Le donne prigioniere in Tagikistan
Nel paese oltre un terzo delle donne è sottoposto regolarmente ad abusi e maltrattamenti: la ong Cesvi le aiuta a costruirsi una nuova vita con il lavoro
Sokina vive insieme al marito Zafar a Gulobod, un piccolo centro nel nord del Tagikistan. Possiedono una mucca da latte grazie alla quale producono yogurt e formaggi e possono permettersi una piccola casa.
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“I rapporti con mio marito si sono distesi”, dice sollevata. Fino a poco tempo fa, infatti, la situazione era tutt’altro che rosea. Prima che il progetto “Vivere con dignità” della ong italiana Cesvi la aiutasse a trovare un lavoro, non riusciva a contribuire al sostentamento della famiglia ed era completamente dipendente dal marito.
A causa della povertà era costretta a vivere nella casa dei genitori di Zafar dove era controllata e sfruttata dalla suocera. Non poteva uscire senza permesso, era oberata di lavori domestici pesanti e non poteva nemmeno parlare al telefono.
Oggi, come altre donne nei quattro villaggi di Gulabod, Istiqol, Gussar e Nuriston in cui Cesvi è presente con il suo progetto, ha una nuova vita. Gli operatori della ong hanno offerto consulenze e assistenza psicologica a lei e ai suoi parenti e, attraverso un piccolo budget iniziale, le hanno anche permesso di comprare una mucca.
(Sokina. Credit: Cesvi Onlus. Il pezzo continua dopo la foto)
In Tagikistan, la libertà personale per le donne è un concetto tutt’altro che scontato. Essere donna può voler dire subire violenze fisiche e psicologiche, soprattutto in casa. I numeri parlano chiaro: oltre un terzo della popolazione femminile è sottoposto regolarmente ad abusi e maltrattamenti, in primo luogo da parte dei mariti ma anche di altri membri della famiglia.
All’origine di tutto questo c’è la povertà diffusa e anche, soprattutto nel caso degli uomini, l’abuso di alcol. In questa ex Repubblica sovietica è l’uomo la figura cardine della società. Alle donne, che spesso si sposano contro la loro volontà, spetta la cura dei figli e il soddisfacimento dei bisogni del consorte.
La violenza di genere è anche una pesante eredità della guerra civile che tra 1992 e 1997 ha tormentato il paese. Le donne, oggi come allora, sono esposte al rischio di violenze e soltanto attraverso il lavoro, che consente loro di guadagnare un ruolo attivo nella società, riescono a riscattarsi.
Sokina, grazie a Cesvi, lo ha fatto e ed è riuscita a sfuggire a una spirale di abusi e oppressione.
(Sokina. Credit: Cesvi Onlus. Il pezzo continua dopo la foto)
Si stima che il 19 per cento delle donne tagike tra i 15 e i 49 anni abbia subito violenze fisiche almeno una volta nella vita. Questo è il quadro, ma c’è un fatto ancora più grave: molti abusi non vengono denunciati e le comunità tendono ad assumere un atteggiamento indulgente verso chi li compie. Così, solo una donna su cinque chiede assistenza legale.
“Le donne maltrattate sono penalizzate due volte in quanto, proprio a causa della dipendenza dal marito non hanno diritto alla propria libertà personale”, spiega Daniela Bernacchi, General Manager di Cesvi Onlus.
Insieme a Sokina, Cesvi ha aiutato altre 80 donne che hanno partecipato al progetto nei distretti di Jomi e Penjijent. C’è chi, come Sokina, ha scelto di avviare una piccola produzione casearia, chi fa la sarta, chi ha scelto l’apicoltura e chi ha aperto un forno.
“L’autonomia lavorativa è importante quanto l’assistenza psicologica perché pone le basi per una maggiore autotutela e, indirettamente, anche per il benessere dei figli”, sostiene Bernacchi.
(Credit: Cesvi Onlus)
* articolo a cura di Fabrizia Aralla
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