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“Donna, vita, libertà”: la storia dello slogan diventato il grido di protesta di tutte le rivoluzionarie

Immagine di copertina
Credit: Rodi Said - REUTERS

Ecco come nasce il motto coniato dall'attivista Nagihan Akarsel, uccisa pochi giorni fa nel Kurdistan iracheno. A TPI parla la giornalista e regista Benedetta Argentieri

«Donna, vita, libertà». È questo lo slogan che anima le città iraniane in cui le donne sono scese in strada a manifestare contro il regime, sfidando la dura repressione del regime che ha già causato decine di vittime. Ma questo grido ha origini lontane, che affondano nel Movimento di liberazione delle donne curde nel Rojava, con l’obiettivo di sovvertire il sistema che oggi vede le donne abusate, oppresse, discriminate in diverse parti del mondo, e in particolare nel Medio Oriente. TPI ne ha parlato con la giornalista e regista Benedetta Argentieri, che nel suo documentario “I am the Revolution”, uscito nel 2018 e ora disponibile su RaiPlay, ha raccontato la lotta delle donne attraverso tre sguardi, quello di Selay Ghaffar, portavoce di Hambastagi, il “Partito della solidarietà” afghano, Rojda Felat, comandante curda siriano delle Unità di protezione delle donne e delle forze democratiche siriane, e Yanar Mohamed, cofondatrice e direttrice dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq.

Ciò che sta accadendo in Iran e che è successo con i movimenti delle donne curde o delle donne afghane è collegato?
«Se parliamo del Movimento di liberazione delle donne curdo, ciò che sta succedendo in Iran è collegato a quel che è successo in Kurdistan, in Rojava, o in altri luoghi. Mahsa Amini in realtà si chiama Jina Amini. Tutti la chiamano “Masha” perché è il nome che compare sui suoi documenti. L’Iran, come anche la Turchia o l’Iraq, ha sostanzialmente bannato il curdo, e le persone si devono chiamare con nomi “di stato” sui documenti. Ma Masha si chiamava Jina e, come ha detto suo padre al funerale, è una figlia del Kurdistan».

Le sue origini hanno giocato un ruolo sulla sua morte?
«Non sappiamo se Jina sia stata presa di mira per il suo nome, o perché fosse curda. Quel che sappiamo è che è stata uccisa perché portava il suo hijab in una maniera non consona secondo la polizia morale. Ma ciò che sta accadendo adesso in Iran è legato ai curdi».

In che modo?
«Le città del Rojhelat, la parte curda iraniana, sono quelle che oggi sono scese tutte per strada e stanno portando avanti la lotta. E, soprattutto, il grido “Jin, Jiyan, Azadî” (Donna, vita, libertà) viene dal Movimento di liberazione delle donne curde. È stato urlato per la prima volta nelle strade del Rojava, ed è stato usato molto nella battaglia contro l’Isis, durante la quale le donne dello Ypj (le Unità di Protezione delle Donne) lo urlavano a ogni vittoria. Poi si è sparso in tutto il mondo».

Qual è il suo valore simbolico?
«Proviene dagli scritti del leader curdo Abdullah Öcalan, che parla della donna come prima colonia. Lo slogan è stato coniato, in particolare, dalla giornalista, attivista e presidente di “Jineolojî” (Scienza delle donne) Nagihan Akarsel, uccisa la settimana scorsa a colpi d’arma da fuoco a Suleymanyah (città nella regione curda dell’Iraq, ndr)».

Cosa sappiamo sulla sua morte?
«Il killer l’ha aspettata fuori di casa e ha sparato 11 colpi alla schiena. Due sospettati sono già stati arrestati, ma non ci sono altre notizie. Il movimento accusa la Turchia per questi omicidi: Nagihan è la quarta donna del movimento che quest’anno è stata uccisa a Suleymanyah».

