In Europa i piccoli paesi si stanno svuotando: reportage di TPI nelle aree rurali abbandonate di Italia, Francia e Spagna
Spopolamento Europa | Case abbandonate, strade dissestate, cartelli con scritto “affittasi” o “vendesi” ovunque. I piccoli paesi, cuore e anima della cultura europea, si stanno svuotando inesorabilmente.
L’ultimo rapporto del dipartimento sociale e economico delle Nazioni Unite lancia un allarme: entro il 2050 i due terzi della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane.
Cosa succede nelle regioni più spopolate di Italia, Francia e Spagna? Ci sono giovani europei che stanno resistendo a questa fuga rurale con le unghie e con i denti. “Empty Europe” è il reportage di TPI nell’Europa svuotata di cui non si parla.
Spopolamento Europa | L’Italia abbandonata
Basilicata: storie tra chi resta e chi se ne va
di Veronica Di Benedetto e Francesca Candioli
La Basilicata è la regione dove si risente di più il fenomeno dello spopolamento rurale in Italia. Qui dove l’agricoltura rappresenta ancora la principale forma di sostentamento, il 56 per cento della popolazione si concentra solo nei due capoluoghi: Matera e Potenza. I paesi che 30 anni fa raggiungevano i 10mila abitanti, hanno perso più della metà dei loro cittadini. Nel frattempo, Matera è diventata la capitale europea della cultura 2019, ma tutt’intorno c’è il deserto.
“E la senti dentro all’aria questa voglia di tornare. Il paese che mi aspetta per rivivere questa festa. E la magia si ripete, ogni anno che ti vedo, non mi posso più staccare, terra mia dolceamara”. Milena e Maria Luigia sono cresciute in un borgo fantasma dove tutto si è fermato agli anni ’50, a meno di un’ora di auto da Matera.
Le due sorelle, dopo averci mostrato un paese di sole case senza più anima, dove è difficile distinguere ciò che resiste ancora da ciò che se ne è andato per sempre, ci regalano un cd del cantautore Pietro Cirillo. Un’istituzione per i lucani, e un regalo per noi, per osservare la loro terra da un’altra prospettiva, quella di chi continua a viverci.
È una lotta. I numeri sanno fotografare la realtà, ancora meglio dei nostri obiettivi. Perché in Basilicata il calo dei residenti è costante. Ogni anno in media quasi 3mila persone spariscono dalla Lucania. La popolazione invecchia, le nascite sono poche e l’emigrazione avanza: sono questi gli aspetti che caratterizzano una regione destinata presto a fare i conti con la realtà. Secondo l’ultimo rapporto Svimez, l’associazione per lo sviluppo industriale nel Mezzogiorno, nel 2065 la Basilicata scenderà sotto la soglia dei 400mila abitanti, contro gli attuali 570.365.
A darci una prima impressione è chi questa terra la studia da una vita. Ettore Bove, docente di Economia e Politica agroalimentare all’Università della Basilicata, non nega che quella demografica sia una vera e propria emergenza, ma è convinto che creando una rete turistica adeguata questo problema si possa arginare.
“La Basilicata è divisa in due parti: da un lato abbiamo la polpa che corrisponde alle zone più sviluppate, come Matera e le fasce costiere. Dall’altro, invece, c’è l’osso, ovvero le aree depresse. Questa sorta di dualismo è destinato ad assumere proporzioni maggiori, a meno che non si intervenga”.
In particolare, come sottolinea, con il turismo: “È il nostro unico mezzo di contrasto all’abbandono dei territori. Non ne abbiamo altri efficaci come questo. Bisogna individuare e valorizzare le risorse locali, così da creare un’offerta turistica indirizzata verso la cultura, l’ecologia, la scienza. La vera sfida è destagionalizzare la presenza turistica”.
In 27 dei 131 Comuni della regione gli abitanti sono meno di mille. Alcuni di questi corrono il rischio di rimanere completamente disabitati nel giro di pochi decenni. In altri, invece, residenti e istituzioni hanno reagito all’emorragia demografica proponendo un’offerta turistica e culturale che ne ha garantito la sopravvivenza e, in alcuni casi, uno sviluppo quasi impensabile fino a pochi anni fa.
Irsina, un’isola per cittadini del mondo – Se la guardi dal basso, Irsina è tutta arroccata su di una collina a circa 550 metri d’altezza, e da qui scruta le valli del Bradano e del Basentello, anche se le sue origini risalgono all’Homo Erectus. Nel tempo il suo centro storico ha vissuto un progressivo spopolamento, ma da una decina di anni si è verificata una strana inversione di tendenza, dovuta al grande numero di stranieri che decidono di stabilirsi qui. Arriviamo in paese l’ultimo giorno della festa dedicata a Sant’Eufemia.
In quattro giorni, dedicati alla santa che i leoni si rifiutarono di sbranare, o almeno così racconta la leggenda, Irsina triplica i suoi abitanti, ma finita la festa tutto torna alla normalità. Qui i residenti non superano i 5000: sono circa 4900 e ogni anno diminuiscono. “Le prime emigrazioni sono iniziate negli anni ’60”, racconta Nicola Morea, sindaco di Irsina dal 2015.
