“Vi siete dimenticati di noi, qui è un inferno”: la vita di una profuga di Afrin nei campi di Shehba
Siria campi profughi Afrin – La battaglia di Afrin del marzo 2018 è stata una delle più importanti della quasi decennale guerra in Siria, ma il nome della regione sembra ormai sparito da tv e giornali internazionali.
Solo un anno fa giungevano da ogni dove condanne contro lo Stato turco e i suoi alleati per i continui bombardamenti e lo spargimento di sangue da loro perpetrato in una regione librata dalle forze curde e diventato luogo di rifugio per tutti coloro che scappavano dalla guerra.
Oggi, però, di Afrin e del cantone limitrofo di Shehba in cui sorgono diversi campi profughi e in cui vivono più di 170mila persone non parla quasi più nessuno.
“Si sono dimenticati tutti di noi, i media non parlano più di quello che succede nel nord ovest della Siria né della vita di noi sfollati”.
Dall’altra parte del telefono c’è Ofe, una ragazza di 30 anni che vive nei campi profughi e che collabora come volontaria con Heyva sor a Kurdistan, una delle pochissime organizzazioni umanitarie ancora attiva a Shehba insieme alla Onlus italiana Mezzaluna Rossa Kurdistan*.
Cittadina di Afrin, 30 anni, madre di due bambine, Ofe parla con tono di voce sicuro, allegro, ma ogni tanto il suo racconto è rotta da sospiri che meglio delle parole fanno capire quanto terribile sia la vita nei campi profughi e quanto doloroso l’inferno che lei e la sua famiglia hanno attraversato.
La linea cade spesso durante la nostra conversazione: l’elettricità funziona solo alcune ore al giorno e per questo la connessione internet non è delle migliori.
“Abbiamo poca elettricità e quando c’è abbiamo così tanto lavoro da fare che la rete si sovraccarica e la connessione cade spesso. Ma sei fortunata, oggi funziona meglio di altri giorni”.
Quando a marzo del 2018 la Turchia ha iniziato a bombardare Afrin siamo stati costretti a lasciare la città, ma non sapevamo dove andare. Il posto più vicino era Shehba, ma il cantone fino a poco prima era sotto il controllo dell’Isis e non c’era più niente, tutti i palazzi erano stati distrutti, i jihadisti avevano disseminato il posto di mine, mancavano le condizioni minime per viverci, ma non abbiamo avuto altra scelta.
Finché non abbiamo costruito i campi abbiamo dormito per strada, ma anche adesso non è facile, manca tutto. Le condizioni di vita sono terribili: non abbiamo acqua pulita, manca spesso l’elettricità, le malattie continuano a diffondersi e abbiamo un solo ospedale in cui mancano dottori e medicine per garantire anche solo il minimo dell’assistenza.
Tutti noi diamo una mano, ma ciò che facciamo non è abbastanza. È una situazione terribile a livello umanitario, sociale, psicologico. Ogni giorno è una sfida continua per cercare di sopravvivere.
Quando eravamo ad Afrin ricevevamo medicine tramite MSF, ma da quando siamo stati costretti a lasciare la città le organizzazioni internazionali hanno smesso di aiutarci. Adesso possiamo contare solo sul lavoro della Mezzaluna Rossa Kurdistan in Germania (Heyva sor a Kurdistan, ndr) e in Italia: ci forniscono medicine e donazioni.
A darci una mano è anche la Mezzaluna Rossa Siriana, che può contare sul sostengo delle Nazioni Unite, ma non ci dà tutto ciò di cui abbiamo bisogno per motivi politici.
Abbiamo dottori volontari e tutti noi qui diamo una mano, collaboriamo per sopravvivere. Abbiamo il minimo per andare avanti giorno per giorno, ma abbiamo perso tutto dopo aver lasciato Afrin. Dipendiamo totalmente dalle donazioni che ci arrivano dall’estero e che distribuiamo tra di noi.
Alcune persone hanno aperto dei banchetti in cui vendono frutta e verdura, le donne puliscono per pochi soldi, ma tutti collaborano per andare avanti. Una famiglia aiuta l’altra e chi ha parenti all’estero si fa inviare dei soldi che presta anche a chi non ha nessuno su cui contare fuori dalla Siria.
Ci sono degli insegnanti che lavorano come volontari, ma non hanno abbastanza materiale per le lezioni e sono costretti a insegnare in condizioni precarie, in posti non adeguati. Le scuole qui c’erano, ma sono tutte distrutte.
I pochi maestri che abbiamo insegnano ai bambini in arabo, curdo e inglese le materie più importanti, ma c’è ben poco da fare viste le condizioni in cui viviamo.
