Guerra civile in Sudan: la catastrofe umanitaria dimenticata dopo sette mesi di massacri
Oltre 7,1 milioni tra sfollati e rifugiati, centinaia di omicidi di massa e una popolazione falcidiata da fame e epidemie. La guerra civile tra i militari della giunta golpista ha ucciso 10mila persone in sette mesi. Ma i media (e l’Occidente) sembrano ignorarla
«L’esercito torni nelle caserme, le Rsf si sciolgano». Era uno degli slogan simbolo dei manifestanti che nel 2019 hanno rovesciato il regime trentennale di Omar al-Bashir in Sudan. Quattro anni e mezzo dopo, a Khartoum i cortei dell’opposizione non sfilano più. Risuonano invece gli spari dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) e dei soldati, tutt’altro che confinati alle caserme.
La nuova guerra civile del Sudan è scoppiata ormai sette mesi fa. Anche se da allora il conflitto trova raramente spazio sulle prime pagine dei giornali, viene considerato dalle Nazioni Unite «uno dei peggiori incubi umanitari della storia recente».
A scatenarlo, lo scontro tra i due uomini forti del Paese: il capo di stato maggiore e leader di fatto del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e il comandante delle milizie paramilitari Rsf, Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti.
Dopo quattro anni di proteste, governi di transizione, colpi di mano e trattative, il passaggio alla democrazia non si è materializzato. Al-Burhan e Hemeti hanno invece trascinato il Sudan in una nuova guerra, che finora ha costretto 7,1 milioni di persone (più del 15 per cento della popolazione) a lasciare le proprie case, con centinaia di migliaia di persone fuggite nei Paesi vicini.
Cessate il fuoco impossibile
Come a Gaza, in Sudan per il momento non c’è possibilità di un cessate il fuoco duraturo, nonostante a chiederlo, in questo caso, siano anche gli Stati Uniti. I colloqui promossi dall’Arabia Saudita si sono conclusi il 7 novembre senza un’intesa per interrompere le ostilità tra l’esercito e le Rsf. Nel frattempo gli uomini di Hemeti sono arrivati a controllare la maggior parte del Darfur, regione del Sudan occidentale grande quasi quanto la Francia.
A differenza delle precedenti guerre civili che hanno insanguinato il Paese, questa non sta investendo solo la «periferia» ma anche il centro. Si combatte infatti nella capitale Khartoum, occupata in gran parte dalle Rsf, anche se l’esercito controlla ancora importanti siti militari. Altri scontri sono in corso a Omdurman, città gemella di Khartoum, e a Bahri, altra città vicina alla capitale. Le ostilità si stanno diffondendo anche negli stati di Gezira, Nilo Bianco e Kordofan Occidentale.
Nelle ultime settimane, le forze di Hemeti hanno preso in rapida successione tre delle capitali dei cinque stati che costituiscono il Darfur, preparandosi a conquistare l’intera regione. Secondo alcuni analisti, con la caduta di El Fasher, l’ultima roccaforte dell’esercito sudanese del Darfur, la maggior parte del Sudan a ovest del Nilo potrebbe presto cadere nelle mani delle Rsf.
«Centinaia di migliaia di civili e sfollati sono in grave pericolo a El Fasher», ha dichiarato Toby Harward, vice coordinatore umanitario per il Darfur per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, parlando di una «situazione catastrofica, che sta peggiorando sempre di più».
In Darfur la guerra ha inasprito le tensioni tra gli allevatori arabi rizeigat e i coltivatori africani masalit. Una situazione che, secondo alcuni osservatori, ricorda quella che ha preceduto i massacri del 2003.
Nelle scorse settimane, secondo le Nazioni Unite, alcune «milizie arabe alleate delle Rsf» hanno ucciso centianaia di civili nel distretto di Ardamata, dopo la presa di una base militare dell’esercito sudanese a El Geneina, capitale del Darfur Occidentale. In particolare, i miliziani avrebbero preso di mira la comunità masalit, come già avvenuto negli scorsi mesi. L’Unhcr ha affermato che ad Ardamata più di 800 persone sono state uccise dai gruppi armati. «Vent’anni fa il mondo rimase scioccato dalle terribili atrocità nel Darfur. Temiamo che possa svilupparsi una dinamica simile», ha avvertito il capo dell’Unhcr, Filippo Grandi.
