Come Trump in 72 ore ha totalmente rovesciato la sua posizione sulla Siria
Con il nuovo presidente statunitense viviamo in un mondo meno sicuro, l'attacco missilistico in Siria è la prova. Il commento di Giampiero Gramaglia
Da quando Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca, anzi dal giorno in cui è stato eletto, ho avuto la costante sgradevole sensazione che il mondo fosse diventato un posto meno sicuro. Adesso, ne ho la certezza.
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I 59 missili cruise Tomahawk, lanciati poco dopo le due del mattino, dai cacciatorpediniere Uss Porter e Uss Ross, che si trovavano nel Mediterraneo orientale, contro la base aerea di Shayrat in Siria costituiscono un atto di aggressione al di fuori di ogni legalità internazionale, che rende più critici i rapporti tra Usa e Russia e non semplifica – anzi, complica – la ricerca di una soluzione negoziata al conflitto siriano.
Per Trump, la gragnola di cruise è la punizione al regime del presidente al-Assad per i bambini e i civili uccisi nell’attacco chimico di martedì nella provincia di Idlib, nel nord-ovest del Paese: c’è quasi una proporzionalità tra il numero dei missili scagliati e quello delle vittime della strage del 4 aprile. Ed è destinata a restare un fatto isolato: un colpo e basta, tanto per fare vedere che ne sono capace; e per impressionare e intimorire gli interlocutori, amici o nemici che siano.
L’effetto è più evidente sugli amici che sui nemici. Francia e Germania concordi additano Assad come “il solo responsabile” di quanto accaduto, perché “chi usa i gas non ha attenuanti”. L’Italia nega che siamo a un’escalation del conflitto e parla di “attacco motivato da un crimine di guerra” e di “risposta proporzionata”, auspicando che il negoziato riparta – mentre i missili l’hanno, almeno per il momento, troncato -.
La Russia denuncia l’aggressione contro uno Stato sovrano e paragona la mossa all’invasione in Iraq. Sostiene che si tratti di violazione del diritto internazionale con un falso pretesto – i gas di Idlib non sarebbero opera intenzionale dei lealisti siriani – e preannuncia “rapporti più difficili” in futuro tra Washington e Mosca.
Se l’azione non ha legittimità dal punto di vista del diritto internazionale, si configura però pure come una reazione all’inazione internazionale: per il veto della Russia, l’Onu non è ancora riuscita neppure ad esprimere una condanna di quanto è avvenuto.
Negli Stati Uniti, monta la consueta ondata di solidarietà nazionale che s’alza quando “il paese è in guerra”. Ma se lo speaker della Camera Paul Ryan e il senatore John McCain approvano, deputati e senatori, anche repubblicani, avvertono che il presidente deve consultare il Congresso, se vuole impegnarsi in un conflitto.
Ma l’intenzione di Trump non è questa: battuto il suo colpo, (mal)impressionato l’ospite cinese Xi Jinping, con cui cenava mentre i Tomahawk piovevano sulla Siria, e distratta un po’ l’opinione pubblica nazionale dalle beghe interne, che girano tutte storte per l’amministrazione, tornerà a occuparsi d’altro.
Il presidente americano ha affermato che l’azione è stata condotta nell’interesse della sicurezza degli Stati Uniti; ha evocato le immagini dei bambini vittime dell’attacco chimico; e ha spronato “i paesi civilizzati” a mettere fine al bagno di sangue in Siria che va avanti da sei anni. Infine, ha invocato la benedizione divina sull’America e sul mondo intero, che ne ha davvero bisogno.
Ma non è affatto certo, e neppure probabile, che un attacco del genere abbia conseguenze positive su scala mondiale e neppure nel Medio Oriente: soddisfa alcune istanze presenti un po’ ovunque da “occhio per occhio, dente per dente”; e gratifica l’ego da ‘sceriffo del deserto’ di Trump: “Io l’ho fatto e quel pappamolla del mio predecessore non l’aveva fatto” nel 2013, quando Assad già varcò la linea rossa delle armi chimiche.
È la prima esibizione sulla scena internazionale degli istinti muscolari del magnate presidente, che in 72 ore ha rovesciato la propria posizione sulla Siria – da “affari loro” e da “il cambio di regime non è una priorità” all’interventismo unilaterale. Ha creato una linea di frattura fra Usa e Russia, ha raccolto il plauso di Israele e della Turchia, senza per altro avvicinare a una soluzione l’intreccio di crisi nel Medio Oriente.
Per il Pentagono, l’azione ha “ridotto la capacità del governo siriano di utilizzare armi chimiche”, “danneggiando o distruggendo velivoli siriani e strutture di supporto e attrezzature”. Per le fonti di Damasco, i danni sono stati limitati (la pista non sarebbe stata toccata) ma ci sono state vittime. In quella base, c’era pure personale russo che sarebbe stato avvertito: una circostanza da chiarire.
Intorno al blitz è tutto un fiorire di leggende e dietrologie. Come intorno all’attacco di martedì 4 aprile. Perché la pista del ‘cui prodest’ porta a interpretazioni spesso divergenti dalle verità apparenti.
*Giampiero Gramaglia è giornalista e consigliere IAI. Il suo account Twitter è @ggramaglia
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