I bambini ovviamente sono quelli che soffrono di più. Abbiamo bisogno di supporto psicologico per loro, ma nel mentre abbiamo organizzato delle attività di intrattenimento come danza e canto. I volontari fanno quello che possono con il poco che hanno.
Abbiamo delle connessioni con loro tramite la Mezzaluna Rossa Siriana e alcune volte riceviamo degli aiuti da Damasco, ma non è sempre facile a causa della situazione interna della Siria e anche perché il governo mette gli interessi politici prima di tutto. Non gli interessa dei civili che vivono a Shehba.
Sì, siamo sempre sotto attacco. Le fazioni leali alla Turchia bombardano ogni giorno Tall Rifat (città del nord-ovest della Siria, ndr) e i civili continuano a rimanere feriti negli attacchi di questi gruppi armati nelle città qui intorno.
Sì, lo stanno costruendo davvero, te lo posso garantire. È una parte della strategia della Turchia per attaccarci psicologicamente, per farci credere che sarà impossibile per noi tornare nelle nostre terre. Il muro è là anche per evitare che le persone che vivono ancora ad Afrin possano scappare. Ogni giorno abbiamo notizie di rapimenti, uccisioni, stupri condotti da gruppi armati che controllano la città, ma nessuno può lasciare la zona a causa del muro e delle misure di sicurezza imposte dalle fazioni leali alla Turchia.
È una situazione assurda. Come puoi separare le persone dalla propria terra in maniera tanto brutale? Il governo siriano lo sa, ma non può fare niente perché la Turchia ha avuto luce verde dalla Russia e può fare quello che vuole ad Afrin.
Tutto dipende dalle alleanze tra Russia e Turchia, sono loro che decidono, come abbiamo già visto.
Ad Afrin prima c’erano dei soldati russi, ma quando la Turchia ci ha attaccati sono andati via e hanno permesso ad Ankara di prendere il controllo della città. Avevano promesso di proteggerci ma non lo hanno fatto. Il destino di Afrin è un caso internazionale, non può essere risolto a livello militare come è stato per Deir el Zor e Baghouz.
Ho studiato Letteratura inglese nell’Università di Aleppo ma quando vivere lì era diventato troppo pericoloso sono tornata ad Afrin, dove ho insegnato inglese.
La mia vita prima era bella, avevo un marito, due figlie, una stabilità. Quello che è successo dopo è stato uno shock. Afrin era l’unico posto sicuro per tutti coloro che stavano scappando dalla guerra: curdi, arabi, cristiani vivevamo tutti insieme senza problemi, c’era coesione, ma all’improvviso la mia vita è andata in pezzi quando sono cominciati gli attacchi della Turchia.
Quando siamo scappati da Afrin eravamo sotto shock, non sapevamo dove andare. Siamo stati due giorni per strada senza sapere che fare, come sopravvivere dopo aver perso tutto. Alcuni membri della mia famiglia sono anche morti a causa dei bombardamenti.
Dopo aver lasciato Afrin sono arrivata a Shehba, ma la mia vita all’improvviso era sotto sopra, non avevamo nemmeno il minimo indispensabile per sopravvivere. Non avevano nemmeno dei cuscini o delle coperte per le mie bambine che la notte gelavano per il freddo.
Ancora adesso non riesco a capacitarmi dell’incubo che sto vivendo ma con il tempo ho rimesso insieme i pezzi e mi sono chiesta cosa potessi fare io per migliorare le cose, per aiutare gli altri e andare avanti. Non potevo darla vinta al nemico.
Ogni tanto penso ai miei libri che ho dovuto lasciare ad Afrin. Quando perdi tutto in poco tempo è davvero difficile, a livello psicologico quello che stiamo vivendo è devastante, per chiunque.
Alcuni membri della mia famiglia vivono ancora ad Afrin e le notizie che ci arrivano solo terribili: non possiamo fare niente per aiutarli. Non sappiamo come andrà in futuro, per ora i bombardamenti continuano e noi qui non possiamo nemmeno muoverci liberamente perché il posto è pieno di mine lasciate dall’Isis. In tanti hanno perso parti del corpo.
È molto difficile muoversi in questa zona, è piena di barriere di sicurezza. Ma restiamo anche perché non vogliamo allontanarci dalla nostra terra, da Afrin, vogliamo essere vicini così da poterci tornare appena sarà liberata dai gruppi armati. E’ l’unico vero motivo per cui restiamo qui. Non vogliamo perdere la possibilità di tornare a casa.