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Home » Esteri

Perché Trump strizza l’occhio agli autocrati

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Stretta di mano fra Trump e il presidente russo Vladimir Putin: la foto risale al 2017, durante il primo mandato da presidente del tycoon. Da quando Trump è tornato alla Casa Bianca i due si sono sentiti almeno due volte al telefono. Credit: AGF

Parole di ammirazione per i leader delle autocrazie e bordate contro le liberaldemocrazie. Il presidente Usa si mostra forte con i deboli e debole con i forti. Ecco a chi strizza l’occhio nel nuovo scacchiere globale

Di Donald Trump sapevamo due cose che avevamo appreso nel corso della sua prima presidenza: da un lato ha una chiara fascinazione per le figure degli “uomini forti”, e dall’altro che sa essere totalmente imprevedibile. Alla luce di questo, potevamo aspettarci di vederlo dialogare – cosa che non è né il primo né l’ultimo presidente degli Stati Uniti a fare – con leader più o meno autoritari, ma forse non ci saremmo aspettati che ciò avvenisse dando l’idea di mettere all’angolo le democrazie liberali di stampo occidentale, storicamente il principale alleato di Washington, trasformate in un club di burocrati visti Oltreoceano come una zavorra.

Nella loro storia recente, come sappiamo bene, non sono mancate le occasioni in cui gli Stati Uniti hanno sostenuto attivamente golpe e regimi dittatoriali, ma la spina dorsale del suo posizionamento internazionale è sempre stata il rapporto con l’Occidente democratico. Nelle relazioni internazionali trumpiane, tuttavia, la forma di governo in alcuni casi sembra passare in secondo piano, in favore di un rapporto diretto con i leader, a prescindere da come esercitino il loro potere in patria.

Il potente Vlad
Il modo in cui Trump sta provando a condurre il dialogo per porre fine alla guerra in Ucraina è significativo di questo, come significativo è stato lo scontro nello Studio ovale tra il presidente e il suo vice JD Vance da un lato e il capo di Stato ucraino Volodymyr Zelensky dall’altro. La vicenda è lo specchio di come, per raggiungere il risultato promesso – la fine della guerra e la ripresa delle relazioni con Mosca –, il Tycoon sia pronto a mettere da parte le ragioni dell’aggredito e delle democrazie europee, totalmente tagliate fuori, allarmando molti sui rischi di ascoltare e sposare solo le ragioni di Vladimir Putin in barba agli alleati del Vecchio continente. Come andrà, essendo una trattativa tutt’altro che semplice, lo diranno il tempo e i fatti.

Tuttavia, se si è diffuso questo timore è perché molti osservatori hanno chiaro che Trump non ha alcuna antipatia per il capo del Cremlino. Se Joe Biden lo ha ritenuto apertamente un leader autoritario, e nel 2024 dal castello di Varsavia disse addirittura che «non può restare al potere» (frase poi rimangiata dopo le proteste di Mosca), l’approccio del Tycoon è ben diverso: già nel 2016, prima ancora di essere eletto presidente per la prima volta, elogiò Putin per il suo «gran controllo sul Paese», mentre solo il mese scorso ha ribadito che è molto più facile trattare con lui che con l’Ucraina.

L’“intelligente” Kim
Se oggi molti Paesi, soprattutto nell’Europa orientale, guardano con timore la corrispondenza di amorosi sensi tra Trump e Putin temendo che la loro sicurezza finisca sacrificata sugli altari della loro amicizia, il rapporto tra il Tycoon e un “uomo forte” che ha stupito più di tutti è stato probabilmente quello col dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Nel corso del primo mandato di Trump, infatti, la tensione tra Washington e Pyongyang era salita a un livello tale da far temere realmente che potesse sfociare in uno scontro militare, ma alla fine si rivelò un perfetto caso di “escalate to de-escalate” e, con grande sorpresa, sfociò nella prima visita della storia di un capo di Stato Usa nel Paese in fondo a tutte le classifiche sul rispetto dei diritti umani e delle libertà più elementari. E anche da questo mandato abbiamo probabilmente da aspettarci sorprese sul fronte nordcoreano: lo scorso gennaio Trump ha definito Kim «un tipo intelligente», aggiungendo che i due vanno reciprocamente d’accordo e che lo chiamerà.