“La riforma agraria non stava dando risultati, sette ettari a testa non erano sufficienti per coltivare il grano, così le famiglie hanno cominciato ad andarsene al Nord, in particolare a Sassuolo, dove stava nascendo il distretto della ceramica”. Una tendenza che ha portato ad una situazione paradossale, a tal punto che ad oggi in Emilia Romagna si contano più irsinesi (circa 8 mila su 40 mila abitanti) che ad Irsina.
Un modo di resistere al deserto demografico, però, Irsina se lo è inventato, puntando ad aprire le sue porte. A scegliere di venire qui, grazie anche al pieno appoggio del Comune, sono in gran parte pensionati provenienti da tutto il mondo che si innamorano del paesaggio.”Ristrutturano – racconta il sindaco – e così molti dei loro investimenti stanno trasformando Irsina in un piccolo gioiello del Sud”.
Basta fare un giro nella parte vecchia della città per accorgersi che sui campanelli campeggiano cognomi d’oltreoceano. Negli ultimi anni, a partire dal 2006, sono arrivati Sandy e Ketih, la prima coppia a decidere di comprare casa ad Irsina per trascorrere la pensione. Da Londra alla Basilicata, per la tranquillità, ma soprattutto per le colline e l’atmosfera. Dopo di loro sono arrivati Ann e Ian, giornalista lei e programmatore lui, che sulla loro terrazza nel cuore di Irsina ci offrono vino e specialità locali.
Ad Irsina, però, oltre agli stranieri, non mancano i giovani decisi a realizzarsi proprio qui. Come Giuseppe Signoriello, 33 anni, che, pur di rimanere nella sua città di origine, insieme a due amici ha pensato di recuperare una razza ormai quasi estinta: il suino nero lucano. “Siamo ambiziosi, vogliamo mantenerne la razza e curare l’intera filiera: dall’allevamento al ristorante, tutto in casa” spiega Giuseppe. La braceria, nel centro del paese, si chiama Fuoco Divino.
O ancora, come Angela Pisani, 36 anni, che ci aspetta nel suo Irislab, un laboratorio di ceramica che una mattina di giugno di 16 anni fa ha deciso di aprire. “Di pane e d’arte non si vive” le dicevano i suoi nonni, ma poco importa. Frequenta il liceo artistico, si innamora, diventa mamma, ma non sceglie di andarsene come tutti i suoi coetanei, al contrario rimane.
“La mia è stata una scelta – racconta Angela – così come il partire anche il restare richiede coraggio, soprattutto quando si va contro corrente. Un giorno ho acquistato il mio forno ceramico, volevo provare l’emozione di bere un caffè con la mia tazzina, ed è iniziato tutto”.
Borgo Taccone, i lotti fantasma – Quando si mette piede a Borgo Taccone, ad interrompere il silenzio ci sono solo i latrati di un branco di cani randagi. Fa parte dei borghi rurali costruiti negli anni ‘50, un agglomerato di lotti pensato per accogliere i lavoratori delle terre circostanti.
“I miei nonni si sono spostati qui, c’erano degli incentivi nel periodo della riforma fondiaria”. A raccontare la vita del borgo è Milena, agronoma, che insieme a suo padre e alla sorellaMaria Luigia, sono l’unica famiglia ad essere residente tutto l’anno nel paesino.
Gli altri cinque, sei nuclei famigliari che hanno ancora casa a Borgo Taccone si spostano a seconda delle stagioni. “Qui c’era un po’ di tutto fino agli anni ‘80 – continua Milena – Mancava solo la scuola, ma c’era l’alimentari, la chiesa. Ci sono progetti di rilancio nel cassetto, ma per ora non è partito niente”.
Passeggiando, si arriva alla vecchia ferrovia. All’orizzonte colline dal verde acceso e grano che germoglia. E mentre Cristo si è fermato a Eboli, nella stazione di Borgo Taccone non si ferma neanche più il treno. “Cosami tiene qua? – si chiede Milena -. La bellezza del cielo quando non ci sono le nuvole di notte, qui si ammira un panorama cosmico incredibile. Quando è completamente buio, guardo le stelle e mi dico: ma chi altro ha una porzione di cielo così?”.
Guardia Perticara, cultura e petrolio – Lo chiamano “Il paese delle case di pietra” per il materiale con cui sono stati costruiti gli edifici del suocentro storico. Negli anni scorsi la maggior parte delle case di Guardia Perticara, comune della Val d’Agri,erano vuote.
A risollevare le sue sorti demografiche, visto che fino al 31 agosto 2017 contava 542 residenti, è arrivato il petrolio. I lavori di costruzione del nuovo Centro Oli della Total hanno portato nell’area centinaia di maestranze. “Da qualche anno nel nostro comune gravitano molte più persone di prima -racconta il sindaco Angelo Mastronardi – la popolazione è quasi raddoppiata e la maggior parte delle case, prima disabitate, sono affittate”.
