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Home » Esteri

La trumpizzazione dei repubblicani: c’era una volta il Grand Old Party

Immagine di copertina
Credit: AGF

La vittoria di The Donald sancisce la fine dei repubblicani come li abbiamo conosciuti finora. A differenza del suo primo mandato, oggi il tycoon ha il totale controllo sul partito. Una trasformazione profonda che riflette quella avvenuta nella società Usa

Per la prima volta nella storia, gli americani hanno eletto un pregiudicato come presidente. Hanno restituito il potere a un leader che ha cercato di ribaltare un’elezione precedente, ha chiesto la «cessazione» della Costituzione per reclamare la sua carica, ha promesso di essere un dittatore dal primo giorno della sua seconda presidenza e ritorsioni e vendette contro tutti i suoi avversari. 

Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump sancisce una volta per tutte quello che già molti repubblicani di vecchia data avevano affermato nei mesi precedenti alle elezioni: il Grand Old Party, il “Gop”, il partito dell’elefante come lo si è inteso negli ultimi sessant’anni, è morto. Ne danno il triste annuncio tutti i testimoni di questa trasformazione avvenuta negli ultimi dieci anni, da quando il tycoon scese le scale della sua torre di New York per annunciare la sua candidatura. 

A sua immagine
Quello repubblicano è ormai un partito che si può definire a immagine e somiglianza del suo leader indiscusso. Molti esperti negli Stati Uniti hanno iniziato a chiamarlo il Partito Trumpista, visto che ormai tutte le sue politiche e i suoi membri, sia nel Senato che nella Camera dei Rappresentanti, rispondono alla volontà del nuovo presidente eletto e appoggiano, nella stragrande maggioranza dei casi, le sue posizioni estreme sull’immigrazione, l’economia e la politica internazionale isolazionista. 

Nella House of Representatives, abbiamo alla presidenza l’evangelico Mike Johnson, un super trumpista pronto a promuovere ogni proposta di Trump, anche la più folle, mentre nel Senato, dove i repubblicani hanno riguadagnato la maggioranza, vedremo il ritiro dalla posizione di leader repubblicano di Mitch McConnell.

Il senatore del Kentucky è stato una figura chiave del partito, manipolatrice e potente per vari decenni dentro il Senato, molte volte in opposizione rispetto a Trump, come in materia di invio di aiuti all’Ucraina, ed è stato visto come un freno da destra al Trumpismo.  Senza di lui, il prossimo leader della maggioranza repubblicana nel Senato potrebbe essere un alleato molto vicino al tycoon di New York, come il senatore Rick Scott della Florida. Uno che è a livello di Johnson in quanto a fedeltà. 

Con Trump di nuovo alla Casa Bianca, se entrambe le Camere, una volta contati tutti i voti mancanti in giro per gli stati, saranno repubblicane, la trasformazione del partito, iniziata nel 2015, potrà dirsi definitivamente compiuta. 

Il peso degli elettori
Se nella sua prima presidenza Trump affrontò resistenze dentro il Congresso da parte di vari legislatori e senatori, come quando nel 2017 trattò di annullare l’Obamacare (la popolare riforma sanitaria approvata dal presidente democratico), oggi invece per lui non sembrano esserci grandi ostacoli. 

L’intero partito è schierato con Trump, mentre la vecchia guardia, come George Bush Jr, rimane in silenzio. Qualche eccezione emerge, come l’ex vicepresidente repubblicano Dick Cheney, che ha appoggiato Kamala Harris nelle ultime elezioni non riconoscendosi più nell’Elefante, ma si tratta di critiche che finiscono per essere solo rumore di fondo.

Sarà che, nel corso degli anni, il partito repubblicano ha dovuto adeguarsi al volere della maggioranza dei suoi sostenitori. Una volontà che le ultime elezioni hanno consolidato ancora di più, visto che Trump non ha solamente vinto i sette stati indecisi ma, a meno di sorprese degli ultimi conteggi, ha raccolto la maggioranza anche nel voto popolare, con più di 74 milioni di preferenze (è stata la prima volta dopo vent’anni dall’ultima volta che un repubblicano ci era riuscito). 

La sua America
La morte del Gop si deve anche alla stessa natura degli Stati Uniti, che è cambiata negli ultimi dieci anni: un Paese stanco delle guerre all’estero, dell’immigrazione e della correttezza politica «woke».

Invece di essere scoraggiati dagli appelli pieni di rabbia di Trump su razza, genere, religione, origine nazionale e soprattutto identità transgender, molti americani li hanno trovati tonificanti. Invece di essere offesi dalle sue sfacciate bugie e dalle sue folli teorie cospirative, molti lo hanno trovato autentico. Invece di liquidarlo come un criminale ritenuto da vari tribunali un truffatore, un imbroglione, un abusatore sessuale e un diffamatore, molti hanno abbracciato la sua affermazione di essere stato vittima di persecuzione. Senza contare che Trump torna alla Casa Bianca dopo essere sopravvissuto a una seconda accusa di impeachment, ovvero di giudizio politico, dopo i fatti del 6 gennaio 2021 e l’assalto al Campidoglio per ostacolare il processo elettorale. 

Furono i repubblicani, tre anni fa, capitanati da McConnell, a salvarlo e a permettergli di candidarsi nuovamente. Poi, come una piccola palla di neve che prende velocità scendendo da una montagna, fino a convertirsi in una enorme valanga, il partito è caduto completamente in mano a Donald Trump, tanto da potersi permettere, a maggio, di bloccare una proposta di riforma migratoria bipartisan che avrebbe migliorato la crisi alla frontiera sud col Messico, solo perché tale riforma lo avrebbe danneggiato politicamente nelle elezioni. In termini pratici: bloccò i senatori repubblicani per evitare di concedere una vittoria politica all’allora rivale presidenziale, Joe Biden. 

A quattro anni dalla sua prima presidenza, ora Trump torna a Washington Dc, con molta più legittimità ed esperienza, cose che non aveva l’ultima volta. Ha imparato dal suo primo mandato, non tanto sulla politica, ma su come tirare le leve del potere dentro e fuori dal suo partito, fino a prenderne il controllo.

I candidati che lui appoggia vincono, i candidati che lui rinnega scompaiono. E questa volta avrà più libertà, un gruppo di consiglieri più allineati e un partito che, molto più che otto anni fa, risponde solo a lui. A sua immagine e somiglianza. 

In conclusione: l’era Trump non è stata un interregno di quattro anni. Supponendo che finisca il suo nuovo mandato nel 2028, sarebbe un’era di tredici anni, iniziata nel 2015, che lo mette al centro della scena politica statunitense con una forza e una rilevanza, tanto quanto lo furono presidenti come Franklin D. Roosevelt o Ronald Reagan. Colui che doveva essere solo un glitch, un errore, una buca nel cammino, potrebbe diventare un presidente di portata storica, nel bene o nel male. In fondo, è l’America di Donald Trump, baby…

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