Due facce dello stesso golpe
Circa 300mila persone morirono a causa di quella guerra, la stessa che fece la fortuna di Hemeti. Nato da una famiglia di venditori di cammelli rizeigat, prese la guida di una temuta milizia janjaweed («diavoli a cavallo»), che combatteva i ribelli insorti contro il regime di Omar al-Bashir. Negli anni successivi, l’allora dittatore del Sudan si è affidato a lui per difendersi dai suoi nemici interni, favorendo la costituzione delle Rsf. Un’ascesa fulminante, quella di Hemeti, che l’ha portato a diventare il secondo uomo più potente del Sudan e uno dei più ricchi, grazie ai proventi delle miniere d’oro, principale esportazione del Paese. Ha stretto rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner, che ha aiutato ad addestrare gli uomini delle Rsf, e con le monarchie del Golfo, inviando uomini in Yemen per combattere i ribelli filo-iraniani huthi. Una disponibilità che ha rafforzato i legami con gli Emirati Arabi Uniti, principale acquirente dell’oro sudanese, e oggi fornitore chiave di armi per le Rsf.
A differenza di altri esponenti filo-governativi, Hemeti è sfuggito all’attenzione della Corte penale internazionale, che per i crimini commessi in Darfur ha incriminato per la prima volta nella storia un capo di stato in carica, al-Bashir.
Insieme ad al-Burhan, ad aprile 2019 ha rovesciato il suo «Himyati» («il protettore»), come chiamava al-Bashir, arrivando a sostenere la necessità di una “democrazia reale”. Le sue Rsf non hanno mancato però di mostrare il loro volto più feroce, come nel caso della repressione dei manifestanti accampati fuori dal ministero della Difesa a giugno 2019, dopo la fine del regime di al-Bashir. Più di 100 persone hanno perso la vita nell’aggressione dei paramilitari, che Hemeti ha sempre negato di aver ordinato.
Nel 2021 ha preso parte a un altro colpo di stato, sempre assieme ad al-Burhan, contro il governo di transizione che avrebbe dovuto accompagnare il Sudan verso la democrazia. Nonostante la svolta autoritaria, l’ennesima nella storia di un Paese che ha sperimentato la democrazia in soli 10 dei 67 anni trascorsi dall’independenza, i tentativi di tenere in vita una prospettiva democratica sono continuati. A dicembre 2022 è stato siglato un “Accordo quadro” che avrebbe dovuto favorire una (nuova) transizione verso un governo guidato da civili.
L’intesa però non comprendeva l’integrazione delle Rsf nell’esercito che, secondo al-Burhan, avrebbe dovuto richiedere due anni e secondo Hemeti dieci. Una differenza che non è mai stata risolta, nonostante le speranze di alcuni osservatori. Il 20 marzo, meno di un mese prima dell’inizio dei combattimenti, il capo della missione Onu in Sudan Volker Perthes, si diceva «incoraggiato dalle poche differenze sostanziali che permangono tra gli attori principali». L’Egitto, che sostiene al-Burhan, ha promosso un processo parallelo al Cairo, coinvolgendo anche alcuni dei gruppi ribelli che erano entrati nel governo prima del colpo di stato dell’ottobre 2021. La volontà di assorbire le Rsf nell’esercito regolare si è però dimostrata un ostacolo difficile da superare. Lo scorso 15 aprile, Hemeti ha tentato il suo terzo colpo di mano, questa volta contro al-Burhan e l’esercito sudanese.
Il massacro indisturbato
Finora sono più di 10mila le vittime della guerra, principalmente nella capitale Khartoum e nel Darfur. La stima è dell’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), ma secondo diverse organizzazioni umanitarie il dato reale è decisamente superiore. Spesso, ricorda Afp, molti dei feriti e degli uccisi non raggiungono gli ospedali e gli obitori. Secondo le Nazioni Unite, il numero di persone che hanno necessità di assistenza umanitaria ha superato i 25 milioni, più della metà della popolazione del Paese (46 milioni).