Un momento positivo che però non è destinato a durare: “Non si può negare che in questo momento nella filiera del petrolio il lavoro per i giovani ci sia, quello che si sottovaluta è che questa occupazione finirà quando la costruzione del centro sarà ultimata” afferma il sindaco.
A quel punto, la disoccupazione potrebbe tornare ad essere un problema. Da Guardia ci si deve spostare non solo per studio, ma anche per svago. Il cinema più vicino è a Potenza:per vedere un film sul grande schermo bisogna percorrere 60 chilometri di curve, su una strada che d’inverno non è delle più agevoli.
Craco, un set a cielo aperto – “Pane e lavoro”. In rosso sbiadito, la rivendicazione, scritta dai contadini prima della riforma agraria, si intravede sulla facciata di palazzo Grossi, dimora dei latifondisti del luogo. Craco, piccolo centro della provincia materana, fino agli anni ‘60, era il paese del grano.
Craco è l’esempio più tangibile di una grande contraddizione: il borgo antico, disabitato da decenni a causa di una frana, è meta di turisti e curiosi. La parte nuova, invece, è un luogo anonimo, popolato da poche persone che devono spostarsi nei centri limitrofi per usufruire di qualsiasi tipo di servizio. A raccontare questa storia sono Antonio e Mafalda, una coppia resistente che abita nelle case popolari, completamente vuote, alle pendici di Craco vecchia.
“Dovevate venire a vederlo quando era vivo il paese, non ora che è morto”, scherzano marito e moglie. Quello rimane oggi è uno scenario di bellezza antica, da decenni scelto per girare film e cortometraggi. Per il Comune, che dal 2009 ha iniziato un’opera di valorizzazione del centro storico, le riprese sono fonte di introito. Per entrare, dichiarando di non fare foto, devi pagare 15 euro. Se vuoi fare riprese 40, ma se vuoi farci un film gli zeri aumentano.
San Paolo Albanese, tradizioni in via d’estinzione – San Paolo Albanese è il paese più piccolo della Basilicata. In 10 anni 100 abitanti in meno: il borgo fondato dagli albanesi che scappavano dai turchi rischia di sparire in pochi anni.
Seduta davanti alla porta della suo bar, Paola asciuga i bicchieri. Ha 26 anni è una delle poche giovani tra le 263 persone che abitano a SanPaolo Albanese, uno dei cinque paesi lucani di origini arbëreshë. Fu fondato nel XVI secolo da una comunità di profughi albanesi che scappavano dall’invasione dei turchi ottomani.
Delle loro origini, gli abitanti di San Paolo albanese – l’età media del paese è 54,2 anni, contro i 45,7 della regione – conservano la lingua e le tradizioni religiose. Se li si incontra tra le strade semi-deserte del paesino, è facile sentirli parlare tra di loro in albanese antico. “Il nostro paese ha subito un forte spopolamento.Nell’ultimo decennio abbiamo perso 100 abitanti. Una media di 10 persone in meno all’anno”, spiega Maria, guida turistica del paese e responsabile del Museo della cultura arbëreshë.
“E allora corri, corri! Corri verso la tua terra che ti sta aspettando. Questa terra grano e sole. Questa terra che è solo allegria”, risuona ancora dalla nostra auto la canzone in dialetto del cantautore Pietro Cirillo che ci ha accompagnato in questo lungo viaggio.
Con i dati alla mano, la Basilicata sembrerebbe essere sul punto di morire , e il rischio ogni giorno che passa diventa sempre più concreto. Mentre lasciamo la Lucania, ci voltiamo. All’orizzonte ci piace immaginare lo sguardo, fermo e orgoglioso, dei tanti giovani che abbiamo incontrato e che hanno scelto di darsi una possibilità, qui e ora nella loro terra. “Perché le radici, ad un certo punto, le senti”. E chiamano.
Spopolamento Europa | La Francia abbandonata
La Creuse: la felicità si trova in campagna
di Lara Bullens e Safouane Abdessalem
La Creuse è ad oggi la regione francese che subisce lo spopolamento più grave. Impotente, giorno dopo giorno, guarda i suoi giovani volare verso altri orizzonti. Ma la speranza non si è ancora spenta, perché ci sono giovani nella Creuse che contribuiscono allo sviluppo della loro regione e che cercano, nonostante tutto, di ripopolare il territorio.
Pontarion, l’arte nascosta – In questo piccolo comune situato nel nord della Creuse, Delphine Pluvinage abita con sua madre e il figlio di quattro anni in un piccolo atelier d’artista. Un vecchio panificio, oggi pieno di ricami, lavori di cucito, articoli di bigiotteria e altri oggetti curiosi. Delphine è sarta, mentre Anne, sua madre, crea gioielli, cuce e lavora il legno. Amante degli oggetti di scarto, li trasforma e dona loro una seconda vita.
