La storia dei rohingya, una delle minoranze più perseguitate al mondo
I rohingya sono una comunità di religione musulmana che vive in Birmania. Dal 1970 il governo ha iniziato dure repressioni, causando migliaia di morti e di profughi
Abu Siddiq è un rifugiato rohingya e attualmente vive a Kuala Lumpur, capitale della Malesia. Costretto a fuggire dalla Birmania, Abu ha visto morire tutti i suoi figli, brutalmente uccisi dai soldati buddisti che avevano lanciato una dura repressione contro la sua comunità, di religione musulmana.
“Siamo stati picchiati, molestati e le nostre case sono state date alle fiamme”, ha raccontato l’uomo. “Per salvarci, abbiamo scavato trincee, abbiamo dormito sull’erba secca. Abbiamo patito la fame, siamo stati costretti a sopravvivere bevendo l’acqua dai canali di scolo e dalle pozzanghere”.
Abu Siddiq ha deciso di lasciare il suo paese salendo a bordo di una barca di fortuna, insieme ad altri 120 disperati, per raggiungere la Thailandia.
“Qui siamo stati fermati dai trafficanti di esseri umani che attendevano l’arrivo dei motoscafi e delle imbarcazione cariche di migranti”, spiega Abu. “Ci hanno puntato le armi contro, siamo stati rapiti e picchiati. Una volta a terra, ci hanno rinchiuso all’interno di gabbie. Volevano i soldi del riscatto, dicendo che la notte avrebbero stuprato le giovani donne”.
Dopo aver contatto un parente per chiedere aiuto, Siddiq ha dovuto pagare 3mila dollari ai suoi rapitori, che dopo aver incassato il denaro lo hanno abbandonato in Malesia, dove vive nella costante paura di essere espulso.
“Hanno ucciso mia moglie, Jannatun Naim”, ha ricordato Mohammad Ayaz, mentre culla fra le braccia il suo bambino di due anni. “Aveva 25 anni ed era incinta di sette mesi, quando le truppe hanno attaccato il villaggio. Mi sono rifugiato in un canale con il mio bambino che era stato colpito dal calcio di un fucile”. Quel giorno morirono 300 persone, decine di donne furono stuprate e le abitazioni vennero date alle fiamme.
Scappato anche lui dalla Birmania, Mohammad si è pagato il viaggio della speranza vendendo un orologio e un paio di scarpe, raggiungendo un campo per rifugiati non registrati che accoglie profughi rohingya.
Abu Siddiq e Mohammad Ayaza appartengono alle migliaia di profughi che sempre più frequentemente scappano dalla Birmania, per cercare rifugio altrove. Dal 2012 più di 100mila rifugiati rohingya hanno sfidato le acque del golfo del Bengala e dell’oceano Indiano, alla ricerca di una vita migliore in Malesia, in Indonesia e in altri paesi del sudest asiatico.
Chi sono i rohingya
I rohingya sono considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo. Si tratta di un gruppo etnico musulmano che vive principalmente nel nordovest della Birmania, nello stato di Rakhine, uno dei più poveri della regione, che conta circa un milione di abitanti rohingya su una popolazione di tre milioni di persone, a maggioranza buddista.
Circa 140mila rohingya del Rakhine vivono in campi-ghetto, che non possono lasciare senza il permesso del governo. Per ottenere la cittadinanza, devono dimostrare di aver vissuto in Birmania da almeno 60 anni, pratica pressoché impossibile.
Si definiscono discendenti di mercanti arabi, mentre per il governo birmano sono soltanto immigrati bengalesi che vivono illegalmente all’interno del paese. Di conseguenza, i loro diritti allo studio, al lavoro, ai viaggi e alla libertà di praticare la propria religione e di accedere ai servizi sanitari di base sono limitati.
Il governo birmano non ha incluso i rohingya nella lista dei 135 gruppi etnici ufficiale del paese e a loro è negata la cittadinanza. Ciò li rende apolidi a tutti gli effetti.
Quando sono iniziate le repressioni contro i rohingya
La persecuzione contro i rohingya affonda le radici nella seconda metà del ventesimo secolo. Il primo grande esodo si verificò nel 1970, quando 250mila rohingya furono costretti ad abbandonare le propre case dall’esercito birmano, per trovare rifugio in Bangladesh.
Una seconda ondata migratoria si registrò tra il 1991 e il 1992. La maggior parte di loro fu rimpatriata forzatamente nello stato di Rakhine sotto l’assistenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a metà degli anni Novanta.
La repressione contro i rohingya si è intensificata dopo le riforme introdotte dal presidente birmano Thein Sein, nel 2011. A giugno e ottobre 2012 sono stati condotti attacchi su larga scala contro i rohingya nello stato di Rakhine, in seguito allo stupro di gruppo ai danni di una donna buddista. Le violenze del governo hanno causato la morte di oltre 200 rohingya e hanno costretto più di 140mila persone a lasciare il paese.
L’Unhcr ha stimato che nel 2012 più di 110mila persone (per lo più dell’etnia rohingya) sono scappate dal Birmania a bordo di imbarcazioni di fortuna verso la Thailandia, le Filippine, la Malesia e l’India. Solo nel primo trimestre del 2016, circa 25mila migranti sono fuggiti dal paese asiatico, circa il doppio delle persone registrate nello stesso periodo dell’anno precedente.
La speranza di raggiungere paesi più ricchi si traduce spesso in violazioni dei diritti umani, che vedono i rohingya discriminati o ridotti in schiavitù.
Qual è la situazione nelle nazioni limitrofe
Attualmente, oltre 150mila rohingya vivono in Malesia. Anche qui sono considerati migranti illegali, indipendentemente dal fatto di essere registrati dall’Unhcr, ma hanno meno probabilità di essere arbitrariamente deportati altrove. Le condizioni di vita non sono affatto facili, nonostante le famiglie rohingya lottino ogni giorno per assicurare un’educazione ai loro figli e garantire loro un lavoro.
L’altra meta principale è il Bangladesh, che si è sempre mostrato restio ad aprire i suoi confini per evitare una crisi umanitaria.
Negli ultimi anni, le autorità del Bangladesh hanno aumentato la sicurezza intorno ai loro confini per respingere l’ingente afflusso di profughi rohingya. Si stima che siano attualmente 200mila i rohingya che vivono nei campi profughi, ma i rimpatri si fanno sempre più frequenti.
L’Indonesia ha messo in chiaro che i profughi rohingya non sono i benvenuti nel paese e ha respinto le imbarcazioni di migranti intercettate nelle sue acque.
Nessuna delle nazioni in cui i rohingya arrivano sono firmatari della convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite: ciò si traduce in una mancanza assoluta di protezione da parte dei governi. Per esempio, la Malesia non fornisce loro un accesso al lavoro regolare, all’assistenza sanitaria, all’istruzione o la protezione dagli abusi della polizia o dallo sfruttamento da parte dei datori di lavoro.
Nel maggio del 2015 sono state scoperte decine di fosse comuni in Thailandia e in Malesia, con i resti di centinaia di rohingya, morti dopo essere stati picchiati o abbandonati in mare dai trafficanti di esseri umani.
Nell’aprile del 2013 Human Rights Watch ha denunciato che il governo birmano stava conducendo una campagna di pulizia etnica contro i rohingya, ma l’accusa è stata prontamente respinta dall’allora presidente Thein Sein come “campagna diffamatoria”.