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“Mi picchiavano con sbarre roventi per farmi prostituire”: la tratta delle donne in India raccontata da chi l’ha subita

Cinque anni fa il sindacalista britannico GuyRyder, attuale direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), in occasione della presentazione dell’ultimo studio sull’economia generata dal lavoro forzato, disse: “Dobbiamo concentrare tutti i nostri sforzi per sradicare questa pratica intrinsecamente cattiva ed estremamente redditizia il più presto possibile”.

È infatti intrinsecamente malvagio che l’uomo arrivi a considerare un suo simile come pura merce e, attraverso l’inganno, la coercizione e la violenza, lo disumanizzi riducendolo in schiavitù per mero interesse.

Sembra un fenomeno di epoche passate, ma è reale e ben presente ovunque nel mondo. In quello studio del 2014 l’ILO stimava che i profitti annuali generati dal traffico di esseri umani per il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale e, più in generale, la moderna schiavitù, fossero pari alla cifra astronomica di 150 miliardi di dollari.

È difficile calcolare quante siano esattamente le vittime di questo enorme giro d’affari occulto, viste le diverse forme e sfumature di schiavitù e sfruttamento esistenti.

L’ILO nel 2017 ha stimato che fossero quasi 40 milioni le vittime nel mondo, un dato poi confermato (40,3 milioni) dal più recente Global Slavery Index 2018 della Walk Free Foundation. Il lavoro forzato colpisce quasi 25 milioni di persone, mentre per il resto si tratta di matrimoni forzati.

Non è un caso dunque che il 71 per cento delle vittime di schiavitù siano donne. Il traffico di esseri umani cresce e ha “assunto dimensioni orribili”, come ha denunciato lo scorso 7 gennaio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), secondo cui il 30 per cento delle vittime del sistema criminale sono minori.

Il maggior aumento di casi è stato registrato nelle Americhe e in Asia, dove l’India, economia emergente con una popolazione da più di un miliardo e 300 milioni di abitanti, è da anni al centro del traffico interno e di transito per quello internazionale nella regione con decine di milioni di vittime stimate dalle Ong.

In tutti gli studi il traffico a fini di sfruttamento sessuale emerge drammaticamente come il fenomeno più comune e più remunerativo. Per l’Unodc la schiavitù sessuale copre una fetta del 59 per cento delle vittime del traffico nel mondo e l’India ne risulta notevolmente colpita, così come la Thailandia e la Malesia.

Nonostante la crescita economica degli ultimi 10 anni abbia praticamente dimezzato la popolazione indiana che vive al di sotto della soglia di povertà, le realtà rurali sono ancora arretrate a livello economico.

L’humus perfetto per la criminalità organizzata. L’arretratezza economica, la disoccupazione, la corruzione ancora elevata fra le autorità locali e, non da ultimo, la vicinanza a diverse frontiere internazionali molto permeabili, sono caratteristiche che hanno trasformato la regione nord-orientale dell’India nel contesto ideale per il fenomeno della tratta.

Oggi “l’hub” indiano del traffico è rappresentato in particolare dallo stato del Bengala Occidentale dove nel 2016 sono stati registrati il 44 per cento dei casi di tutto il paese. Gli ultimi dati ufficiali disponibili lo provavano già tre anni fa.

Un rapporto del National Crime Records Bureau (NCRB) indiano rivelò che il Bengala Occidentale è lo stato indiano con il più alto numero di casi di traffico segnalati, 3.579 in un anno. Sono in molti però a ritenere che si tratti solo della punta dell’iceberg in quanto nello stesso periodo i dati del NCRB mostravano che nel Bengala più di 70 mila persone erano scomparse tra cui 16.881 minori e non è difficile supporre che molti siano finiti vittime della tratta.

Tra i distretti più colpiti dal traffico nella zona più meridionale di questo enorme stato indiano c’è sicuramente il 24 Parganas South. Un contesto di frontiera che si sviluppa in un territorio difficilmente raggiungibile e caratterizzato da un’intricata rete fluviale che ha creato enormi acquitrini ricoperti da piante palustri e palme. Nell’area di Sundarbans piccoli villaggi emergono su isolotti di terra circondati da risaie ed enormi alberi tropicali.

Per le strade trattori carichi di gente rientrano dai campi di juta e patate, mentre torme di bambini fanno baccano nuotando tra i gigli d’acqua. Nei portici di un bar alcuni uomini si rilassano fumando e mangiando paan, una foglia di betel triangolare che contiene una preparazione di ingredienti aromatici. In un viottolo, seduta su una stuoia nella sua capanna, la 25enne Ismat è esitante e chiede di non essere ripresa né fotografata per evitare di venire rintracciata.

Poi inizia a raccontare: “Stavo andando al mercato. Un gruppo di uomini mi bloccò, mi costrinse a salire su una macchina e poi a mangiare dei biscotti. Ripresi conoscenza tre giorni dopo quando ormai ero a Calcutta. Persone che non conoscevo mi dissero che mi avevano venduta e che ora lavoravo per loro in una specie di albergo”. La ragazza si copre la testa con il sari, fa una pausa. Poi prosegue con voce flebile.

“Dovevo prostituirmi e ricevere almeno tre clienti al giorno. Provai a rifiutarmi ma mi picchiarono violentemente. Sono rimasta intrappolata lì per mesi”. Ismat è una donna fortunata perché è riuscita a fuggire grazie a una telefonata fatta di nascosto. Ora però dice di trovare grosse difficoltà a reintegrarsi nella comunità dove la stigmatizzazione è molto diffusa, il che le rende difficile anche trovare un lavoro.

