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La Siria dimenticata tra il terremoto e una guerra che non finisce mai (di S. Mentana)

Immagine di copertina
Credit: AP Foto

Un conflitto in corso ormai da 12 anni. Un terzo della popolazione fuggita all’estero. Quasi la metà senza più una casa. E un Paese ancora frammentato dalla lotta tra il regime e le opposizioni che ora deve affrontare pure il terremoto. Con il peso delle sanzioni.

“Il mondo si è dimenticato della Siria”. Con queste parole Mike Ryan, a capo del programma emergenze dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha dipinto la situazione nel Paese in seguito al drammatico terremoto che ha sconvolto l’intera regione mediorientale.

Le scosse verificatesi il 6 febbraio scorso e a distanza di poco tempo l’una dall’altra con magnitudo 7.8 e 7.5 con epicentro nel sud-est della Turchia hanno causato almeno 40mila morti, ma di fronte a una catastrofe di tale entità siamo consapevoli che il bilancio rischia di essere destinato ad aumentare. Se aggiungiamo che uno dei Paesi coinvolti, la Siria, sta ancora oggi affrontando una guerra civile iniziata nel 2011 in cui hanno perso la vita almeno 500mila persone, che ha portato oltre sei milioni di abitanti a lasciare il Paese e causato circa altrettanti sfollati interni, il disastro umanitario è ancora più grave. Ma, come ha detto Ryan, il mondo non sembra essersene accorto.

Mosaico insanguinato
Diversamente dalla Turchia, in Siria l’emergenza umanitaria deve scontrarsi anche con la complessa situazione sul campo dovuta al conflitto civile che rende ogni forma di aiuto particolarmente difficile. Il nord-ovest del Paese, quello più colpito dalla scossa, è infatti da anni al centro dei delicati equilibri della regione ed è da anni teatro di uno dei tanti scontri che compongono quel mosaico insanguinato che è la guerra civile siriana.

Questa fascia di territorio a ridosso della Turchia è infatti abitata da diverse popolazioni, tra cui i siriani e i curdi e sono attivi diversi gruppi ribelli, e anche per questo Ankara ha lanciato a partire dal 2016 una serie di operazioni militari con tanto di interventi terrestri diretti per evitare l’eccessivo avvicinamento ai propri confini sia dei miliziani del sedicente Stato Islamico che dei curdi. Questo ha portato non solo a un deterioramento dei rapporti tra Ankara e Damasco, ma anche a un isolamento della regione che ora si trova a fronteggiare la crisi umanitaria causata dal terremoto.

Già prima del sisma, erano circa due milioni le persone che nella provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria, vivevano in campi per sfollati. Questo, sommato alle difficoltà di comunicazione tra i territori dovute alla guerra, rende ogni forma di aiuto estremamente difficile dal punto di vista logistico.

In questo senso è proprio la situazione nella provincia siriana di Idlib a risultare particolarmente preoccupante. In quest’area, parte del territorio è controllato dal gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), designato dall’Onu come un’organizzazione terroristica. La zona in mano al gruppo, in passato noto come Fronte al-Nusra, è divisa dalle linee del fronte dal territorio del governo di Damasco e comunica con la Turchia solo tramite il valico di frontiera di Bab al Hawa, danneggiato dal terremoto. Ma in un Paese in cui i gruppi sono molteplici non è questa l’unica questione a complicare la gestione dell’assistenza.

Gioco a perdere
La Siria, infatti, è colpita da numerose sanzioni che rendono difficile anche inviare aiuti umanitari nel Paese. Dopo le richieste di sostegno internazionale, gli Stati Uniti hanno infatti sospeso una delle restrizioni imposte a Damasco, evitando così che le transazioni per gli aiuti umanitari passino sistematicamente da un unico ufficio. Un segnale distensivo, che tuttavia rischia di non essere sufficiente, viste le numerose restrizioni verso il governo siriano.

Ma nella gara per gli aiuti, in un Paese così frammentario in cui in tanti cercano il riconoscimento della propria sovranità, la partita è anche politica. Il governo siriano, infatti, ha chiesto che tutti gli aiuti per il terremoto vengano inviati direttamente agli aeroporti di Damasco o Aleppo, anche se destinati ai territori controllati dai ribelli. Un modo, questo, per evitare che il governo di Bashar al-Assad venga bypassato.

Il timore di fornire aiuti direttamente ai ribelli è emerso anche dal post Instagram pubblicato da Zeinab al-Assad, figlia del presidente siriano, che ha invitato i suoi contatti a fare le dovute verifiche su chi effettivamente riceverà gli aiuti, proprio per evitare che vadano nelle mani dei ribelli jihadisti.

Anche nel territorio al confine con la Turchia e controllato dai gruppi di opposizione vicini ad Ankara la situazione sembra incontrare ostacoli di natura politica. Nei giorni immediatamente successivi al terremoto è uscita la notizia di un convoglio di aiuti proveniente dalle zone della Siria amministrate dai ribelli curdi fermato prima che potesse raggiungere l’area delle milizie sostenute dalla Turchia, con i due gruppi che si sono accusati a vicenda per l’accaduto.

Squilibri globali
Da quando l’Isis ha perduto gli ultimi pezzi del suo territorio in Siria, la guerra civile nel Paese mediorientale è passata sempre più in sordina nel mondo dell’informazione, ma ha continuato ad andare avanti, seppur in forma differente. Nello specifico, il nord, quello particolarmente colpito dal terremoto, è diventato uno scacchiere diplomatico, militare e politico che vede coinvolte la Turchia, la Russia e gli Stati Uniti, con Ankara che sostiene i ribelli sunniti, Mosca il governo di Bashar al-Assad e Washington i curdi del nord-est e in cui si intrecciano e si scontrano interessi determinanti per gli equilibri della regione.

Proprio lo scorso dicembre Mosca ha ospitato un incontro tra delegazioni turche e siriane sulla delicata situazione dei profughi nell’ambito di un potenziale percorso di normalizzazione del dialogo. Un teatro strategico su cui il grosso del mondo dell’informazione sembra aver abbassato le luci, ma da cui passavano gli equilibri mondiali anche prima del sisma. Oggi questi elementi continuano a essere presenti, intrecciandosi con gli aspetti anche più pratici del necessario sostegno a milioni di persone che, dopo anni di guerra, si trovano a fronteggiare un terremoto di portata catastrofica.

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