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Disturbo da stress post-traumatico, ansia, fobie. Ecco cosa rischiano a livello psicologico i ragazzi salvati nella grotta in Thailandia

Immagine di copertina
AFP PHOTO / ROYAL THAI NAVY

I 12 ragazzi intrappolati con il loro allenatore in una grotta sono tutti sani e salvi. Ma l'esperienza traumatica che hanno vissuto potrebbe avere conseguenze anche a lungo termine

I ragazzi rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia adesso sono tutti salvi. Per loro è la fine di un incubo, ma inizia anche una fase delicata durante la quale dovranno trattati con la massima cura (qui abbiamo spiegato come verranno curati).

Restare chiusi per oltre due settimane in una grotta, rischiando la vita, può infatti comportare il sorgere di un trauma e importanti conseguenze a  livello psicologico.

“L’esito dell’operazione non era affatto scontato”, spiega Roberto Corti, speleo-subacqueo del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico (CNSAS), intervistato da TPI.it. “Anche solamente far passare i ragazzi e l’allenatore per punti ancora completamente coperti dall’acqua è sicuramente una grandissima impresa”.

Corti definisce l’operazione di soccorso “unica nel suo genere al mondo, da sempre”.

Ma quali possono essere le conseguenze psicologiche per i ragazzi? TPI.it lo ha chiesto alla dottoressa Anna Rita Verardo, psicologa e psicoterapeuta.

“Il disturbo più comune dopo un esperienza cosi traumatica è il  disturbo da stress post-traumatico (PTSD)”, spiega la dottoressa.

I sintomi di questo disturbo, dice Verardo, sono l’evitamento di qualsiasi stimolo che ricordi la vicenda (discorsi, persone, stimoli sensoriali),  un livello eccessivo di ipervigilanza (reazioni di allarme per stimoli banali, difficoltà a dormire), immagini intrusive (flashback) di quanto successo nella grotta, persistenza di emozioni negative, mancanza di motivazione e perdita di interesse per le attività prima piacevoli.

Come è possibile effettuare la diagnosi di questo disturbo? “Purtroppo però non sempre è facile valutare il PTSD in età evolutiva poiché i sintomi non si manifestano sempre allo stesso modo”, dice la psicologa. “È comune che in bambini che hanno vissuto un’esperienza traumatica ci siano anche altri comportamenti e/o sintomi più difficili da ricollegare all’evento”.

Immobilizzazione, fuga o aggressività,  le possibili reazioni dei ragazzi al trauma

“Le reazioni che si possono avere di fronte ad un evento traumatico che mette a repentaglio la sopravvivenza possono essere diverse e rappresentano strategie di difesa”, spiega Verardo. “Nell’immediato, sono escluse la riflessione e il ragionamento, che impiegherebbero troppo tempo, può, quindi, esserci chi si immobilizza come in uno stato di congelamento, chi in preda al panico vorrebbe fuggire, chi addirittura può diventare aggressivo”.

“In un secondo momento, quando la situazione si stabilizza, qualcuno potrà restare scioccato, qualcun’altro potrebbe farsi prendere dalla paura o dalla rabbia, altri riescono a usare la grinta per cercare di trovare soluzioni, altri ancora possono cominciare a prendersi cura di chi è più fragile. In questo caso credo che all’iniziale paura si sia poi sostituita la forza del gruppo e in questo quadro così difficile l’adulto di riferimento ha rappresentato un grande punto di forza per i ragazzi”.

Anche il fatto di aver vissuto questa esperienza in gruppo è importante.

“Essere in gruppo è fondamentale perché esiste nel nostro cervello un sistema comportamentale innato di affiliazione al gruppo, per cui il gruppo, soprattutto se guidato da un adulto di riferimento, assume la funzione di un luogo sicuro in cui sentirsi protetti, ma anche la funzione di creare un’unione di intenti per il raggiungimento di un obiettivo comune che, in questo caso, era il mantenersi in vita”, spiega la dottoressa.

“Inoltre il fatto di essere parte di una squadra di calcio ed essere in presenza del loro allenatore ha facilitato la tenuta di tutto il gruppo. Ecco perchè gli sport di squadra attivano comportamenti maggiormente cooperativi che permettono di utilizzare strategie molto costruttive”.

La meditazione, come già sottolineato, secondo la psicologa “sarà sicuramente stata importante per lasciar scorrere le emozioni negative ma anche per ridurre lo stress”.

L’importanza di intervenire precocemente: il ruolo delle famiglie

La dottoressa Verardo spiega che nei primi 30 giorni, le reazioni sopra citate sono fisiologiche e dovrebbero risolversi, per cui è necessario fornire alle famiglie sia le informazioni sulle prime fasi del trauma, in modo che i genitori possano supportare i ragazzi senza spaventarsi e senza accrescere il livello di allarme, sia le informazioni su come riconoscere i sintomi del disturbo da stress post-traumatico per poter intervenire precocemente.

“Dopo i primi 30 giorni”, spiega, “se i sintomi persistono, è già possibile intervenire con il metodo EMDR (Eyes Movement Desensitization and Reprocessing) specifico e con evidenze scientifiche per l’elaborazione dei ricordi traumatici, per evitare le conseguenze del trauma che possono avere, se non curate, effetti durevoli e permanenti”.

L’atteggiamento delle famiglie deve essere di supporto e di ascolto, spiega la psicologa.