Le lotte delle donne quindi sono collegate.
«Sempre. Quello che volevo far emergere dal mio documentario, “I am the Revolution”, è che la lotta delle donne non è disconnessa. Non importa se si fa in Kurdistan, in Afghanistan o in Iran. C’è un collegamento, sempre. E, in questo, il movimento delle donne curde fa da precursore, perché ha mostrato una via. Soprattutto per il Medio Oriente».

L’inizio può essere ricercato anche nelle primavere arabe?
«Penso risalga a molto prima. Il Movimento di liberazione curdo comincia 40 anni fa. La ragione per cui oggi esiste l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, che non comprende solo la parte curda del Rojava, ma tantissime etnie, tra cui siriaci, gli arabi, gli yazidi, gli assiri etc, ma che noi per semplificare chiamiamo “Rojava”, è la lotta portata avanti negli ultimi 40 anni non solo dal punto di vista delle donne. È un progetto politico, un’alternativa».

In “I am the Revolution” a un certo punto si vede, sulla scrivania dell’attivista afghana Selay Ghaffar, un libro sulla rivoluzione in Rojava. Un modo per mostrare che questo legame c’è anche con l’Afghanistan.
«Certamente. È ovvio poi che ogni contesto ha le sue caratteristiche, sono cose diverse. Però la lotta per la liberazione della donna è una, che sia in Afghanistan, in Iraq o in Italia, quello è l’obiettivo. La liberazione da un sistema che passa tutto attraverso uno sguardo maschile».

Quello che viene chiamato “patriarcato”.
«Sì, ma in una maniera molto più ampia è proprio il sistema in cui noi viviamo».

Tant’è che alcuni temi, come la violenza domestica, tornano in Afghanistan, in Iraq e anche in Italia.
«La violenza domestica è trasversale. I dati in Italia sono impressionanti. Parliamo di numeri molto alti, che ci dicono che la violenza non conosce Paese, né classe. È sistemica».

Pensi che la lotta delle donne in Iran porterà a una svolta decisiva nel Paese?
«Credo che nessuno possa dire con certezza cosa sia una svolta decisiva. Dovremo capire come reagirà il regime, che finora sta soffocando le proteste nel sangue. C’è una grandissima oppressione e violenza. Ci sono già stati diversi omicidi di giovani donne, anche 16enni, che non hanno conosciuto nient’altro se non il regime e che sembra non abbiano nulla da perdere. Il punto poi è anche un altro».

Quale?
«Capire cosa si vorrebbe fare dopo aver fatto cadere il regime. Che tipo di progetto politico si vorrebbe attuare? Credo che dal Kurdistan, dove il Confederalismo democratico viene spinto moltissimo come alternativa ai vari regimi, sia una possibilità. Starà a loro decidere come impostare il futuro, se riusciranno a vincere».

Il Confederalismo democratico non tiene separate le lotte, ma unisce, per esempio, la questione delle donne all’ecologia e ad altri temi.
«Esattamente. Andando così a rompere la frammentazione tra queste lotte, cui assistiamo ad esempio in Europa. Invece è proprio un modo olistico di affrontare le questioni, tenendo tutto insieme. Non è come dire: “facciamo la rivoluzione e poi vediamo sui diritti delle donne”. Si fa tutto adesso».

Le riunioni e il confronto sono elementi decisivi. Per questo si dice che parte dal basso.
«Sì. Dobbiamo riappropriarci della parola “politica”. Per il movimento, ma non solo, fare politica vuol dire occuparsi dei problemi della gente. Di fronte allo scollamento cui assistiamo in Italia o nelle democrazie liberali europee tra politica e società, bisogna prima di tutto far tornare la prima all’interno della seconda. Per cui tutte le persone sono chiamate a partecipare alla vita politica, tutto viene fatto attraverso un’assemblea e ci sono le comuni: ogni quartiere è controllato dalle persone del quartiere, che rispondono ai suoi bisogni. In ogni quartiere vengono eletti dei rappresentanti, e così via fino ai leader. È un sistema piramidale all’incontrario, una forma di democrazia diretta. In cui ogni comunità è rappresentata».

