Affari e petrolio: Total finanzia da anni la giunta militare in Myanmar
Il quotidiano Le Monde accusa la compagnia petrolifera francese di aver contribuito a creare un sistema che ha dirottato centinaia di milioni di dollari verso un’azienda controllata dai militari
Affari e petrolio: Total finanzia da anni la giunta militare in Myanmar
La compagnia petrolifera francese Total è accusata di aver finanziato la giunta militare in Myanmar, tramite un sistema che per anni ha dirottato centinaia di milioni di dollari provenienti dalla vendita di gas verso un’azienda controllata dall’esercito. Lo afferma Le Monde citando documenti interni del gruppo, dopo che negli scorsi mesi attivisti e organizzazioni non governative hanno chiesto ad aziende occidentali di rinunciare a pagamenti o investimenti che possano favorire i militari del paese, tornati al potere lo scorso febbraio con un sanguinoso colpo di stato.
Secondo il quotidiano francese, Total ha aiutato i militari a finanziarsi grazie a una società con sede nelle Bermuda, la Moattama Gas Transportation Company (MGTC), proprietaria di un gasdotto lungo 346 chilometri che collega l’enorme giacimento offshore di Yadana alla Thailandia, operato a sua volta da Total. MGTC avrebbe pagato dividendi ingenti ai propri azionisti, tra cui, oltre alla stessa Total, figura anche Myanmar Oil and Gas Enterprise (MOGE), un’azienda pubblica considerata dall’opposizione come la “scatola nera” della giunta militare. Secondo i documenti citati dal quotidiano francese, nel 2019 la MGTC ha riportato ricavi per 523 milioni di dollari a fronte di costi pari solamente a 11 milioni di dollari, un margine del 98 percento.
Utili simili sarebbero stati conseguiti facendo pagare in maniera eccessiva il trasporto del gas, che secondo stime citate dal quotidiano potrebbe essere costato il doppio del necessario. A sostenere questi costi sarebbero state le stesse aziende che ne avrebbero anche beneficiato: secondo Le Monde, sia la società che sfrutta il giacimento di Yadana che quella che possiede il gasdotto (MGTC) hanno infatti gli stessi azionisti, entrambe partecipate al 31 percento da Total, al 28 percento dalla compagnia statunitense Chevron, al 26 percento dalla thailandese PTT Exploration and Production Public Company Limited (PTTEP) e al 15 percento da MOGE. Una “ottimizzazione fiscale particolarmente aggressiva” secondo un esperto citato dal quotidiano, che avrebbe consentito di traslare gli utili sui trasporti, su cui le imposte dovute sono inferiori, privando le casse dello stato delle royalty sulla produzione del gas.
Le società coinvolte non devono neanche pagare imposte sui dividendi versati. Da quando è stata fondata nel 1994, MGTC ha sede a Bermuda, un paradiso fiscale in cui i dividendi non sono tassati. Un accordo raggiunto nel 1995 prevede inoltre che non dovranno essere pagate imposte sui dividendi in Myanmar e che questi non saranno soggetti ad alcuna ritenuta alla fonte.
Secondo gli ultimi risultati annuali di Total del 2020, le somme versate dalla compagnia francese al ministero delle Finanze del Myanmar sono da tre a quattro volte inferiori a quelle distribuite alla MOGE.
Total ha detto di non conoscere “le ragioni precise” che hanno portato alla decisione di collocare la sede di MGTC alle Bermuda “trent’anni fa”, affermando che questa scelta non sarebbe più possibile, dal momento che dal 2012 la compagnia ha stabilito che non aprirà nuove controllate in paradisi fiscali. Total ha anche dichiarato che gli utili di MGTC non sono “straordinari” e che quello adottato è uno “schema classico”.
Sanzioni e boicottaggi
Dopo il colpo di stato, attivisti e organizzazioni non governative hanno chiesto ad aziende occidentali come Total e Chevron di rinunciare a pagamenti o investimenti che possano favorire la giunta militare, in particolare nei confronti di MOGE, che secondo l’Onu rappresenta la più significativa fonte di entrate per il regime. Negli scorsi mesi il produttore giapponese di birra Kirin e l’azienda navale sudcoreana Posco hanno annunciato l’uscita da joint venture con società sostenute dai militari in Myanmar.
L’amministratore delegato della compagnia francese, Patrick Pouyanné, ha dichiarato a inizio aprile che l’azienda non ha intenzione di fermare le attività nel giacimento di Yadana, affermando che il sito consente di produrre elettricità usata da milioni di persone a Yangon, la città più importante del Myanmar, e in Thailandia occidentale. Pouyanné ha anche dichiarato che Total non ha versato imposte al Myanmar da quando è avvenuto del colpo di stato “per il semplice motivo che il sistema bancario non funziona più”.
Anche Chevron a marzo ha respinto le richieste di trattenere i pagamenti nei confronti dell’esercito, affermando che questi sono limitati al versamento delle imposte. Secondo quanto riportato nelle scorse settimane dal New York Times, la compagnia sta facendo pressioni sull’amministrazione statunitense per limitare la portata delle sanzioni sul paese.
Ieri, martedì 4 aprile, l’ambasciatore del Myanmar presso le Nazioni Unite, Kyaw Moe Tun, un oppositore del colpo di stato, ha chiesto al Congresso degli Stati Uniti di imporre sanzioni più mirate sulla giunta militare. Il governo statunitense, insieme ai paesi dell’Unione Europea e altri paesi occidentali, ha denunciato il colpo di stato e imposto sanzioni sui militari che lo hanno guidato.
Il colpo di stato
Il 1° febbraio l’esercito del Myanmar ha deposto il governo della Lega nazionale per la democrazia (NLD) dopo mesi di polemiche seguite alla vittoria nelle elezioni parlamentari dello scorso novembre, in cui il partito aveva conquistato l’84 percento dei seggi, nonostante la commissione elettorale avesse respinto le accuse di brogli e irregolarità.
Prima dell’apertura della sessione del nuovo parlamento che avrebbe dovuto confermare i risultati, l’esercito ha arrestato figure di spicco del governo e delle forze che lo sostengono come il presidente Win Myint e la leader della NLD e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.
Dal colpo di stato del 1° febbraio, le truppe del regime hanno ucciso 766 persone e incarcerato più di 3.600, secondo il gruppo Assistance Association for Political Prisoners con sede in Thailandia.
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