I miei venticinque anni da prostituta
Brenda Myers-Powell racconta perché ha cominciato a prostituirsi, come è riuscita a cambiare vita dopo 25 anni e quello che fa oggi per aiutare ragazze in difficoltà
Sin dall’inizio la vita non mi ha dato altro che limoni, ma ho sempre provato a farci la miglior limonata possibile.
Sono cresciuta negli Sessanta, nella parte Ovest di Chicago. Mia madre è morta quando avevo sei mesi. Lei aveva solo sedici anni, e non ho mai scoperto la causa del decesso.
Mia nonna, che beveva più della maggior parte della gente che conosco, non me l’ha mai saputo dire. La spiegazione ufficiale è che si sia trattato di cause naturali.
Io non ci credo. Chi muore a 16 anni per cause naturali? Mi piace pensare che Dio l’abbia richiamata prima del dovuto. Ho sentito dire che era molto bella, e che aveva un gran senso dell’umorismo. Credo sia vero, perché ce l’ho anche io.
È stata mia nonna a prendersi cura di me. Non era una brutta persona, anzi, per certi versi era meravigliosa: mi leggeva dei libri e mi cucinava biscotti e patate dolci buonissime.
Solo che aveva un problema con l’alcol. Portava a casa i suoi amici dal bar e quando lei – completamente ubriaca – perdeva conoscenza, questi uomini mi facevano delle cose.
Cominciarono quando avevo 4 o 5 anni, e poi divenne sempre più spesso la normalità. Sono sicura che mia nonna non ne sapesse nulla. Lavorava come domestica in periferia, e le ci volevano due ore per andare a lavoro, e altre due per tornare a casa.
Quindi io ero una una di quelle bambine che chiamano latch-key. Portavo le chiavi al collo, andavo da sola all’asilo e tornavo da sola a casa a fine giornata. I molestatori della zona lo sapevano, e se ne approfittavano.
In strada, davanti a casa nostra, vedevo donne con acconciature alla moda e vestiti luccicanti, e non avevo la minima idea di che cosa stessero facendo. Pensavo solo che fossero scintillanti. Da piccola, l’unica cosa che volevo era essere scintillante anche io.
Un giorno chiesi a mia nonna che cosa stessero facendo quelle donne, e lei mi rispose: “Si tolgono i pantaloni e gli uomini danno loro in cambio dei soldi”. E ricordo di essermi detta: “Probabilmente lo farò anche io”, perché gli uomini già da tempo mi toglievano i pantaloni.
A ripensarci adesso, me la sono cavata molto bene. Da sola in quella casa, avevo degli amici immaginari che mi tenevano compagnia. Cantavo e danzavo con un immaginario Elvis Presley, un’immaginaria Diana Ross e le Supremes.
Penso che sfogarmi in questo modo mi abbia aiutata a gestire la situazione. Ero una bambina molto estroversa, ridevo molto.
Ma al tempo stesso ero spaventata, sempre. Non sapevo se quello che stava succedendo fosse colpa mia o meno. Pensai che forse c’era qualcosa di sbagliato in me.
Anche se ero una ragazzina intelligente, lasciai la scuola. Negli anni Settanta divenni il tipo di ragazza che non sa dire di no – se i ragazzini della mia comunità mi dicevano che gli piacevo, o mi trattavano bene, praticamente potevano farmi quello che volevano.
A 14 anni avevo già partorito due bambine con ragazzi della comunità. Mia nonna cominciò a dire che dovevo portare a casa un po’ di soldi per mantenerle, perché non c’era cibo da noi. Non avevamo nulla.
Così, una sera – precisamente un venerdì Santo – andai all’angolo tra la Division e la Clark, e mi misi davanti al Mark Twain Hotel. Indossavo un vestito a due pezzi da 3,99 dollari, scarpe di plastica e un rossetto arancione che pensavo mi facesse sembrare più grande.
Avevo 14 anni e piansi per tutto il tempo. Ma lo feci lo stesso. Non mi piacque, ma i cinque uomini con cui uscii quella notte mi mostrarono quello che dovevo fare. Sapevano che ero giovane, ed era quasi come se la cosa li eccitasse.