“Nei primi giorni anche reazioni emotive molto intense sono normali e possono far parte del nostro innato meccanismo di elaborazione degli eventi traumatici, per cui è necessario lasciare esprimere i ragazzi e aiutarli a raccontare quanto accaduto nel momento in cui ne sentono il bisogno fornendo loro conforto e rassicurazioni”.

“È molto molto importante ricordare che nei prossimi giorni potrebbe essere normale che i ragazzi non manifestino disturbi e questo potrebbe durare anche a lungo in questo caso specifico. Ma questo non significa che possiamo pensare che abbiano dimenticato. Glie fretti del trauma a volte compaiono dopo molto tempo”, aggiunge.

L’attenzione dei media e la percezione del trauma: solo conseguenze negative?

“L’attenzione dei media, che assume spesso ritmi incalzanti, può riattivare i vissuti emotivi traumatici in maniera intensa, esponendo i ragazzi ad una possibile ritraumatizzazione”, dice la dottoressa. Può esserci tuttavia anche una valenza positiva per loro, “poiché essere riusciti a sopravvivere, essersi salvati, rivedere le persone che li hanno attesi e l’entusiasmo collettivo per la loro liberazione può dare loro la dimensione delle loro capacità. Quindi direi di monitorare l’effetto di questa esposizione e capire quale sia la strada migliore”.

Fobie, depressione e uso di droghe: le possibili conseguenze più gravi

“Di solito tra 1 e 6 mesi le reazioni fisiologiche all’evento traumatico si esauriscono”, spiega Verardo, “se si protraggono oltre i 6 mesi vuol dire che ci si trova di fronte ad un disturbo da stress post-traumatico. Se questo non viene trattato in modo adeguato, può cronicizzarsi o dare luogo ad altri disturbi, dal disturbo d’ansia, alle fobie, alla depressione, ai comportamenti impulsivi e all’uso di sostanze”.

“Per questi ultimi, gli adolescenti sono molto più a rischio per le peculiarità del funzionamento del cervello in questa fascia d’età. Per questo motivo è importante intervenire con un metodo mirato ed efficace come l’EMDR (Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, ndr)”.

La fiducia nei soccorritori

Roberto Corti, speleo-subacqueo del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico (CNSAS), intervistato da TPI.it, ha commentato la riuscita dell’operazione di salvataggio dei 12 bambini e del loro allenatore di calcio rimasti bloccati in una grotta in Thailandia per oltre due settimane. Un’operazione di salvataggio che definisce “unica nel suo genere, da sempre”.

Tutti, per fortuna, sono sani e salvi.

Alla base di tutto, c’è la fiducia. La fiducia nel soccorritore che viene a salvarti. Altrimenti, “nessuno si farebbe convincere a indossare una maschera e a immergersi in cinque metri d’acqua, dove la visibilità è pari a zero” (qui un’infografica video mostra come si sono svolte le operazioni di soccorso).

Ma come fa un soccorritore a conquistare la fiducia di una persona bloccata in una grotta da settimane?

“Parlando, innanzi tutto, e spiegando”, risponde Corti. “Probabilmente i ragazzini hanno anche meno paure acquisite con l’età. Tendono a fidarsi di più di chi li è andati a soccorrere. Ma questo è semplicemente il mio pensiero”.

“Coloro che riescono a fare queste operazioni in grotte sommerse sono veramente pochi al mondo e hanno sentito la necessità di andare a dare una mano”, dice lo speleo-sub per spiegare come mai i volontari siano accorsi sul posto.

Per essere in grado di effettuare questa operazione, infatti, i soccorritori non solo devono aver frequentato – ovviamente – dei corsi di speleologia subacquea, ma esercitare quotidianamente quest’attività.

“La prima cosa è proprio svolgere l’attività”, dice Corti. “Una persona può fare qualsiasi corso al mondo, ma se non continua a svolgere l’attività poi si perde. Bisogna avere l’abitudine a entrare in questi ambienti. Una volta che si è sviluppata l’abitudine e lo si fa per hobby, il passo successivo è studiare come recuperare gli infortunati”.

Come si interviene in questi casi?

“Tutte le operazioni di soccorso, in generale, cambiano di caso in caso. Bisogna avere delle procedure standard di base e poi adattarle al soccorso che si deve fare”.

Ma come mai occorrevano decine di speleologi e sub per tirare fuori una persona alla volta?

“Non essendo lì faccio delle ipotesi”, dice Roberto Corti, “Penso che due sub si occupassero del tratto iniziale, che era il più critico, e che gli altri sub erano allocati lungo la grotta per aiutare i bambini a uscire. Mi immagino il percorso diviso in più tratti. Completato il tratto più critico, i 4 chilometri di grotta in parte allagata erano comunque difficoltosi da fare. I bambini dovevano sempre essere accuditi e curati”.

C’è stata anche una vittima, un sub thailandese di nome Saman Kunan che è morto durante i soccorsi (qui la sua storia). Vuol dire che c’è stato qualche errore?

“Nell’attività della speleo subacquea non si può sbagliare assolutamente nulla. Ma non so cosa sia successo”, dice Corti. “Se è rimasto senza ossigeno mentre era sott’acqua può aver avuto un problema con la bombola. Se non era sott’acqua perché è morto solo lui?”

Si è trattato di un’imprudenza, secondo lei, da parte dell’allenatore che ha deciso di portare i ragazzi nella grotta?

“Normalmente non si va in grotta quando piove, soprattutto se ci si trova in una regione monsonica”.

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