“Prima di venire qui, mia madre lavorava come corniciaia da Lesage”. Un’opportunità, per Delphine, di conoscere il mondo del ricamo. Da allora, la parigina vive una vita con la V maiuscola. “Ho sempre fatto tutto in maniera molto spontanea, ho 22 anni, una casa, un bambino e un lavoro che mi piace”, spiega.
Nonostante il suo ottimismo, comunque, non è per sua scelta che la giovane si è trasferita qui due anni fa. “È stato proprio per caso. Abbiamo scelto la Creuse per ragioni economiche. Ma è stato un vero colpo di fortuna e non abbiamo mai rimpianto la nostra scelta”, dice Delphine. Pur considerandosi ora un’abitante della Creuse al cento percento, la ex parigina conosceva gli stereotipi che spesso riguardano questa regione.
“Per me, i cliché della Creuse erano le mucche e il prato. Era proprio l’angolo sperduto della Francia”. Un’opinione che ha cambiato col tempo. “Mi dispiace averla pensata così. Oggi direi invece che è il posto più bello della Francia”. Se la ragazza ha deciso di trasferirsi qui, è anche per crescere suo figlio lontano dal pattume parigino. “Ama molto la natura. È molto creativo per la sua età, e qui penso che possa sbocciare, in una classe di 10 alunni, invece che essere pigiato in una classe di 30”.
Per quanto riguarda il suo mestiere, Delphine è una fautrice del made in France e dice oggi di avere sufficiente visibilità da poter vivere del suo lavoro. “È grazie ai social che ho potuto concludere le mie prime vendite su Internet”, spiega riferendosi ai suoi 80.000 followers su Instagram, che la fanno sentire meno sola.
La Francia periferica – Con i suoi 120 365 abitanti – dagli ultimi dati dell’Insee (Istituto Nazionale di Statistica e degli Studi Economici, ndt)- , la Creuse sta subendo uno dei più gravi tracolli demografici del paese. Non essendo controbilanciato da nuovi arrivi, il suo bilancio è negativo. Tuttavia, ci sono più persone che si trasferiscono nella Creuse che persone che la lasciano.
“Il tasso migratorio è positivo. E’ quindi una zona che attira. D’altro canto la popolazione sta invecchiando, questo non incoraggia gli investimenti e causa così lo spopolamento”, spiega Vanessa Girard – urbanista specializzata nel settore demografico – a proposito del 67 percento di pensionati che costituiscono la popolazione della regione.
Una situazione di isolamento che Michel Vergnier, sindaco socialista di Guérêt (capoluogo della Creuse, ndlr) constata con tristezza. “È chiaro che lo sviluppo economico non interessa la Creuse. La liberalizzazione del commercio in Europa ha provocato la chiusura di importanti realtà aziendali della regione. Non essendoci più opportunità professionali per loro, i giovani se ne sono andati”.
Nonostante gli sforzi politici, la difficoltà demografica si fa sentire da anni e la popolazione della regione continua a diminuire. La stessa economia della Creuse è in ribasso da decenni, come dimostra l’Insee, che nel 2015 ha registrato il PIL per abitante più basso della Francia, con meno di 20.000 euro annuali per nucleo familiare.
Un isolamento progressivo e un sentimento di autarchia che si trovano in quasi tutti i settori dell’economia della Creuse, come nel caso della GM&S (fabbrica di pezzi di automobili, ndr), che anche quest’anno si è trovata ferma. E nonostante tutte le iniziative dei suoi giovani cittadini, la Creuse sembra essersi imbarcata su una “diagonale del vuoto”. Una tendenza alla desolazione, quindi, che non fa presagire niente di buono per le campagne nei prossimi anni. Tanto da chiedersi se esiste una Francia periferica.
Secondo Christophe Guilluy, autore de La France Périphérique, opera in cui tratta la questione delle classi popolari e delle loro caratteristiche geografiche e sociali, se esiste una Francia periferica, lo è soprattutto in senso sociale. “Non è semplicemente una determinazione geografica”, scrive. “Si tratta soprattutto della ripartizione nello spazio delle categorie più umili e popolari, degli operai, impiegati, contadini, lavoratori o giovani disoccupati, o pensionati provenienti da queste categorie”. Questa sarebbe secondo lui “altrettanto urbana e rurale, poco importa il territorio fisico”.
Moutier –d’Ahun: le culture che si mescolano – Dalla sua residenza di artisti della regione, Aurore Claverie a 33 anni si è posta come obiettivo quello di ripopolare il territorio attraverso l’arte. Una presa di posizione che non si riduce alla semplice opposizione tra città e campagna. Perché se la direttrice riconosce che la regione è spopolata, ritiene che lo sia in quanto priva di luoghi di incontro.
“Creare significa far muovere qualcosa incontrando un punto di vista diverso”, spiega. È dopo aver vissuto a Tanger per 7 anni che vede l’incontro come il vero motore in grado di “cambiare il mondo”. Ricca di esperienze personali, la videomaker di professione decide di tornare a vivere in Francia, delusa dalla disparità di accesso alla cultura della popolazione marocchina. “Ho conosciuto persone che non hanno il diritto di andare da un posto all’altro, contrariamente ad altre. Quello che chiamiamo frontiera è qualcosa che mi disgusta profondamente”.