Guadagnai 400 dollari, ma non presi un taxi per tornare a casa. Tornai con il treno, e diedi la maggior parte dei soldi a mia nonna, che non mi chiese come me li fossi procurati.
Il weekend successivo tornai allo stesso angolo e mi sembrò che mia nonna fosse contenta del fatto che portassi a casa dei soldi.
Ma la terza volta che andai lì, due ragazzi vennero da me, mi colpirono con il calcio della pistola e mi chiusero nel bagagliaio della loro macchina.
Si erano avvicinati a me perché non ero – come dicevano loro – rappresentata da qualcuno in strada. Prima mi portarono in un campo di mais e mi stuprarono. Dopo, in una stanza d’albergo, mi rinchiusero nell’armadio.
Mi tennero lì per un bel po’. Era il tipo di cose che i protettori facevano per distruggere lo spirito delle ragazze. Supplicai di farmi uscire, perché avevo fame, ma mi dissero che avrebbero aperto l’armadio solo se avessi accettato di lavorare con loro.
Mi hanno protetta per un po’, sei mesi circa, durante i quali non potei tornare a casa. Una volta provai a scappare, ma mi ripresero, e per punizione mi fecero molto, molto male. In seguito ci furono altri protettori.
Gli abusi fisici erano orribili, ma niente in confronto a quelli psicologici: le cose che dicevano ti rimanevano in testa e non riuscivi a liberartene.
I protettori sono molto bravi a torturare e manipolare. Alcuni di loro fanno cose come svegliarti nel cuore della notte con una pistola puntata alla testa. Altri faranno finta di tenere a te, e tu pensi cose come “Sono come Cenerentola, ecco il mio Principe Azzurro”.
Sembrano così dolci e affascinanti e ti dicono: “Devi fare ancora quest’ultima cosa per me e dopo anche tu avrai la tua parte”. E tu pensi: “La mia vita è già stata così dura, cosa cambia farlo ancora una volta?”. Ma non arriva mai la tua parte, non cambia mai nulla.
La gente descrive la prostituzione come qualcosa di affascinante, elegante, come nella storia di Pretty Woman, ma non è nemmeno vagamente vicino alla realtà.
Una prostituta dorme con circa cinque estranei al giorno. In un anno significa avere rapporti sessuali o orali con più di 1.800 uomini. Non si tratta di relazioni sentimentali, ovviamente, nessuno ti porta dei fiori. Usano il tuo corpo come un gabinetto.
E i clienti sono violenti. Mi hanno sparato cinque volte e pugnalata 13. Non so perché quegli uomini mi abbiano attaccata, so solo che la società ha reso tutto ciò molto facile per loro.
Hanno portato con sé la loro rabbia, o i loro disturbi mentali, o qualsiasi cosa fosse, e hanno deciso di prendersela con una prostituta, sapendo che non sarei potuta andare dalla polizia e che, se anche l’avessi fatto, non mi avrebbero presa sul serio.
In realtà mi considero molto fortunata. Conoscevo alcune bellissime ragazze che sono state uccise là fuori, in strada.
Mi sono prostituita per 14 o 15 anni prima di provare qualsiasi tipo di droga. Ma dopo un po’, dopo aver usato tutti i trucchi che conoscevo, dopo essere stata strangolata, dopo che qualcuno ti ha puntato un coltello alla gola e qualcun altro ha provato a soffocarti con un cuscino, hai bisogno di qualcosa che ti infonda un po’ di coraggio.
Sono stata una prostituta per 25 anni, e in tutto questo tempo non ho mai visto una via di fuga. Ma il primo aprile del 1997, quando avevo quasi 40 anni, un cliente mi buttò fuori dalla sua macchina.
Il mio vestito rimase attaccato alla portiera e venni trascinata a terra per sei isolati, strappandomi tutta la pelle dalla faccia e da un lato del corpo.
Andai all’ospedale della contea, a Chicago, e mi portarono subito nella sala di emergenza. Viste le mie condizioni chiamarono un poliziotto, che mi guardò e disse: “Oh, la conosco. È soltanto una puttana. Probabilmente ha picchiato qualcuno e rubato i suoi soldi, e le hanno dato quello che si meritava”.
