Parla l’italiano che ha combattuto nel Rojava contro l’Isis: “Le potenze mondiali gestiscono la questione curda con cinismo perché hanno paura della sua forza politica”
Davide Grasso, l’italiano che ha combattuto contro Isis in Siria
Davide Grasso, torinese, 38 anni, è un ex combattente dello Ypg, la forza curda di liberazione popolare contro cui il presidente della Turchia Erdogan il 9 ottobre scorso ha avviato una pesante offensiva nel nord-est della Siria. Davide ha combattuto da maggio a settembre 2016 nella zona di Tel Abyad e nei territori che in queste ultime settimane sono stati bombardati dalle forze dell’esercito turco. Oggi, primo novembre, si trovava alla manifestazione per il Rojava a Roma insieme a migliaia di ragazzi e attivisti di Potere al popolo, Rete Kurdistan, Restiamo umani ed altre organizzazioni. È ancora in contatto con i combattenti curdi che si trovano in Siria ed è in attesa di capire quello che succederà nei prossimi giorni, dopo l’inizio dei pattugliamenti congiunti di Ankara e Mosca per vigilare sull’effettivo ritiro dei curdi, stabilito dall’accordo di Sochi del 22 ottobre.
La confederazione del Rojava è autonoma e autogestita, non c’è mai stata una vera e propria dipendenza economica da un attore politico o da un altro, quindi da questo punto di vista non cambia nulla. È una regione che si sostenta attraverso cooperative agricole e commerciali. Ci sono poi delle risorse petrolifere e benché non siano commerciabili con l’estero, possono essere vendute come gasolio sul mercato interno. Nel 2013 in Rojava sono state costruite raffinerie grezze. Il gasolio non è commercializzabile a livello internazionale ma per le famiglie e per gli autoveicoli della regione viene utilizzato quello.
Penso che adesso paradossalmente possano anche sopravvivere meglio perché in questo momento sembra ci sia la possibilità di avviare un processo politico anche con il regime siriano. La speranza è che i russi possano riuscire a gestire un accordo che renda possibile lo sviluppo della regione.
Se dipendesse solo da Assad e solo dal suo entourage economico non credo che l’accordo con i curdi sarebbe credibile. Tuttavia, visto che il regime siriano è di fatto un protettorato finanziario dell’Iran e un protettorato militare della Russia, Assad non conta nulla. Dipende tutto da Putin, ora che gli Stati Uniti si sono ritirati.
Stanno avvenendo in maniera pacifica nonostante la continua violazione della tregua da parte della Turchia, che continua a bombardare a casaccio quella zona, facendo anche vittime civili. La Turchia continua a bombardare soprattutto le truppe siriane che sono posizionate lungo il confine e questo è un problema perché la Turchia ha sottoscritto un accordo internazionale in cui ha promesso di non attaccare.
Le armi sono per lo più derivanti dalla guerra fredda. Sono Kalashnikov degli anni ’70 e ’80 e arrivano da un periodo in cui l’Unione sovietica poteva rifornire di armi i vari movimenti di liberazione del mondo. Armi nuove ce ne sono pochissime, un combattente su 100 ha magari un M-16 (un fucile d’assalto americano). Ma non è un esercito armato come lo si intenderebbe oggi. È una forza malamente e debolmente armata. Il livello di scontro che questi ragazzi si assumono con armi insufficienti è incredibile e infatti questo è il motivo per cui i caduti curdi sono moltissimi.
Gli Stati Uniti hanno fatto molta pubblicità ma in realtà non c’è stato un aiuto consistente a livello militare. Prima dell’operazione in Iraq sono stati dati solo una ventina di mezzi blindati ai curdi. Lo Stato islamico invece è dotato di armi molto più avanzate che gli stessi Stati Uniti e la Turchia hanno dato ai ribelli siriani islamisti (tra cui c’era anche l’Isis). I cattivi paradossalmente negli anni sono stati armati molto più dei buoni. I buoni, i curdi, sono una forza rivoluzionaria e per questo c’è molta prudenza nel riempirla di armi, è difficile affiliarla sotto un potentato unico.
Assolutamente, lo si vede dagli sviluppi di queste settimane, in cui di fatto tutte le potenze gestiscono la questione curda in maniera molto cinica.
In base alla mia esperienza posso solo dire che ogni volta che siamo entrati nei luoghi e nei palazzi che erano stati abbandonati dall’Isis abbiamo trovato documentazione e passaporti pieni di timbri turchi che davano traccia degli spostamenti degli jihadisti. Erano entrati tutti dalla Turchia, non dall’Iraq o dal Libano.
Intendo dire che o l’intelligence turca è l’ultima a livello mondiale o ci prendono in giro ed è la stessa Turchia a permettere agli jihadisti di partire. Questo vale non solo per gli jihadisti partiti dalla Turchia per venire a uccidere in Siria, ma anche per quelli partiti per venire ad uccidere e a fare attentati in Europa. La Turchia ha un problema di sicurezza enorme che è sempre stato sottovalutato.
Ad Afrin nel 2018 come noto la Turchia ha bombardato con gli elicotteri realizzati grazie ad una licenza di coproduzione italo-turca. C’erano molti italiani che hanno combattuto contro questi elicotteri italiani, lo stesso Lorenzo Orsetti che poi è caduto. Riguardo all’invasione attuale lo do per scontato: le armi utilizzate sono quelle in dotazione all’esercito turco. Elicotteri e esplosivi italiani, carri armati tedeschi. L’Italia è ampiamente corresponsabile.
Il problema è a che pro. Se vanno lì per proteggere un processo di pace reale tra la regione del Rojava e la Siria è un fatto positivo, se vanno là con atteggiamenti più ambigui legati a interessi geopolitici o magari con un atteggiamento comprensivo verso le manie di Erdogan, allora è meglio che restino a casa.
Il Rojava è un luogo in cui in un contesto e in un mondo dove va per la maggiore voler imporre agli altri le proprie idee e la propria fede religiosa, migliaia di persone si sono decise a dire: “No qui ognuno è libero di scegliere se vuole coprirsi col velo o no, quale lingua studiare e come vestirsi”. La presenza femminile è fondamentale. Il Rojava è sostanzialmente il contrario del mondo di oggi. Si rifà a un’idea di municipalismo che è stata anticamente socialista e che si basa sul principio della sussidiarietà, qualcosa che fu già sperimentato durante la Comune di Parigi. È l’idea per cui le comunità locali, finché non c’è strettamente bisogno di un ordinamento superiore si autogestiscono e si confederano solo per questioni in cui è necessaria un’organizzazione più ampia.
Il non-Stato del Rojava si organizza attraverso più di 5mila comuni popolari. Piccole istituzioni locali di quartiere o di villaggio che si riuniscono una volta al mese in maniera assembleare su base volontaria ed eleggono delle commissioni. Queste a loro volta si incontrano una volta a settimana e ognuna ha compiti diversi divisi per competenze: dall’economia alla giustizia fino all’educazione. In questo modo tutte le persone si occupano in prima persona della vita associata collettiva. Queste comuni si confederano poi attraverso dei delegati a livello cittadino, cantonale e regionale. Ci sono infine anche istituzioni più alte che però si occupano solo di questioni infrastrutturali o di pianificazione militare che non potrebbero essere gestite da un singolo villaggio. Rojava si organizza a partire dal basso ed è il contrario di uno Stato europeo che stabilisce dall’alto cosa si deve o non si deve fare.