Con la sua esperienza cittadina in tasca, si trasferisce nella Creuse, vedendoci un possibile incontro tra il mondo rurale e quello urbano. Come nel caso di Delphine, inizialmente è il costo dell’abitazione ad attirare la giovane a Moutier –d’Ahun, un comune situato a venti chilometri da Guéret.
“La campagna della Creuse è la sola che conosco, perché mia madre ha comprato una casa a Vieilleville” (a nord est della Creuse, ndlr). “Dato che l’edificio era poco costoso, non avrei dovuto lavorare come un mulo per anni per poterlo comprare o prendere in affitto”, spiega. Originaria di Gers e diplomata all’École pratique des hautes études e alla Sorbona, la videografa ha molti obiettivi artistici e culturali, pur continuando a “mantenere il DNA della Métive”. Tra gli altri, quello di creare dei ponti culturali. “Spero di riuscire a creare dei ponti tra Tanger e la Creuse”, specifica Aurore.
Lussat: l’agricoltura e la politica – Tra i giovani che sono tornati alla Creuse, c’è anche Mathieu Couturier, un giovane agricoltore di 34 anni che ha preso in mano la fattoria del padre.
Nel suo camper di Lussat, un piccolo comune situato a est della regione, Mathieu si accende una sigaretta prima di ricordare gli ultimi dieci anni della sua vita. Trasferitosi nel 2005 nella fattoria di Nouzière, a est del comune, e cogliendo l’occasione del pensionamento del padre per rilevare la fattoria, decide di sostituire i polli alle mucche.
Sensibile alle tematiche bioetiche, alleva circa 5000 volatili che in seguito distribuisce sul mercato tramite vendita diretta. Il fattore non ha di che lamentarsi: la fattoria si estende a perdita d’occhio su 78 ettari e offre una bella vista sul laghetto di Landes.
Ma se il governo promette di stanziare 1,1 miliardi di euro per cinque anni sull’agricoltura biologica, Mathieu non nasconde il proprio scetticismo nei confronti dell’azione governativa in materia di politica agricola. “Si fa molto folklore quando si tratta del biologico.
L’ex ministro Stéphane le Foll ha deciso di promuovere lo sviluppo dell’agricoltura incrementando gli aiuti economici per il suo rinnovamento”, spiega. Solo che adesso gli agricoltori si trovano a dover fronteggiare ritardi dei pagamenti, dovuti al fatto che il ministro non aveva previsto un così alto numero di adesioni.
“Molti di noi non hanno ancora visto i soldi previsti per il 2016 e 2017”, si lamenta Mathieu Coututier, sentendosi “preso in giro da ormai tre anni”. Nonostante la sua delusione nei confronti delle ultime politiche nazionali in materia di agricoltura, il giovane continua a seguire da vicino l’azione politica locale, in particolare quella del sindaco di Guéret Michel Vergniere di Eric Corréia, consigliere regionale della Creuse.
Due attori locali che tengono un rapporto di forza con Emmanuel Macron dopo la promulgazione del Piano particolare per la Creuse (PPC), negoziato dal sindaco e validato dal Capo dello Stato. Delle misure che hanno come obiettivo quello di ravvivare la vita degli abitanti della Creuse ripopolando il territorio.
La svolta della cannabis – Lo scorso 2 febbraio, nel corso di una conferenza stampa presso il Comune di Guéret dedicata al piano di sviluppo della Creuse, il consigliere regionale Eric Corréia suggerisce a un giornalista l’idea di una derogazione per sperimentare la coltivazione della cannabis.
Un progetto che potrebbe, a suo modo di vedere, soddisfare le esigenze degli agricoltori come del governo perché, secondo lui, la cannabis terapeutica potrebbe costituire un settore economico fruttuoso. “In Colorado, sono 18.000 posti di lavoro in tre anni! In Francia, un ettaro di grano sono 300 euro, un ettaro di canapa 2.500!”.
Una soluzione che secondo lui permetterebbe di riavviare la base economica della regione. La proposta fa scintille, viene fortemente mediatizzata, e, con grande sorpresa del consigliere, è accolta bene a Guéret. Ciliegina sulla torta, un sondaggio di Iflop poco tempo dopo mette in luce una vera a propria rivoluzione dell’opinione pubblica sull’argomento: 8 francesi su 10 sarebbero favorevoli all’utilizzo della cannabis per fini terapeutici.
437.000 è il numero delle aziende agricole in Francia, secondo i dati raccolti nel 2016 dal Ministero dell’Agricoltura. Trent’anni fa ce n’erano più di un milione. Una sorpresa? Non proprio. Secondo Agreste, il servizio statistico del Ministero, la produzione agricola oggi non rappresenterebbe che il 3,5 percento del PIL della Francia. Generalmente parlando, la tendenza è chiaramente negativa. Eppure la Creuse conta ancora il 5 percento di agricoltori tra i suoi abitanti, contro l’1 percento della media nazionale.