Sentii l’infermiera ridere con lui. Mi fecero uscire e mi lasciarono nella sala d’aspetto, come se non valessi niente, come se non fossi abbastanza importante da meritare i servizi medici di emergenza.
E in quel momento, mentre aspettavo che cominciasse il turno successivo e che qualcuno si occupasse delle mie ferite, cominciai a pensare a tutto quello che era successo nella mia vita.
Fino a quel momento, avevo sempre avuto qualche idea sul da farsi, su dove andare, come rimettermi in sesto e ricominciare la mia vita. Ma all’improvviso mi ritrovai senza alcun piano, senza alcuna speranza.
Mi ricordo che guardai in alto e dissi a Dio: “A queste persone non importa nulla di me. Potresti aiutarmi, per favore?”
Dio si è messo a lavoro velocemente. Una dottoressa si prese cura di me e mi disse di andare dai servizi sociali dell’ospedale. Tutto quello che sapevo dei servizi sociali è che non erano per niente sociali.
Mi diedero un biglietto dell’autobus per andare in un posto chiamato Genesis House, gestito da una fantastica donna britannica, Edwina Gateley, che divenne un’eroina e una mentore per me. Mi aiutò a rimettere in sesto la mia vita.
Era una casa sicura e avevo tutto quello che mi serviva lì. Non dovevo preoccuparmi di pagare per i vestiti, il cibo, o di cercare un lavoro. Mi dissero di rimanere per tutto il tempo necessario. Ci rimasi per quasi due anni.
La mia faccia guarì, il mio spirito guarì. Ho ritrovato la vera me stessa. Grazie a Edwina Gateley, ho imparato il valore dell’affinità profonda che può scattare tra donne, l’amore e il supporto che possono donarsi l’un l’altra.
Di solito, quando una donna esce dalla prostituzione, non vuole parlarne. Quale uomo la accetterebbe come moglie? Chi la assumerebbe come sua impiegata?
Quando lasciai la Genesis House, fu così anche per me. Io volevo solo trovare un lavoro, pagare le tasse ed essere come tutti gli altri.
Cominciai a fare un po’ di volontariato per alcune prostitute e ad aiutare una ricercatrice universitaria con il suo lavoro sul campo. Dopo un po’ realizzai che nessuno si preoccupava di aiutare queste giovani donne.
Nessuno andava da loro a dire: “Anche io ero così, anche io ero qui. E adesso, invece, sono così. Anche tu puoi cambiare, anche tu puoi guarire.”
Così nel 2008, insieme a Stephanie Daniels-Wilson, abbiamo fondato la Dreamcatcher Foundation. Un acchiappasogni – dreamcather in inglese – è un oggetto dei nativi americani che va tenuto vicino alla culla di un bambino, per scacciare i suoi incubi.
Ed è esattamente questo quello che vogliamo fare: scacciare quegli incubi, e quelle cose orribili che succedono alle ragazzine e alle giovani donne.
Il documentario Dreamcathcer, diretto da Kim Longinotto, racconta il nostro lavoro. Incontriamo le donne che stanno ancora lavorando sulla strada e diciamo loro: “C’è un modo per uscirne, siamo pronti ad aiutarti se tu sei pronta a essere aiutata.” Proviamo a fare superare l’idea che hanno messo loro in testa, secondo cui: “Sei nata per fare questo, non puoi fare nient’altro.”
Gestisco anche alcuni circoli del dopo-scuola, dove seguo ragazzine che sono esattamente come ero io negli anni Settanta. Non appena conosco una ragazza, riesco subito a capire se è in pericolo, ma ogni caso è diverso.
Ci può essere una ragazza molto tranquilla e introversa, che evita il contatto visivo, mentre magari un’altra è molto rumorosa ed estroversa e si mette sempre in qualche guaio.
Entrambe sono vittime di abusi a casa, ma reagiscono in modi diversi. L’unica cosa che hanno in comune è il fatto che non ne parlano. Ma quando capiscono che a me sono successe le stesse identiche cose, allora si aprono, e mi raccontano.
Da quando abbiamo cominciato a occuparci di queste ragazze, in 13 si sono diplomate alle superiori, e adesso studiano in college qua vicino, o hanno ottenuto delle borse di studio per altre università. Arrivarono da noi a 11, 12, 13 anni, completamente distrutte, e adesso stanno raggiungendo le stelle.
