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Perché Trump vuole rendere pubblico il filmato dell’uccisione di Al Baghdadi, mentre Obama non fece lo stesso con Bin Laden

Immagine di copertina

Che Donald Trump volesse fare di Abu Bakr Al Baghdadi, il leader dell’Isis ucciso in un raid in Siria domenica 28 ottobre, un trofeo da esporre ai media, è apparso chiaro fin dal primo momento.

In una trionfale conferenza stampa a poche ore dall’uccisione dell’autoproclamato Califfo, il presidente Usa ha descritto l’operazione dei suoi militari nei minimi dettagli, soffermandosi su particolari “coloriti” e forse immaginifici.

“Al Baghdadi è morto urlando, piangendo, come un codardo”, ha raccontato Trump nel suo consueto stile. “Il leader dell’Isis è arrivato alla fine del tunnel mentre i nostri lo inseguivano. Si è fatto  esplodere, il muro gli è crollato sulla testa”.

Su questa ricostruzione hanno sollevato dubbi autorevoli giornali come il New York Times e il Guardian. Ma, del resto, è proprio la natura in parte propagandistica dell’operazione di Trump che induce ad alcune riflessioni.

Innanzitutto, poiché non c’è trofeo che sia realmente tale finché non viene esibito mediaticamente, Trump ha annunciato che nei prossimi giorni, una volta declassificate, verrano diffuse immagini del raid, un’intenzione poi ribadita dal capo di Stato maggiore Mark Malley.

La memoria di molti è andata a quanto accadde nel 2011, quando l’allora presidente statunitense Barack Obama prese una decisione opposta: dopo l’uccisione di Osama bin Laden, vietò l’esposizione mediatica del leader di al-Quaeda per ragioni di sicurezza nazionale.

Come riporta il Washington Post in un articolo che mette a confronto queste due opposte decisioni, al tempo non era nemmeno chiaro che tipo di immagini della morte di Bin Laden fossero a disposizione del governo statunitense.

“Nel 2011 la CBS News ha riferito che 25 telecamere posizionate sugli elemetti dei soldati avevano registrato l’intero raid, compresa la morte del leader di al-Qaeda. Ma un rapporto successivo del New Yorker contestò queste affermazioni, sostenendo che le riprese fossero state fatte da un drone”.

Sia come sia, la principale preoccupazione di Obama fu quella di non provocare un’ondata di violenze jihadiste.

“È importante per noi assicurarci che le foto non si trasformino in un incitamento alla violenza o diventino uno strumento di propaganda. Non useremo queste immagini come fossero trofei”, disse al tempo Obama.

Come ricorda il Washington Post, chi premeva per la pubblicazione delle immagini, compresi diversi parlamentari repubblicani, non si arrese e si appellò alla giustizia statunitense. Ma, nel 2013, una corte federale americana rigettò queste istanze stabilendo, in linea con la posizione Obama, l’esistenza di un grave rischio per la sicurezza dei cittadini statunitensi qualora quei documenti fossero stati resi pubblici.

Come si può facilmente intuire, in mancanza di immagini ufficiali diffuse sui media, si scatenò la consueta orda complottista: cominciarono a girare teorie di varia natura che mettevano in dubbio l’uccisione di Bin Laden, adombrando il sospetto che si trattasse di una menzogna messa in giro ad arte dal governo Obama.

Ma, appunto, l’ex presidente Usa ritenne che soffiare sul fuoco della radicalizzazione islamista fosse un pericolo da evitare a ogni costo.

Non fu solo una scelta di natura securitaria, bensì anche “culturale” nonché geopolitica, legata alle strategie da mettere in campo nella complessa lotta al terrorismo jihadista, alla necessità di non spingere tra le braccia di al-Quaeda giovani islamici a rischio di radicalizzazione.

La tattica di Trump è esattamente opposta: l’esposizione del filmato dell’uccisione di Al Baghdadi serve a pompare la sua immagine di leader muscolare, baluardo della difesa della patria, impavido di fronte ai tagliagole e pronto a sbeffeggiarli come fossero avversari politici qualsiasi.

L’effetto propagandistico è assicurato: le bacheche degli utenti, sui social, pullulano di condivisioni del discorso presidenziale in cui Al Baghdadi viene definito “codardo”, “cane vigliacco”, in cui si dice che è stato ucciso mentre fuggiva come un bambino piagnone.

Anche chi non ama Trump, sotto sotto, sente salire in petto l’orgoglio occidentale e cristiano e viene (anche involontariamente, come per un riflesso inconscio) in qualche modo rassicurato dal maschio alfa presidenziale che ha “stecchito” il Califfo e messo in ridicolo la sua propaganda jihadista.

Con la cerimonia mediatica il quadro sarebbe completo, molto più redditizio (e molto meno rischioso sul piano personale) di qualsivoglia inchiesta sui rivali alle prossime elezioni presidenziali.

Certamente più discutibili sono gli effetti sistemici di un’operazione del genere, specie in una fase storica in cui l’Isis è stato sconfitto sul campo, ma la cui ideologia, come spiegato da Benedetta Argentieri in questo articolo per TPI, è ancora tutt’altro che morta.

È utile alimentare focolai di radicalizzazione ancora tutt’altro che estinti, e che possono confluire non solo nell’Isis, ma nell’intera galassia di organizzazione jihadiste che costellano il Medio Oriente?

Le conseguenze di un carosello mediatico turbo-occidentale sono in parte immaginabili, certamente pericolose.

Va anche detto, a beneficio di Trump (e probabilmente nobilitandone le azioni ben oltre le sue intenzioni) che l’intransigenza al contrario nei confronti del terrorismo islamico ha una storia nobile.

L’idea che nulla si debba censurare e nulla temere, che la battaglia culturale vada condotta sul terreno della de-sacralizzazione portata agli estremi dello sberleffo, sta dietro ad esempio anche alla satira irriverente di Charlie Hebdo.

Ricordate? Al tempo furono in molti, pur nell’ovvia condanna dell’attentato al giornale francese, a interrogarsi sulla legittimità di vignette considerate blasfeme, sugli effetti che potevano provocare.

È giusto irridere chi è pronto a farsi saltare in aria se viene irriso? La battaglia culturale, a lungo termine, la si combatte meglio non provocando noi stessi radicalizzazioni per contrasto o erodendo dalle fondamenta l’ideologia estremista?

Una vignetta, proprio per il suo carattere sardonico, è per certi versi l’atto più eroico e allo stesso tempo efficace nello smontare l’aura dogmatica dei fanatici.

Come è evidente, uno sberleffo presidenziale ha implicazioni ben diverse da quelle di un giornale satirico. Sappiamo, inoltre, che la storia dell’anti-islamismo da copertina ha anche capitoli molto meno nobili.

Basta pensare alla t-shirt di Calderoli su Maometto per capire che non è semplice definire esattamente i contorni dell’operazione di Trump, specie per il tornaconto personale ed elettorale sulla base del quale è evidentemente costruita.

Resta il fatto che attorno alla diffusione di questo video è destinato ad accendersi un ampio dibattito giornalistico e politico, che chiama in causa non solo questioni di sicurezza nazionale, ma anche le strategie di lungo termine nella lotta al terrorismo islamico e al suo retroterra ideologico e culturale.

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