In altre parole, si tratta di fare della Creuse una regione pilota per la sperimentazione della cannabis a fini terapeutici per far fronte alla sua morosità. Destina quindi 50 ettari alla coltivazione della canapa industriale.
Questa pianta, che somiglia alla cannabis (canapa ricreativa), non ha gli effetti euforizzanti della cugina e la sua coltivazione è legale. “La Francia ne è il primo produttore europeo. Si può fare di tutto con questa pianta: olio, mangime per animali, corde, prodotti tessili, isolanti”, elenca il giovane. Ma Mathieu Couturier si sta battendo anche per un’altra ragione. “Si sa che la pianta ha altri possibili utilizzi”, continua l’agricoltore, che già si vede tra i primi produttori autorizzati di cannabis per fini terapeutici in Francia.
Eric Corréia entra in contatto anche con il gabinetto della ministra della sanità Agnès Buzyn, che dopo un iniziale risposta negativa a queste coltivazioni, sembra ora aver cambiato idea e essersi spostata su posizioni più morbide. “Non mi resta che convincere il Presidente”, scherza, già sicuro della riuscita del suo progetto.
È la canapa che salverà la Francia dallo spopolamento?
Spopolamento Europa | La Spagna abbandonata
Zamora: donne in lotta contro lo spopolamento
di Ana Valiente e Alvaro Garcia Ruiz
La provincia di Zamora rischia di diventare un deserto demografico. In una regione dove oltre il 35 percento della popolazione vive in paesi con meno di mille abitanti, trovare donne al di sotto dei quarant’anni è diventata una sfida. Queste sono le storie, le lotte e i sogni di coloro che, inconsapevolmente, hanno dato il via a una rivoluzione silenziosa in una terra tradizionalmente abitata da uomini.
“Non voglio passare la vita a Zamora. Dopo un po’ ti sta stretta”, dice Emma senza mezzi termini, immaginando come sarebbe la sua vita se non avesse mai lasciato la provincia in cui è nata. Ha ventun anni ed è cresciuta a Villardeciervos, un paese della provincia di Zamora in cui vivono 418 persone, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica spagnolo (INE). Emma però non è più tra queste.
La Lapponia spagnola – Da alcuni anni vive con la sua famiglia a Zamora, il capoluogo, dove si sono trasferiti per motivi di lavoro. Un cambiamento per nulla traumatico: “Non voglio tornare al paese nemmeno per l’estate. Forse un giorno o due e se possibile con la macchina a disposizione”, racconta seduta nella terrazza del ristorante del porto turistico di Ricobayo, un paese di meno di cento abitanti che in estate si trasforma in meta turistica.
Ci lavora come cameriera durante i mesi estivi con altre colleghe, tutte sotto ai venticinque anni. Non ci sarebbe da sorprendersi, se non fosse che la popolazione di Zamora è la più vecchia di Spagna. È molto difficile trovare dei giovani qui.
La provincia di Zamora è stata recentemente paragonata alla cosiddetta “Lapponia del sud”, conosciuta anche come “la Lapponia spagnola”, un termine usato colloquialmente per riferirsi a una zona che comprende le province di Guadalajara, Soria, Teruel, Cuenca e parte di Valencia.
Le donne di Benavente e Toro – La realtà è che, a differenza di ciò che succede nelle zone urbane, tra gli abitanti delle zone rurali lo squilibrio demografico fa pendere la bilancia in favore degli uomini. Se osserviamo la popolazione di Zamora che vive nei comuni rurali, cioè tutti tranne il capoluogo, Benavente (18.095 persone) e Toro (8.789), vediamo che ci sono 94 donne ogni 100 uomini, mentre la media nazionale è di 104 donne ogni 100 uomini. La differenza è ancora più marcata se consideriamo i giovani tra i 20 e i 29 anni, nelle zone rurali di Zamora vivono infatti 88 ragazze ogni 100 ragazzi, secondo i dati dell’INE di gennaio 2017.
Non è una particolarità della provincia di Zamora, in realtà è un problema molto più ampio, un fenomeno che caratterizza tutte le aree rurali. La professoressa dell’Università di Valladolid, Rosario Sampedro ha studiato a fondo questo fenomeno e, insieme ad altri autori, nelle sue ricerche lo definisce “mascolinizzazione della popolazione rurale”.
Per molti anni, sono state indicate come cause di questa prevalenza del sesso maschile la maggiore inclinazione delle donne a vivere in città e il predominio di posti di lavoro considerati da uomini. Allo stesso tempo, si attribuisce la colpa dell’emigrazione femminile all’impostazione delle famiglie rurali. Ai figli maschi veniva insegnato come prendersi cura del bestiame o della terra, con l’idea che avrebbero ereditato l’attività, mentre alle figlie si dava un’educazione che, probabilmente, non poteva essere poi messa in pratica nell’ambiente rurale.
