I migranti costretti a scappare dalla Thailandia per una legge contro lo sfruttamento
Carcere e sanzioni elevate sono previste per chi assume migranti irregolari e può provocare rimpatri di massa in Cambogia, Laos e Myanmar
A soli 16 anni S. O. ha dovuto attraversare il confine tra Cambogia e Thailandia insieme a sua sorella, per andare a lavorare in un campo di canna da zucchero. Nel 1998 il suo paese, già piegato dalla siccità, era stato colpito da un’alluvione che aveva messo in ginocchio l’economia locale.
Per questo S. si è dovuta spostare in Thailandia, dove poteva mangiare solo un pugno di riso, ma aveva almeno la possibilità di sopravvivere. Dopo alcune settimane, però, è diventato impossibile continuare a lavorare. “Le nostre condizioni psicofisiche erano complicate, così, abbiamo rinunciato”, racconta.
Per lei, come per i migranti che vengono da Cambogia, Laos e Myanmar, la Thailandia è un sogno che ha rischiato a lungo di trasformarsi solo in schiavitù e sfruttamento.
Ma S. non si è arresa. È tornata insieme alla sua famiglia in Thailandia una seconda volta, ha iniziato a lavorare in una piccola industria insieme a tutta la sua famiglia. Hanno lavorato per 5 mesi ma non sono mai stati pagati.
“Quando il padrone ci ha chiesto di tornare nel nostro villaggio per reclutare altri connazionali, ne abbiamo approfittato per fuggire” ha raccontato S. Ora, vive in Cambogia grazie ai guadagni del marito, un migrante irregolare che oggi lavora in una industria elettronica in Thailandia per un guadagno che va dai 4mila e i 7mila baht (da 103 a 181 euro al mese).
S. ha due figli e ora vive in Cambogia grazie ai guadagni del marito. Ma una nuova legge proietta nuove ombre sul suo futuro e quello dei suoi bambini.
Un decreto del re emanato il 23 giugno 2017 impone infatti sanzioni elevatissime e anni di detenzione sia agli imprenditori che ai migranti irregolari che lavorano alle loro dipendenze. Il provvedimento legislativo prevede sanzioni dai 10 ai 20mila euro o da uno ai tre anni di carcere per tutti coloro che hanno alle loro dipendenze migranti non in possesso di documenti. Ancora più dure le conseguenze per i lavoratori provenienti dai paesi confinanti, spesso venduti e ridotti in condizioni di schiavitù: per loro, la legge prevede fino a cinque anni di carcere e da 51 a 2.500 euro di multa.
In Thailandia, ai lavoratori stranieri è già vietato l’accesso a numerose professioni.
Scacciati dai loro datori di lavoro, masse di migranti irregolari ora fuggono al confine. Sessantamila persone, per lo più di origine cambogiana e birmana, si sono viste costrette a lasciare il paese in seguito al provvedimento. Secondo le stime del Thailand Development Research Institute, ad andare via saranno in 300mila.
Con queste misure, il governo thailandese cerca di difendersi dalle accuse della comunità internazionale di non aver contrastato il fenomeno della schiavitù e del traffico di esseri umani. In una società in cui l’età media è molto elevata e i migranti rappresentano una importante forza lavoro, il decreto non è stato accolto con favore, soprattutto dagli imprenditori che operano nel settore ittico e nell’edilizia.
Una proroga di sei mesi consente ai datori di lavoro di mettere in regola i migranti alle loro dipendenze, mentre l’International Labour Organization spinge per una soluzione che coinvolga nel dialogo anche i migranti e i lavoratori.
“Le ripercussioni di questa legge sulle vite di migliaia di migranti sono imprevedibili” denuncia in una nota l’ong GVC, ong bolognese che opera nella cooperazione allo sviluppo in oltre venti paesi del mondo. L’organizzazione, con una sede a Siem Reap e una a Bangkok, affianca da anni i migranti cambogiani con un programma di protezione volto a prevenire e sradicare le violazioni dei diritti umani nei confronti di chi emigra.
“Noi continueremo a lavorare per promuovere sia in Thailandia che in Cambogia l’adozione di leggi che siano rispettose dei diritti dei migranti” dichiara Dina Taddia, presidente di GVC.