblici uffici per aver insultato il Supremo Consiglio elettorale, una pena sospesa in attesa del pronunciamento della Corte Suprema d’Appello, a cui il sindaco fa ricorso.
Il procedimento giudiziario ricorda a molti la condanna per “incitamento alla violenza” inflitta nel 1999 allo stesso Erdoğan per aver letto una poesia del nazionalista Ziya Gökalp durante un comizio. Ma non è l’unica accusa mossa in tribunale contro İmamoğlu: l’anno scorso viene indagato anche per alcune presunte irregolarità in gare d’appalto assegnate nel 2015 ai tempi in cui era sindaco di Beylikdüzü. Tutto questo gli impedisce di correre contro Erdoğan alle presidenziali dello scorso anno, perse dall’ex leader del Chp, Kemal Kılıçdaroğlu, ma non compromette un secondo mandato da sindaco, ottenuto alle elezioni municipali del marzo scorso con oltre il 51,2%. Una popolarità che fa sperare a tanti in una sua candidatura (non ancora annunciata) alle presidenziali del 2028 a cui però Erdoğan potrebbe non partecipare.
Intanto, dopo essere diventato presidente dell’Associazione dei Comuni turchi, si sta costruendo anche un profilo internazionale. A fine aprile definisce «terroristi» i miliziani di Hamas responsabili degli attentati del 7 ottobre mentre per il presidente turco sono solo membri di un movimento di resistenza contro Israele. La scorsa settimana poi si reca in visita in Germania da dove tuona contro le politiche «sbagliate» dell’Ue volte a pagare i Paesi confinanti come la Turchia per accogliere i rifugiati al posto degli Stati europei. Due temi non proprio tipici del mandato di un sindaco.