È un fenomeno dimostrato, ma è anche vero che, sono le donne con uno scarso livello d’istruzione a lasciare la campagna alla ricerca di un lavoro. La maggior parte delle politiche per “trattenere” le donne nelle aree rurali passa attraverso il lavoro autonomo, la creazione di un’impresa, la gestione della famiglia o l’integrazione in settori tradizionalmente associati agli uomini, come l’agricoltura.
“Ci sono persone che vorrebbero andare a vivere in campagna o rimanerci e non lo fanno perché mancano opportunità lavorative, abitazioni, strutture educative e sanitarie…”, afferma Rosario.
Una delle politiche attuate è la legge sulla proprietà condivisa. La sua approvazione nel 2011 è stata una pietra miliare per la visibilità delle donne contadine che per molti anni hanno lavorato la terra con i loro mariti senza ottenere alcun diritto o retribuzione. La misura ha finalmente reso più facile per le donne essere considerate comproprietarie delle aziende agricole.
Quando è stata pubblicata, sembrava che la legge avrebbe risolto i problemi delle zone rurali e sarebbe stata un’opportunità unica perché la campagna smettesse di essere una realtà prettamente maschile. Otto anni dopo, i fatti hanno dimostrato che in Castiglia non è andata proprio così.
Le associazioni delle donne rurali pretendono si facciano ulteriori passi avanti in termini di uguaglianza e anche il Ministro dell’Agricoltura ha riconosciuto che questa misura non è stata efficace come previsto, poiché in tutti questi anni poco più di quattrocento aziende agricole hanno aderito a questo regime, secondo i dati ufficiali del ministero.
L’altra misura fondamentale per rendere visibile e favorire l’indipendenza e l’imprenditorialità delle donne rurali è stata il cosiddetto tasso forfettario per i lavoratori autonomi. Per ventiquattro mesi, i nuovi lavoratori autonomi nei comuni con meno di 5.000 abitanti pagheranno una quota mensile di cinquanta euro e, nel caso di donne sotto i 34 anni, questa misura sarà estesa per un ulteriore anno con una serie di crediti d’imposta.
Lati negativi? La misura non è retroattiva, non puoi accedervi se hai già lavorato come autonoma in un altro momento (una cosa molto comune nel mondo rurale) e dopo questi tre anni ti ritrovi ad affrontare di nuovo tutte le difficoltà: “Sono fortunata a non essermi mai registrata come lavoratrice autonoma. Conosco una ragazza che produce pollo biologico e anni fa aveva gestito un bar, ora non ha alcun supporto economico”, dice Rocío in merito alla tariffa forfettaria.
San Vitero: gli imprenditori locali – La prima volta che Sofi è venuta a Zamora, l’ha fatto per lavorare nel settore ricettivo durante l’estate lasciando il suo paese, il Portogallo, in cerca di un’opportunità che lì non aveva trovato. Le piacque così tanto che decise di rimanere, finché proprio qui incontrò il suo compagno con cui oggi vive alla periferia di San Vitero, un paese di 520 abitanti.
Qui gestisce un salone parrucchiere ricavato in casa sua.“Mi piacciono la tranquillità e la pace che ci sono qui”, dice Sofi rapidamente e con un accento appena percettibile. In Portogallo ha studiato gestione d’impresa, un ambito che l’ha aiutata nel suo impegno perché altri giovani come lei possano rimanere in un paese che rischia di scomparire.
“Cerchiamo di fare in modo che i giovani rimangano. Tutti credono che non sia necessario aprire attività commerciali perché tra cinque anni non ci sarà più nessuno. La gente la pensa così”, dice. Tuttavia, Sofi ritiene che molti giovani scambierebbero la città per la campagna se gli venisse offerta un’opportunità di lavoro che garantisca stabilità e qualità della vita.
“Gli ottantenni stanno morendo, perché non investiamo sui giovani?” Alcune delle misure adottate sembrano aver funzionato. “Il sindaco ha proposto di far venire qui famiglie con bambini per tener aperta la scuola, perché se non ci fossero stati almeno quattro bambini avrebbe dovuto chiudere. E alla fine, l’iniziativa ha funzionato.”
Ha in testa migliaia di idee imprenditoriali per questa regione ricca di vini, carni, formaggi e funghi. “Se non ho un aiuto, perché dovrei comprare quaranta maiali? Non potrò mantenerli. È così che i paesi muoiono. Dall’altro lato, qui le industrie ci sono, ma è una cosa da uomini, ecco perché le donne se ne vanno”.
Questa frase di Sofi si sposa perfettamente con la visione di Emma, di Rocío e con gli studi sulla mascolinizzazione rurale. L’approccio tradizionale presuppone che tutti i settori che generano maggiore ricchezza e rappresentano il nucleo economico dei paesi, appartengano agli uomini, mentre le donne svolgono compiti importanti nella routine quotidiana, ma senza grandi effetti sull’economia locale.
