Cosa sta succedendo in Siria sud occidentale
Dopo il cessate il fuoco deciso dai presidenti Trump e Putin, la regione ha visto una serie di eventi che la rendono un caso tutto particolare del conflitto siriano
Il conflitto siriano ha visto una serie di tentativi di soluzione, tutti al momento falliti, mentre i combattimenti proseguono ininterrottamente dal 2011. C’è però una zona del paese, nel sud ovest, che rappresenta un caso particolare, in cui diversi accordi, tregue e guerre fredde si susseguono tra le forze in campo e i paesi circostanti.
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Nel luglio del 2017, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin, hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco nella zona sudovest della Siria.
L’evento non è stato una novità per la martoriata nazione siriana, afflitta da ormai oltre sei anni di guerra civile.
L’accordo, entrato in vigore il 9 luglio, ha sancito infatti il quinto cessate il fuoco tentato nel paese e il secondo riguardante soltanto alcune zone ben definite della Siria e non il suo intero territorio.
L’accordo tra Putin e Trump prevede di cessare le ostilità solo nei distretti di Dar’a, Suwayda e Quneitra, al confine tra Siria, Giordania, Israele e Libano.
In quest’area nelle ultime settimane e mesi si sono succeduti una serie di eventi che l’hanno resa difficile da raccontare, caratterizzandola come una zona particolare all’interno del contesto del conflitto siriano.
L’intero territorio si trova in effetti in un ambiente storicamente abituato ai conflitti. In questa stessa area infatti, negli ultimi 50 anni, si sono combattute ben cinque guerre tra Israele e i suoi vicini arabi.
In particolare, durante la guerra dei sei giorni del 1967, Tel Aviv conquistò le strategiche alture del Golan, ancora rivendicate dal regime siriano come parte del proprio territorio e annesse unilateralmente nel 1981.
Inoltre proprio il Golan fu uno dei teatri della guerra del Kippur tra Israele, Egitto e Siria del 1973 e rappresentarono un importante avamposto anche per le tre guerre condotte in Libano da Tel Aviv nel 1978, nel 1982 e nel 2006.
Il ruolo e la vicinanza di Israele e del Libano alla zona non sono secondari in questa storia. Rappresentando da decenni un fattore di attrito nella regione, il tentativo da parte di Washington e Mosca di tenere le ostilità del conflitto siriano il più possibile lontane dai confini di questi due paesi è un modo per impedire l’ulteriore diffondersi di una guerra che ha già attraversato il confine tra Damasco e Bagdad.
In quest’ottica vanno quindi visti diversi eventi particolari che hanno sorpreso gli attori internazionali. La regione è preda fin dagli albori del conflitto siriano degli scontri tra l’esercito regolare del regime e i ribelli, tra cui figurano anche miliziani appartenenti a gruppi islamisti di ispirazione terroristica.
La zona è abitata in prevalenza da musulmani sunniti e di alcune comunità di drusi, un gruppo etnico e religioso costituito dai seguaci di una religione monoteista di derivazione musulmana sciita.
La prima fase del conflitto in questo territorio ha visto la presenza di quell’Esercito siriano libero che, all’inizio della rivolta, sembrava poter contendere il controllo del paese al regime di Assad, senza farlo precipitare nell’estremismo religioso.
Tra il 2011 e il 2013 quindi si sono fronteggiate nella regione le forze del regime e una coalizione di milizie ribelli in gran parte laiche, sostenuta da alcuni paesi occidentali come la Francia. Questa situazione è andata via via mutando con lo sgretolarsi della principale formazione laica ribelle e l’arrivo dei cospicui finanziamenti e rifornimenti militari da parte di paesi arabi come il Qatar ai ribelli di ispirazione islamista, che hanno così preso la guida della rivolta contro Assad.
Questa regione rappresenta infatti uno snodo fondamentale per chiunque voglia controllare Damasco, che si trova infatti solo a poche decine di chilometri. Fu proprio a causa dell’avanzata dei fondamentalisti in questa regione che i ribelli riuscirono quasi a circondare la capitale siriana e questo spinse il presidente russo Putin a intervenire direttamente nel 2015 a sostegno del regime di Assad per impedirne la caduta.
Scongiurato il pericolo di un crollo delle forze fedeli al dittatore siriano, gli scontri successivi in questo territorio si sono poi concentrati soprattutto nella zona della città di Sheikh Maskin, nel sud del governatorato di Dar’a.
