Gli attentati di Parigi vissuti il giorno dopo di fronte alla replica di una partita surreale
Il commento sugli attentati di Parigi del giornalista italiano Matteo Marchetti
Su Sky Sport 3 fanno la replica di Francia-Germania. L’effetto che fa è… Non lo so nemmeno io. Ma so che sono solo, in casa, sul divano. Un laptop sulle ginocchia che mi collega al mondo, e sullo schermo una partita che passerà alla storia, ma non per la straripante prestazione di Martial.
Fuori dallo stadio stava succedendo di tutto, spari, bombe, ostaggi e sangue. E io ora sto guardando la partita, ogni tanto passa un crawl di SkyTg24 che invita a girare su 100. Al 16esimo minuto del primo tempo si sente un botto. Non è una bomba carta. Al gol di Giroud, servito ancora da Martial dopo che questo si era bevuto mezza difesa, esultano tutti. Bandiere al vento e cori a tutto spiano. Non lo so.
Tanti stanno scrivendo su Facebook e Twitter, insultano l’Islam o invitano a non perdere la calma. Salvini, come di consueto, flatula. Ma tutto è paradossale. La città gemellata con la mia (“Solo Parigi è degna di Roma, solo Roma è degna di Parigi”) è stata devastata da sette attentati contemporanei, e io stamattina sono a casa, a guardare Francia-Germania, sul divano. Potrei scrivere tipo #qualcosa, se fossi più smart. Ma non saprei cosa dire, men che mai in otto lettere o giù di lì.
Anche stamattina, mentre stavo facendo la rassegna stampa, notavo l’impossibilità, per una società come la nostra, di adattarsi a quello che la storia sembra metterci davanti. Le parole usate sono le stesse del dopo Charlie Hebdo, le stesse del dopo Copenaghen. Non riusciamo più a trovare parole, perché le abbiamo già usate tutte, magari a sproposito. Una proliferazione di iperbole che oggi ci dovrebbe costringere al silenzio.
Non possiamo dire “11 settembre d’Europa”, perché lo abbiamo già detto dopo Madrid e dopo Londra. Non possiamo dire “11 settembre di Francia”, perché lo abbiamo già detto dopo Charlie Hebdo. Non possiamo più dire “Ormai ogni luogo è a rischio”, perché lo abbiamo detto dopo Copenaghen. E allora questa società che sognava di aver espulso il conflitto dalla storia si trova senza parole, o meglio senza la possibilità di dire nulla di nuovo, perché già in passato, impreparata, era ricorsa a frasone a effetto pur di mascherare il vuoto pneumatico di elaborazione e di teoria che la affligge ormai da anni.
Le lacrimucce e gli hashtag non possono nascondere quello che più che choc sembra sincero stupore. Ma come, sembrano dire le nostre bacheche, ma allora non è tutto finito? Non era bastata la marea di “Je suis Charlie”?
No, non è bastata. Perché la storia è più complicata di Twitter. E perché, di fronte a un pericolo incarnato da decine e decine di migliaia di persone, non bastano risposte individuali (e individualiste), né lo slacktivism delle foto profilo. Serve una mobilitazione collettiva, contro una minaccia totale a tutto quello che siamo. Il nemico non è “l’Occidente dell’imperialismo” ma l’Occidente tutto, e quindi colpirà anche chi non si sente parte in causa.
Le stragi di ieri segnano un cambio di passo: siamo all’eliminazione totale e indiscriminata. Più difficile da prevenire, più facile da mettere in pratica. I prossimi mesi saranno fatti di tensione e di lacrime. Forse i prossimi anni. Ma non ne usciremo con abbracci twittaroli. Ne usciremo mobilitandoci, per tutto quello in cui crediamo e per tutto quello che vorremmo essere.