A preoccupare sono anche le violenze sui civili. Il 10 novembre scorso, la coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per il Sudan ha dichiarato che ormai queste rasentano «il male allo stato puro». «Continuiamo a dire che la situazione è orribile. Ma, francamente, stiamo esaurendo le parole per descrivere l’orrore di ciò che sta accadendo in Sudan», ha affermato Clementine Nkweta-Salami. «Continuiamo a ricevere notizie incessanti e spaventose di violenza sessuale e di genere, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e gravi violazioni dei diritti umani e dei bambini», ha aggiunto.
Ad agosto un gruppo di esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che le Rsf stanno utilizzando la violenza sessuale «come strumento per punire e terrorizzare le comunità».
«Siamo profondamente allarmati dai casi di donne e ragazze rapite e tenute in condizioni disumane e degradanti, simili a quelle della schiavitù, nelle aree che le Forze di supporto rapido (Rsf) controllano in Darfur, dove sarebbero costrette a sposarsi con la forza e tenute in ostaggio», ha dichiarato un gruppo di esperti delle Nazioni Unite, parlando di 105 casi di violenze documentate a quattro mesi dall’inizio della guerra. Delle vittime di violenze, 18 sono bambini.
Morire come mosche
Le violazioni dei diritti umani sono state denunciate anche dagli Stati Uniti che, tramite il segretario di Stato Antony Blinken, hanno condannato gli abusi che le Rsf e le forze alleate avrebbero commesso in Darfur, tra cui «uccisioni di civili, arresti arbitrari, detenzione di personale medico e il saccheggio di strutture sanitarie». La richiesta di Washington, in questo caso, è di una «cessazione immediata» degli attacchi a El Fasher, la capitale del Darfur Settentrionale sotto il fuoco delle Rsf.
«Le persone stanno morendo come insetti nel Darfur», ha dichiarato al New York Times Ali Salam, coordinatore per l’Associazione dei medici sudanesi americani, affermando di aver visto cose «incredibili» durante una recente visita ai campi profughi in Ciad, in cui sono già presenti centinaia di migliaia di rifugiati sudanesi. Qui l’Unhcr si sta preparando a una nuova ondata di arrivi dal Darfur.
«Abbiamo saputo da nuovi arrivati in Ciad, si tratta di rifugiati in fuga dal Darfur, che parlano di milizie armate che vanno di casa in casa uccidendo uomini e ragazzi», ha detto lo scorso 10 novembre il portavoce dell’Unhcr William Spindler.
Anche l’esercito è stato accusato di aver commesso violenze indiscriminate, in particolare per i bombardamenti dei quartieri di Khartoum controllati dalle Rsf. A settembre un raid ha colpito un mercato uccidendo almeno 47 persone, secondo quanto riporta al-Jazeera. «Che le Rsf, come strategia, occupino o meno aree civili all’esercito non importa. Finché ci sono potenziali bersagli delle Rsf, diventano una zona di combattimento», ha detto all’emittente qatariota Kholood Khair, fondatrice del centro studi Confluence Advisory.
Tra le conseguenze più temute del conflitto ci sono anche quelle sanitarie. Da fine settembre sono stati registrati nel Paese più di 2.500 casi di colera, che finora ha causato 78 vittime. Il controllo dei focolai, estesi ormai a sette stati, è reso ancora più complesso dal collasso dei servizi di base. Nelle zone di guerra, secondo l’Onu, almeno il 70 per cento delle strutture sanitarie sono inutilizzabili. Oltre al colera, nel Paese si stanno diffondendo morbillo, dengue e malaria. «Una combinazione di una qualsiasi di queste malattie con la malnutrizione può essere letale“, ha avvertito l’Organizzazione mondiale della sanità. Nel Paese il 40 per cento della popolazione, o 20,3 milioni di persone, soffre la fame.
Finora il programma di aiuti d’emergenza per il Sudan ha raccolto solo un terzo dei 2,6 miliardi di dollari chiesti dalle Nazioni Unite. Questa somma, se coperta interamente, sarebbe destinata ad aiutare 12 milioni di sudanesi, la metà di chi ne avrebbe necessità.
Nelle parole del sottosegretario delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, è necessario intervenire presto perché «l’impatto di questo conflitto sul Sudan e a livello regionale non può essere esagerato». Secondo Griffiths, gli ultimi mesi di guerra «hanno gettato il Sudan in uno dei peggiori incubi umanitari della storia recente».