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Home » Esteri

“Aiutiamoli a casa loro”: la strategia di investimento della Cina nel continente africano

Immagine di copertina
Nairobi, la capitale del Kenya

La Cina mette i soldi per costruire infrastrutture primarie, erette principalmente da imprese cinesi, con tanti materiali prodotti in Cina e da cinesi, mantiene i posti chiave nella direzione delle infrastrutture, le inserisce in un proprio disegno economico, ma lascia agli africani la possibilità di sentirle proprie

“Aiutiamoli a casa loro”. Quante volte ognuno di noi ha sentito o pronunciato questa frase negli ultimi tempi. Il concetto c’è e, proprio sul concetto, potremmo anche essere tutti d’accordo. I problemi sorgono in un secondo momento, quando fatta l’affermazione, inizia l’analisi. Ok, aiutiamoli a casa loro, ma come?

Uno Stato, più di tutti, ormai da molti anni, interviene direttamente sui territori di provenienza della maggior parte dei migranti che toccano le coste europee: la Repubblica Popolare Cinese.

Quella della Cina è una politica che parte da lontano. Il primo grande investimento cinese in Africa, risale al 1996, quando fu ratificato un accordo con il Governo del Sudan grazie al quale, da quel momento, le estrazioni petrolifere effettuate in territorio sudanese furono appannaggio del paese asiatico e della propria mega-impresa controllata, la CNPC (China National Petroleum Corporation).

Ma il vero salto di qualità di Pechino nella campagna di conquista economica dell’Africa, è avvenuto con la creazione, nel 2000, del Forum sur la coopération sino-africaine (FOCAC). Una vera e propria cabina di regia economica e politica, che vede seduti allo stesso tavolo, il governo cinese e tutti i principali governi africani.

Già dal primo incontro, svoltosi a Pechino, seguito poi da altre sei riunioni (Addis Abeba 2003, Pechino 2006, Sharm el-Sheikh 2009, Pechino 2012, Johannesburg 2015 e Pechino 2018, si capì il vero punto di forza della strategia cinese.

I capi di stato africani furono sedotti dal fatto che il loro potere non veniva per nulla minacciato.

I cinesi chiarirono subito e poi mantennero questa promessa, che non ci sarebbe stata nessuna interferenza politica.

A loro interessava allargare il campo d’azione, la visione, diversificare e ampliare. È corretta dunque una recente affermazione del Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, che tanto ha fatto arrabbiare il portavoce del ministero degli Esteri cinesi, Lu Kang?

Tajani aveva affermato preoccupato: “l’Africa rischia di diventare una colonia cinese”.  Alla luce dei fatti, non del tutto.

È innegabile che la Cina è ormai ampiamente il maggior partner commerciale africano, con rapporti sempre più fitti, dovuti anche a un piano di investimenti che ha sforato i 60 miliardi di dollari nel triennio 2015-2018 e che, a quanto ha affermato recentemente il leader maximo Xi Jinping, sarà di altri 60 miliardi nel triennio 2018-2021.

La conferma ufficiale di questo ennesimo prestito è arrivata nell’ultima seduta del FOCAC svoltasi il 3 e 4 settembre 2018. Somme queste, non paragonabili agli interessi di tutti gli altri stati esteri presenti sul continente africano. 

Nonostante questa fortissima dipendenza economica però, la maggioranza della popolazione africana, non vede la presenza cinese come una minaccia. La Cina non viene assolutamente paragonata alle potenze europee che fino agli anni ’70 del secolo scorso hanno avuto il controllo della stragrande maggioranza di questi territori.

Ne ho avuto la conferma il mese scorso. Stavo viaggiando sul nuovo treno ad alta velocità Nairobi-Mombasa, che unisce la capitale kenyota alla città col più grande porto e snodo commerciale sull’Oceano Indiano del paese.

Per capire l’importanza dell’opera, costata circa 3 miliardi di euro e finanziata per il 90 per cento dalla China Exim Bank, basti pensare che se prima dell’inaugurazione di questa tratta, per percorrere in treno i 470 chilometri che separano le città, si impiegavano non meno di 11 ore (guasti meccanici esclusi), oggi il treno percorre l’intera tratta in 5 ore (4 ore e mezza nei primi viaggi, poi aumentati per problemi di sicurezza).

Mi trovavo in fila per il bagno e ho iniziato a scambiare due chiacchiere con John, uno studente di matematica della University of Nairobi.

A una mia domanda, un po’ provocatoria, sul fatto che la Cina stesse approfittando del sottosviluppo africano per trarne profitto economico, John mi ha risposto con tono convinto: “guarda questo treno, guarda cosa permette di fare, non troverai un solo kenyano che lo riterrà un’offesa al nostro paese. Troverai qualcuno che ti dirà che poteva essere fatto meglio, ma nessuno che ne avrebbe fatto a meno o che l’avrebbe fatto senza i cinesi.

E poi, guarda, ci lavorano tanti kenyani. Questo fa la Cina. Gli stati europei, invece, come mi racconta mio nonno, venivano qui e volevano controllare tutto. Non facevano nulla che non desse un maggior guadagno a loro. Questo treno invece fa guadagnare soprattutto il Kenya e i kenyani e forse un po’ anche la Cina”.