Villar del Buey: l’anti Madrid – A un’ora di macchina da San Vitero, spostandoci verso sud, ci aspetta Liliana. Il paese si chiama Villar del Buey, ci vivono 579 persone e oltre a confinare con il Portogallo, si trova all’interno del Parco Naturale Arribes del Duero. È un ambiente naturale verso il quale gli abitanti delle città fuggono in cerca di qualche giorno di tranquillità sulle rive del fiume Duero che, circondato da vigneti e querce, si snoda in un lento zigzag tra Spagna e Portogallo.
Dopo qualche tempo, hanno deciso di tornare al paese e nel 2015 hanno avviato la propria attività di produzione di vino biologico. Cosa che, ancora una volta, è stata definita una follia da chi sta loro intorno. “La mia famiglia è molto convinta del progetto, ma chi è nato qui e sa quanto sia difficile affrontare la povertà, la carenza di risorse e la necessità, ha un’opinione diversa. A cosa si deve questa depressione collettiva?” chiede a suo marito. “È una sorta di mancanza di orgoglio. È una cosa culturale. Qui hanno davvero sofferto la fame”.
Il silenzio e lo sguardo gentile dei visitatori contrastano con la visione severa di chi ci vive: “Una delle cose più complicate da affrontare è la pressione sociale. Sembra sia stata fatta una selezione naturale al contrario e che qui sia rimasto solo chi non ha potuto andarsene. Ecco perché, per molte persone, come mio suocero, tornare indietro è… una follia”, racconta questa asturiana di 39 anni, mentre ci mostra i suoi vigneti secolari.
Le sue figlie, Lola e Vera, rincorrono il cane tra le viti e non sembrano annoiarsi o preoccuparsi perché oltre a loro c’è solo un’altra bambina in paese. “Stavamo davvero meglio a Madrid, al lavoro tutto il giorno e con uno stipendio fisso?” si chiede.
Il profilo di Liliana corrisponde perfettamente al prototipo della persone che torna a vivere a Zamora: una donna con un livello d’istruzione medio-alto e le conoscenze necessarie per gestire una piccola impresa. Liliana ha la competenza per fare qualsiasi cosa: inviare e-mail agli acquirenti, presentare vino negli hotel di lusso o vendemmiare. “È vero che non è facile entrare in questo ambiente se non hai dei contatti legati alla famiglia o agli affari”, dice Liliana.
Chi resta – Perché le donne se ne vanno? È una domanda che Margarita Rico, professoressa presso la scuola d’ingegneria agraria di Palencia (UVa) ed esperta in sviluppo e donne rurali, si pone da molto tempo. Anche lei è fra le donne che hanno deciso di vivere in paese, nel suo caso, nella provincia di Palencia.“È l’unico stile di vita che comprendo. Tranquillità, ambiente sano, qualità dell’aria, silenzio e, soprattutto, convivenza”, ci dice al telefono.
“La modernizzazione della società ha fatto sì che vivere in paese sia una scelta da disprezzare. Si apprezzano il consumismo, le apparenze, il successo sui social network. Quando vado nelle scuole a parlare dello sviluppo rurale, molti giovani mi guardano e mi dicono che vogliono andarsene perché qui non ci sono centri commerciali. Preferiscono davvero questo ai vantaggi della vita in campagna? Non si rendono conto di quello che hanno. Vedono solo ciò che manca”, racconta Margarita.
Poi aggiunge: “La colpa di questo abbandono è dell’amministrazione, non sostiene l’ambiente rurale. Non lo fanno perché non ci sono elettori. A nessuno importa dei nostri paesi.”
Il dubbio dietro all’ottimismo di Liliana è lo stesso di Sofi o Rocío: si chiedono se il loro impegno e la loro dedizione saranno seguiti da altre persone e altri progetti da portare avanti nell’ambiente rurale o se, al contrario, saranno solo delle piccole speranze nel buio: “Non so se il mondo rurale è arrivato al punto di non ritorno.
L’Ue ha stanziato dei fondi con i programmi PRODER o LEADER. I primi anni ti pagavano il 100 percento dell’investimento, ora ti pagano il 20 o il 30 percento. Se a Madrid inizi un’attività, poi ti ridanno il 20 percento? No. Quindi, perché nessuno viene qui?” si chiede Liliana.
Nulla garantisce che questi luoghi non si riducano a un ambiente selvaggio e abbandonato nelle mani della natura. A un paesaggio che si intravede soltanto dietro al finestrino dell’auto. Quel che è certo è che Liliana, Rocío e Sofi corrispondono perfettamente al profilo delle donne coraggiose, capaci di produrre piccoli cambiamenti nel loro ambiente.
Sono loro che, insieme ad altre, hanno iniziato quasi inconsapevolmente una rivoluzione silenziosa che dimostra che non tutto è perduto nella Spagna svuotata.
*** Questo articolo fa parte del progetto editoriale Empty Europe, vincitore del premio giornalistico internazionale Reporters in the Field, finanziato dalla fondazione tedesca Robert Bosch Stiftung e coordinato dall’associazione n-ost.