A parte il lavoro sul campo, vado anche a molte conferenze e contribuisco alla ricerca accademica sulla prostituzione. Mi è capitato di sentirmi dire: “Brenda, vieni a conoscere il Professor Tal Dei Tali da questa università. È un esperto di prostituzione.”
Io lo guardo, e quello che vorrei dire è: “Davvero? Da dove vengono le tue credenziali? Che cosa ne sai davvero di prostituzione? Il vero esperto ce l’hai davanti.”
Credo sia semplicemente ridicolo che alcune organizzazioni diano vita a campagne sociali contro la tratta delle prostitute, senza impiegare nemmeno una persona che ne sia stata vittima.
Si dicono cose molto discordanti riguardo alla prostituzione. Alcuni pensano che depenalizzarla sarebbe davvero un bene per i lavoratori sessuali.
In realtà è impossibile generalizzare: potrebbe essere un bene per una ragazza, che magari si sta pagando gli studi in questo modo, ma non per un’altra, che è stata molestata da bambina, non ha mai saputo di avere un’alternativa e sta solo cercando di guadagnarsi i soldi per mangiare.
Ma lasciate che vi faccia una domanda. A quante persone consigliereste di lasciare il lavoro per diventare prostitute? Direste mai a una delle vostre amiche intime, o a una parente, una cosa come: “Hey, hai mai pensato di prostituirti? Penso sarebbe davvero un’ottima scelta per te!”
E fatemi dire anche questo. Anche se la prostituzione comincia in un modo, non si può mai sapere come andrà a finire. Può andare tutto bene all’inizio, la ragazza che si sta pagando gli studi potrebbe dire che ha solo clienti facoltosi che la contattano tramite un’agenzia, che non lavora in strada ma in lussuose camere d’albergo.
Eppure, solamente quando qualcuno le fa davvero del male per la prima volta, vedrà la situazione per quella che è davvero. Prima o poi ti capiterà come cliente un pazzoide, e ci saranno tre o quattro altri uomini con lui, troveranno il modo di entrare in camera tua e ti stupreranno, ti prenderanno il telefono e tutti i soldi. E all’improvviso ti ritrovi senza mezzi per vivere e sei anche stata picchiata. Questa è la realtà della prostituzione.
Tre anni fa, sono diventata la prima donna della stato americano dell’Illinois a riuscire a farsi rimuovere la condanna per prostituzione dalla fedina penale, grazie a una legge introdotta in seguito alle pressioni di un gruppo di Chicago che cerca di procurare protezione legale alle vittime della tratta delle prostitute.
Le donne che sono state torturate, manipolate e a cui è stato fatto il lavaggio del cervello dovrebbero essere trattate come delle sopravvissute, non delle criminali.
Ci sono donne buone e donne cattive a questo mondo, così come ci sono uomini buoni e uomini malvagi.
In seguito al mio lavoro di prostituta non ero pronta per una relazione. Ma dopo tre anni di cure e astinenza, ho conosciuto un uomo straordinario.
Ero molto esigente: lui, scherzando, ricorda che gli facevo più domande della commissione giudiziaria. Non mi ha giudicata per tutte le cose che mi sono successe prima che ci conoscessimo.
Quando mi guardò la prima volta non vide quelle cose: dice di aver visto solamente una ragazza con un bel sorriso e di aver pensato che voleva far parte della mia vita. Sicuramente io volevo far parte della sua.
Lui mi supporta in tutto quello che faccio, e abbiamo festeggiato dieci anni di matrimonio l’anno scorso. Le mie figlie, che sono state cresciute da una zia in periferia, sono diventate giovani donne fantastiche. Una è una dottoressa, l’altra lavora nel campo della giustizia criminale.
Sono qui per dirvi: c’è vita dopo tutto quel dolore, c’è vita dopo tutto quello sconvolgimento. C’è vita anche dopo che le persone ti hanno detto che non sei niente, che non vali niente e che non diventerai mai nessuno.
C’è vita, e non sto parlando di un po’ di vita. C’è molta vita.
L’articolo è stato originariamente pubblicato qui. Traduzione a cura di Vittoria Vardanega