Il “brillante” Xi
C’è poi un altro governo autoritario che, invece, sembra un’ossessione per Trump, ed è la Cina, contro cui ha lanciato una vera e propria guerra commerciale a suon di dazi salati. Per isolare Pechino e pur di allontanarla da Mosca, sembra disposto a passi inaspettati. Il Paese asiatico sembra essere il principale avversario americano nello scacchiere internazionale che va a definirsi, in cui l’Oceano Pacifico rischia di farsi molto più centrale dell’Atlantico. Eppure, il fascino di Trump per l’uomo forte non sembra tenere fuori il presidente cinese Xi Jingping, definito lo scorso anno una persona «brillante» che «controlla 1,4 miliardi di persone con il pugno di ferro», tanto da far sembrare persone come Biden «dei principianti», e nonostante Washington ritenga evidentemente la Cina un avversario, dopo ogni incontro con l’omologo cinese il presidente ha sottolineato che i due hanno un ottimo rapporto.

Scacchiere mediorientale
Se un legame privilegiato con la monarchia assoluta saudita non è una novità spuntata in America con l’attuale presidenza, Trump ha un sogno evidente per Riad: uno storico riconoscimento dello Stato di Israele sulla scia degli Accordi di Abramo messi in piedi nel corso della sua prima presidenza, qualcosa che rappresenterebbe una pietra miliare nel complesso scacchiere mediorientale. L’ottimo legame con il principe ereditario Mohamed bin Salman non è stato intaccato dai pessimi risultati nei rapporti sulla libertà di stampa e sul rispetto dei diritti umani, tanto più dal momento che i due condividono un avversario comune, l’Iran, anch’esso un regime autoritario ma verso il quale Trump non ha mai fatto sconti e con cui la tensione è oggi al vertice, con il Tycoon che ha lanciato un vero e proprio ultimatum per portare Teheran a un nuovo accordo sul nucleare.

Truffatori” europei
Ma se questi sono i rapporti con alcuni capi autoritari, diverso è l’approccio usato con i leader di Paesi e istituzioni democratiche, e lo vediamo ad esempio anche dal fatto che i recenti dazi sono stati elaborati in un’ottica commerciale e non tenendo conto della forma di governo. E quindi, nella diplomazia di Trump, l’Unione europea viene definita come «nata per truffare gli Stati Uniti», il Canada, da sempre ottimo vicino di Washington, diventa un Paese che vive di sussidi e che ha senso diventi il 51esimo stato degli Usa, mentre non ha escluso l’utilizzo della forza militare per prendere il controllo della Groenlandia, territorio sottoposto alla Corona danese e, per questo motivo, parte della Nato.

I rapporti consolidati tra gli Stati Uniti e le autocrazie sono tutt’altro che una novità, e questo è ben noto, ma l’approccio diplomatico di Trump sembra basarsi su un presupposto diverso, in cui la forma di governo sembra finire in secondo piano di fronte al tentativo di influenzare il nuovo ordine mondiale attraverso una politica pragmatica in cui la forza rischia di contare più del diritto, in una sorta di incontro di lotta libera in cui Washington si confronta direttamente con gli “uomini forti”, lasciando ai margini i deboli burocrati delle democrazie europee, visti come un peso nel disegnare un nuovo ordine globale di cui rischiano di essere relegati al ruolo di periferia e, di conseguenza, a essere una fetta sacrificabile nella sfera americana, sempre più rivolta verso altri lidi.

Starà quindi all’Unione europea in primis sapersi proporre come una realtà forte e non come un circolo di burocrati, in grado di essere rilevante grazie alla democrazia, e saper uscire da un potenziale abbandono al proprio destino ed evitare che la tanto attesa pace in Ucraina finisca per essere siglata sulla pelle del Vecchio continente.

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