È questo il vento che tira al di là del Mediterraneo. La Cina mette i soldi per costruire infrastrutture primarie, erette principalmente da imprese cinesi, con tanti materiali prodotti in Cina e da cinesi, mantiene i posti chiave nella direzione delle infrastrutture, le inserisce in un proprio disegno economico, ma lascia agli africani la possibilità di sentirle proprie e nel proprio interesse. In cambio riceve trattamenti di favore nelle contrattazioni per le risorse naturali, ma non perché lo imponga o in cambio di qualcosa, ma semplicemente perché sa che i governi africani lo sentono come qualcosa di dovuto. Con questa situazione ormai l’egemonia è consolidata e dilagante.

La “conquista” cinese d’Africa, non si ferma alla sfera economica. Per poter mantenere i propri interessi saldi, la Cina ha bisogno anche di stabilità e sicurezza.

Per questo, parallelo al Forum economico cinese-africano, ne è stato creato un altro che si è poco tempo fa riunito a Pechino per la prima volta. Si tratta del Forum per la difesa e la sicurezza dell’Africa, che ha visto incontrarsi e programmare un piano duraturo, 50 stati del continente nero e i principali rappresentanti dello stato più popoloso del mondo.

I cinesi puntano a diventare, in breve tempo, la principale forza armata presente sul territorio africano per garantire sicurezza e stabilità. La Cina è diventato il secondo fornitore d’armi degli stati africani, dietro la sola Russia.

Proprio il mercato delle armi pare aver spinto il governo cinese a intraprendere importanti operazioni militari scavalcando alcuni concorrenti diretti. Ne è un esempio quello che è recentemente accaduto in Nigeria dove le truppe di Pechino si sono messe al fianco del governo di Abuja per combattere Boko Haram.

Cooperazione militare in cambio di una maggiore importazione d’armi, questa la merce di scambio. Negli ultimi tempi è anche notevolmente aumentato l’impegno sia di forze umane armate, con il contingente cinese che è già diventato il più numeroso tra i membri del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ottavo in assoluto) con 2.519 unità, di cui più di mille in Sudan (non uno stato qualsiasi, basti ricordare gli ingenti interessi che la Cina ha in questo Stato fin dal 1996, di cui si è parlato a inizio articolo) e anche l’impegno economico, con la Cina che oggi è seconda solo agli USA per finanziamenti alle operazioni militari.

Quest’ultimo ambito potrebbe diventare fondamentale per il futuro sviluppo della questione migratoria. La presenza e il controllo cinese del territorio africano potrebbe infatti allargarsi fino a costringere gli stati europei a sedersi a un tavolo con il governo di Pechino, per poter programmare un piano unitario d’azione che potrebbe costar molto all’Europa sul piano economico e politico.

È giusto sottolineare però, che dietro alla strategia cinese e all’accettazione africana, ci sono tanti elementi negativi. A cominciare dalle condizioni lavorative, esportate anche quelle, in tutti gli ambiti industriali in cui si agisce sotto l’egida cinese.

Orari di lavoro estenuanti e condizioni di sicurezza ridotte al minimo pare siano la normalità nei cantieri cinesi in Africa. Non è un caso che proprio il cantiere della linea ferroviaria Nairobi-Mombasa è stato, per tutto il tempo della costruzione, isolato e pressoché inaccessibile a occhi indiscreti. La consegna dei lavori è avvenuta con 18 mesi di anticipo sulla data prevista, ma a quale prezzo?

Non è dato saperlo, perché sono top secret il numero dei lavoratori, i decessi, gli infortuni e qualsiasi cosa descriva tutto quello che è avvenuto nel tempo di realizzazione dell’opera.

A questo si aggiunge il fatto che non tutto l’indotto economico creato dai cinesi in Africa resta in realtà in Africa. Grazie ai tantissimi interessi sviluppati, negli anni,  molti cinesi hanno l’asciato l’Asia per trasferirsi nel continente dove sta nascendo la nuova “Via della seta”.

In alcune grandi città africane sono nate delle vere e proprie China Town simili a quelle occidentali. Ma proprio come in quelle occidentali gli acquisti della popolazione cinese riguardano prodotti made in China e in Cina torna gran parte del guadagno. Il tutto alimenta un’economia chiusa e autoreferenziale.

È difficile commentare questo quadro, esaltandolo o condannandolo. Servirà sicuramente osservare le future evoluzioni dei rapporti Cina-Africa e le interferenze delle altre super potenze, Usa e Russia in testa. Bisognerà osservare anche cosa comporterà, per le economie africane, una così forte dipendenza dall’economia e dalle decisioni di Pechino, strette così tanto nella morsa del debito.

È utile comunque notare la differenza di approccio tra le politiche cinesi in Africa e quelle occidentali, italiane in primis. L’ultimo intervento economico italiano in Africa è stato il “Fondo per l’Africa”, presentato dall’allora Ministro degli Esteri Angelino Alfano il primo febbraio 2017.

Come scriveva a dicembre Marco De Ponte, per l’Huffigton Post, il fondo, dotato di 200 milioni di euro nato per avviare “interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i paesi africani di importanza prioritaria per le rotte migratorie”, ha visto 75 per cento delle risorse destinate a due soli paesi: Niger e Libia “per il contrasto dell’immigrazione irregolare e del traffico di esseri umani”.

Un investimento settoriale e profondamente limitato dunque, senza un visione, un piano e un progetto politico vero e proprio. L’aiutarli a casa loro dunque, pare rimanere solamente una bella idea non accompagnata da alcun fatto, almeno per il momento.

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