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Sulla nuova Via della Seta la Somalia è la “perla nera” di Pechino

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Le relazioni odierne tra i due paesi non hanno più nulla a che fare con l’ideologia politica ma ciò non toglie che, da oltre una decina d’anni, Cina e Somalia siano tornate a considerarsi buonissimi amiche. L'analisi

In linea d’aria, Pechino e Mogadiscio distano l’una dall’altra oltre 8 mila chilometri. Nei fatti, però, le due non sono mai state così vicine dalla fine degli anni ’70, ossia dallo scoppio di quella guerra dell’Ogaden (1977-1978) che vide contrapposti l’Etiopia di Menghistu e la Somalia di Siad Barre.

Il conflitto, che segnò inevitabilmente la rottura degli equilibri interni ed internazionali della dittatura somala – destinati a crollare definitivamente nel ’91, con la guerra civile – vide infatti la Repubblica Popolare appoggiare quest’ultima, dopo che l’URSS aveva deciso di supportare il regime etiope, data l’ormai accesa rivalità tra i due giganti rossi per il ruolo di paese-guida del socialismo.

Le relazioni odierne tra i due paesi non hanno più nulla a che fare con l’ideologia politica ma ciò non toglie che, da oltre una decina d’anni, Cina e Somalia siano tornate a considerarsi buonissimi amiche, come forse non si era visto nemmeno nel secolo scorso.

Un legame rinsaldato già ben prima del 2014, anno in cui è stata riaperta l’ambasciata cinese a Mogadiscio, dopo 23 anni di assenza causati dallo scoppio della guerra civile e dalle continue tensioni tra i signori della guerra locali, miliziani islamisti e il precario governo federale transitorio (Transitorial Federal Government, TFG).

Dalla propria rappresentanza a Nairobi, però, il Dragone ha continuato a monitorare la situazione oltreconfine.

Una delle tappe del riavvicinamento è stata sicuramente il giugno del 2007, quando il colosso petrolifero China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) ha raggiunto un’intesa con il governo somalo, all’epoca presieduto da Abdullahi Yusuf Ahmed, già ufficiale dell’esercito di Barre durante il conflitto sopracitato.

In quel periodo, infatti, l’allora Ministro per l’Energia, Abdullahi Yusuf Mohamad, il capo delle operazioni in Africa della CNOOC, Chen Zhuobiao, e il direttore amministrativo della China International Oil and Gas (CIOG) Group, Judah Jay, scrissero l’accordo poi firmato da Yusuf pochi giorni dopo.

Anche se definire le due imprese come cinesi non sarebbe corretto: i Paradise Papers hanno infatti rivelato che entrambe hanno sede legale nelle Isole Vergini, “curioso” luogo per un’azienda di stato.

Stravaganze del socialismo asiatico a parte, l’oggetto dell’accordo era soprattutto la concessione per l’esplorazione nel Mudug, regione che si trova nel semi-indipendente Stato del Puntland nonché luogo di provenienza dell’allora Presidente e del suo clan.

Che si sia scelto proprio questa zona non è un fatto da poco: come scriveva al tempo J. Peter Pham, direttore del Nelson Institute for International and Public Affairs e membro del think-thank Foundation for Defense of Democracies (FDD), la “Range Resources Ltd., misterioso gruppo petrolifero sospeso dalla quotazione alla Borsa australiana cinque volte negli ultimi due anni (…) ha concluso da dati raccolti da altre aziende e da studi sul campo che è riuscito a condurre negli ultimi anni grazie ai suoi stretti legami con i governanti del Puntland, che il rendimento potenziale potrebbe raggiungere i 10 miliardi di barili” in quest’area del paese.

Una vera e propria miniera di oro nero, quindi, a cui si erano soltanto avvicinati le varie Agip, Shell, Conoco and Phillips e Amoco (poi assimilata dalla BP) tra gli anni ’80 e ’90. Le loro esplorazioni, però, non avevano portato all’avvio di estrazioni, anche perché lo scoppio della guerra civile all’inizio degli anni ’90 costrinse le aziende a fare dietro-front.

Oggi invece è la Cina che pompa il combustibile dai -ancora pochi- giacimenti somali, presenti prevalentemente nel nord del Puntland, e da quattro anni ha ravviato un contatto stabile con Mogadiscio riaprendovi, dopo oltre due decenni di assenza, la propria rappresentanza diplomatica.

È sicuramente sintomo del fatto che la situazione locale stia migliorando, quantomeno nella capitale, ma soprattutto è un passo avanti essenziale per intensificare la propria presenza nel Paese, ora che la concorrenza con altre imprese del settore sta iniziando ad accendersi.

Non c’è solo il petrolio e le altre risorse naturali negli interessi di Pechino, però. L’intero Corno d’Africa, infatti, è da tempo “corteggiato” dall’Impero Celeste, visto che una delle arterie della nuova Via della Seta passerà proprio per di qui, punto di snodo cruciale da e per il canale di Suez.

Per portare avanti i propri progetti i cinesi non vogliono porsi vincoli: già nel 2015 al sesto forum per la Cooperazione fra Africa e Cina a Johannesburg, infatti, Xi Jinping aveva annunciato investimenti per 60 miliardi di dollari per le economie del Continente Nero, destinati da lì a quest’anno per le infrastrutture locali.

Molte di queste orbitano attorno al porto di Gibuti, dove ha sede la prima base militare all’estero della RPC e la zona di libero scambio inaugurata recentemente, gestita da tre aziende cinesi: China Merchants Group, Dalian Port Authority e IZP.

Ecco allora che anche l’intervento di Pechino nella lotta alla pirateria ha la propria ragion d’essere, continuando a portarlo avanti anche quando gli attacchi alle navi passanti per questo tratto di mare sono calati drasticamente: “Nell’ottobre 2017, – ha scritto Dmitry Bokarev su New Eastern Outlook – il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese ha annunciato che la Cina continuerà a proteggere la navigazione civile nel Golfo di Aden e invierà molti altri squadroni sulle coste della Somalia”.

Una conferma che questa è la direzione e che da essa non ci si discosta è stata data dall’aumento del bilancio della difesa del 2018, passato a 1,11 miliardi di yuan (175 miliardi di dollari), ossia +8 per cento rispetto all’anno prima, come riferito da Asia Times: fondi che andranno sicuramente ad incidere sulla propria capacità navale, con almeno quattro nuovi cacciatorpedinieri in cantiere prossimi al varo.

Nel prossimo futuro è facile immaginare che il grosso degli sforzi economici asiatici in Somalia si concentrerà nel Puntland, con la possibilità che quest’ultimo assuma un peso sempre più rilevante nei confronti del governo centrale per la questione della propria autonomia.

In questa direzione potrebbe orientarsi anche l’Etiopia, visto che lungo le coste di questa regione si trovano diversi porti da tempo oggetto del suo interesse, come quello di Bosaso e Obbia: l’asse Addis Abeba-Pechino è solidissimo e sarà sicuramente determinante per le mire di entrambe.

Cercando di capire se la Turchia, altra potenza presente all’area, sarà chiamata nella spartizione di questa torta o se nascerà una nuova guerra per procura – o si riattiverà quella già presente -, con alleanze ancora da definirsi.

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