“La reintegrazione delle vittime del traffico nei loro villaggi è molto complessa perché la donna che è stata violata viene considerata in qualche modo ‘impura’ e non viene più accettata. Quell’elemento di innocenza svanito porta poi le ragazze ad autocolpevolizzarsi per ciò che gli è successo e ad arrendersi”. Afferma Leena Kejriwal, artista fondatrice dell’Ong #Missing, che si occupa di sensibilizzazione e prevenzione sul tema del traffico e dello sfruttamento attraverso gruppi di lavoro, istallazioni artistiche e videogames.

“La tratta è un sistema che si sviluppa dalle zone rurali alla città. Colpisce tra i più poveri fra i poveri. Miseria e privazioni arrivano a spingere mariti e familiari a vendere mogli o figlie ai trafficanti. Per quest’ultimi è anche facile abbindolare con false promesse di lavoro le donne più deboli che sognano una vita migliore in città o vivono situazioni difficili causati da matrimoni precoci”, conclude Leena.

Proprio questo è il caso di Ruma, 28 anni, che parla girata di spalle nella penombra con il volto semi nascosto da un velo rosso illuminato dalla tiepida luce di una lampadina. “Una situazione familiare difficile da giovane madre di tre figli. Avevo bisogno di soldi e mi sono fatta convincere. Poi sono finita a Delhi a lavorare come prostituta”.

Fa un lungo sospiro mentre agita nervosamente le dita. “Dopo diversi mesi ho iniziato a star male fisicamente. Chiesi di essere liberata, ma mi risposero che avrei lasciato quel posto solo da morta. È un miracolo che io sia fuggita, perché la polizia non mi avrebbe mai liberata”.

La giovane vittima tocca un punto cruciale nel suo triste racconto, vale a dire la scarsa applicazione ed efficacia della legge indiana in materia di lotta al traffico e allo sfruttamento sessuale. La prostituzione in India è legale se praticata in privato, mentre sono illegali quella minorile e le case chiuse, anche se ampiamente diffusi e tollerati nel paese.

Il traffico di esseri umani e il lavoro forzato sono illegali grazie ad una serie di leggi come l’Immoral Traffic (Prevention) Act il Child Labour Act del 1986. Anche se le autorità contrastano il reato attraverso le sezioni 366ae 372 del Codice penale che vietano il rapimento e la vendita di minori.

Nonostante il notevole numero di casi registrati e stimati, i dati del NCRB però sono chiari sull’inefficacia del sistema giudiziario indiano. Nel 2016 vennero contati soltanto 8.132 casi di traffico di esseri umani in tutto il paese, mentre gli arresti furono appena 1.847 e solo in 11 casi si arrivò alla condanna.

Lo conferma Tinku Khanna, responsabile a Calcutta dell’Ong indiana Apne Aap attiva nella lotta al traffico e allo sfruttamento sessuale delle donne nella regione, che aggiunge: “Non è solo dovuto alla legislazione debole, ma alla sua applicazione. Le gang del traffico sono riuscite ad entrare in differenti strati della società del Bengala Occidentale, dai panchayats (consigli dei villaggi n.d.r), alle associazioni comunitarie, fino alle sezioni dei partiti locali e perfino nella polizia”.

Secondo molti però qualcosa potrebbe cambiare se venisse approvato il Trafficking of Persons (Prevention, Protection and Rehabilitation) Bill, che è stato presentato dal governo al Lok Sabha (la camera bassa del parlamento indiano) lo scorso 18 luglio. Il disegno di legge prevede un inasprimento delle pene per i reati legati al traffico, la creazione dell’Anti-trafficking Bureau e programmi di salvataggio e riabilitazione.

L’Ong si dicono ottimiste, ma è difficile che si arrivi a un’approvazione prima delle elezioni nazionali previste per il prossimo maggio, anche perché il disegno ha generato un forte dibattito. Le lavoratrici del sesso di tutto il paese con le loro organizzazioni nei mesi scorsi sono insorte e fanno lobbying contro il provvedimento, sostenendo che le renderà ancora più vulnerabili esponendole ad aggressioni.

“La legge non distingue chi fa questo lavoro volontariamente da chi è vittima del traffico”, sostiene Smarajit Jana, Presidente del Durbar Mahila Samanwaya Committee, il sindacato che rappresenta oltre 65mila prostitute in tutto il Bengala Occidentale e ha sede a Sonagachi il quartiere a luci rosse di Calcutta che ospita circa 17mila prostitute.

“Noi ci assicuriamo già che non ci siano minorenni e vittime del traffico nei bordelli. Si sono dimenticati dei nostri diritti. Se il disegno diventerà legge la polizia corrotta ci tormenterà ancora di più”. Le Ong che lottano contro il traffico sono però convinte che chi si oppone al disegno promuova o potrebbe addirittura essere legato al sistema criminale.

“La legge si deve fare. La presenza di un luogo come Sonagachi a Calcutta alimenta il traffico nel nostro stato. – sostiene decisa TinkuKhanna che conclude – Come si può definire lavoro vendere il proprio corpo per sopravvivere? Anzi essere costretti a farlo…”.

Al di là dello scontro, a molti come Leena Kejriwal sembra chiaro che in India sul traffico e lo sfruttamento sessuale si sia creata una “zona grigia” in cui è difficile avere punti di riferimento su ciò che è legale e ciò che non lo è, e nel frattempo migliaia di vittime scompaiono ogni anno.

“In questo contesto è più facile che tu venga colpito da un fulmine che arrestato per traffico di esseri umani. E voglio dire… chi viene colpito da un fulmine? Bisogna fare qualcosa”.

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