Qual è la situazione oggi in Kurdistan?
«È difficile parlare di Kurdistan in generale, perché è diviso in quattro parti: il Kurdistan iraniano, o Rojhelat, è in rivolta; il Bakur, la parte turca, dove è in atto una fortissima repressione, con molti arresti; poi c’è il Bashur, che è iracheno, dove la Turchia sta bombardando le montagne nella speranza di debellare il Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ndr) colpendo anche scuole, centri vacanze, senza guardare in faccia nessuno; e infine il Rojava, nel nord della Siria, che vive una situazione molto difficile, perché la Turchia porta avanti una guerra considerata “a bassa intensità” – perché sono principalmente bombardamenti e uso dei droni – ma dove le donne vengono assassinate quotidianamente. Sono le donne che portano avanti la rivoluzione nelle loro assemblee comunali o all’interno di un movimento come Kongra Star, che riunisce tutte le organizzazioni di donne, o di Jineolojî, che va a cercare la storia dimenticata delle donne. Vengono assassinate dalla Turchia addirittura donne che vengono addestrate dagli americani per combattere il terrorismo e l’Isis, che ancora c’è».

In tutto ciò il quadro internazionale si complica, perché il presidente turco Erdogan è tra i pochi che in questo momento riescono a dialogare sia con la Russia sia con l’Ucraina.
«Erdogan attacca il Bashur con violenza perché vuole togliere la questione curda dal tavolo, non vuole un’alternativa, non vuole che i curdi abbiano loro pari diritti rispetto agli altri cittadini, e questo da sempre. Allora mi chiedo quale sia la differenza ciò che vuole lui e ciò che vuole Putin in Ucraina. Vogliono la stessa cosa».

Con Erdogan però l’Europa e l’Occidente parlano, con Putin no.
«Questo è paradossale. E ci fa capire anche quanto siamo pronti a vendere i nostri alleati. Non possiamo dimenticarci quel che hanno fatto le Forze democratiche siriane, che di fatto hanno sconfitto l’Isis per noi e sono state completamente abbandonate con migliaia di cittadini stranieri iper-radicalizzati ancora in stallo nel nord-est della Siria, pronti a fare attentati e uccidere civili».

Passando all’Afghanistan, rispetto a quando hai girato tu il documentario la situazione è molto cambiata. I talebani hanno ripreso il potere e la lotta delle donne è più difficile. Selay Ghaffar, una delle protagoniste, ha dovuto lasciare il Paese circa un anno fa.
«Sì, ma nonostante lei se ne sia andata, Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) porta avanti quelle lotte. Inoltre, anche durante l’occupazione americana e la presenza della coalizione internazionale in Afghanistan, le donne avevano grandissime difficoltà. Il tasso di educazione era molto basso. Oggi ovviamente l’asticella si è alzata, perché i talebani osteggiano l’istruzione delle donne. Oggi uno dei principali progetti di Rawa è quello di garantire l’istruzione alle bambine dopo i 7 anni. E non è un compito semplicissimo».

Le lotte delle donne – come quella di Yanar Mohamed e della sua associazione, che tu hai raccontato – vanno avanti anche in Iraq, dove nell’ultimo anno ci sono state crisi e violenze?
«Sì, le lotte delle donne continuano sempre e dovunque. Non cambia qualcosa in base a un governo o a un altro. Continuano ad aiutare le donne che scappano dalla violenza domestica, e in particolare dal delitto d’onore».

Una delle prime frasi che dicono le donne intervistate nel tuo documentario è: “Quale rivoluzione è più difficile di quella delle donne?”. Fare rete a livello internazionale è fondamentale.
«Assolutamente sì. Moltissime delle donne di cui abbiamo parlato, e anche altre, si incontreranno il 5 e il 6 novembre a Berlino per la Conferenza mondiale delle donne, per costruire un Confederalismo democratico delle donne. Ci saranno centinaia di partecipanti da tutto il mondo. Io avevo già partecipato nel 2018 a Francoforte, ma quest’anno l’obiettivo è di andare molto più in là».

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