Fino al 2016 quest’area urbana è stata così teatro di scontri tra le forze di Assad, sostenute ormai in gran parte dall’Iran e dagli uomini del gruppo terroristico libanese Hezbollah, e le milizie di ispirazione islamista finanziate dai paesi del Golfo.
All’interno di questo contesto, alcuni gruppi armati salafiti come la brigata del comandante Khalid ibn al-Walid hanno giurato fedeltà al sedicente Stato Islamico, regalando ad Abu Bakr al-Baghdadi il controllo di una vasta striscia di territorio tra le alture del Golan e la Siria meridionale.
Proprio questo gruppo fu coinvolto, nel novembre 2016, in un episodio piuttosto singolare. Nell’aprile 2017, l’ex ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon rivelò infatti che, durante uno scambio di colpi contro altri ribelli, la milizia di al-Walid colpì anche il territorio presidiato dai militari israeliani e che, accortosi del fatto, chiese addirittura scusa all’esercito di Tel Aviv.
Alcuni commentatori arabi hanno criticato le dichiarazioni di Ya’alon sostenendo che le forze israeliane abbiano mal interpretato le presunte “scuse”, ma hanno confermato come sia quanto meno singolare la situazione di un gruppo islamista legato all’Isis che condivide un confine con Israele senza attaccarne direttamente le forze armate.
Ma la situazione sul campo non ha coinvolto solo Tel Aviv. Le forze armate libanesi conducono da oltre un anno incursioni contro le milizie legate al sedicente Stato Islamico che operano nell’area e nel paese dei cedri.
Beirut infatti ospita oltre un milione di rifugiati siriani, in gran parte musulmani sunniti, fuggiti dai combattimenti e dalle persecuzioni di Assad. Insieme a chi scappa dalla guerra, hanno sconfinato in Libano anche alcuni miliziani islamisti, che utilizzano le valli di confine come territorio franco per nascondersi dai propri nemici in terra siriana e rifornirsi di armi.
Nel luglio 2017 il governo del premier libanese Saad al-Hariri ha così lanciato un’offensiva nei pressi della città di Juroud Arsal, una zona situata al confine con la Siria, che per la sua posizione in un’area montuosa, è stata utilizzata come base da diversi gruppi attivi nel conflitto siriano, tra cui l’Isis e il fronte Al-Nusra.
Le operazioni, che hanno coinvolto anche Hezbollah, si sono poi concluse quando è entrato in vigore un cessate il fuoco tra le forze libanesi e i miliziani islamisti sunniti. In quest’area sono stati successivamente ritrovati i corpi di otto soldati di Beirut rapiti dal sedicente Stato Islamico nel 2014.
La tregua alle ostilità era stata accettata dal governo libanese proprio per permettere la liberazione o il ritrovamento dei militari. Questo accordo è stato negoziato tra il gruppo di ispirazione sciita Hezbollah e i miliziani sunniti legati all’Isis.
Accettato anche dall’Iran e avallato dal governo di Damasco, la tregua è stata allargata all’intera zona del sud ovest della Siria e prevede inoltre che i combattenti del sedicente Stato Islamico rimasti circondati dai propri nemici possano raggiungere in sicurezza, insieme alle loro famiglie, le zone ancora controllate dall’Isis.
Un accordo che non è piaciuto agli Stati Uniti e agli altri membri della coalizione internazionale che combatte contro i miliziani di al-Baghdadi. “Trasferire i terroristi da un posto all’altro, affinché qualcun altro possa affrontarli, non è una soluzione duratura”, si può leggere nel comunicato rilasciato dal comando della coalizione.
Secondo l’accordo accettato dal regime di Damasco, almeno 300 combattenti, definiti “esperti” da fonti militari statunitensi, dovrebbero essere trasferiti nei territori ancora nelle mani dell’Isis situati al confine con l’Iraq.
Ma i raid aerei della coalizione occidentale stanno per il momento impedendo l’attuazione di questo accordo e bloccando il convoglio dei miliziani islamisti nel deserto. Il comando militare a guida statunitense ha fatto sapere di non aver bersagliato direttamente i pullman perché a bordo è stata segnalata la presenza di donne e bambini, componenti delle famiglie dei terroristi in fuga.