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“La crisi era stata prevista”: il fallimento annunciato di Silicon Valley Bank

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Prima la crisi delle Big Tech. Poi il rialzo dei tassi. E un modello di business insostenibile. Il crollo di Svb riporta alla luce i punti deboli del turbocapitalismo senza regole. Ma ora gli investitori chiedono aiuto allo Stato

È tutto iniziato con la minaccia di un downgrade. Pochi giorni prima del collasso, le preoccupazioni di Silicon Valley Bank erano dirette verso le agenzie di rating. Un giudizio negativo avrebbe pesato sulla fiducia di investitori e clienti: per questo i dirigenti si erano affidati a un piano preparato da uno dei leader della finanza globale, Goldman Sachs. L’obiettivo, per l’istituto di riferimento delle start-up californiane, era quello di superare nel migliore dei modi un problema momentaneo, dovuto al rialzo dei tassi. Nessuno sembrava aver previsto la tempesta che si sarebbe venuta a scatenare.

Neanche l’agenzia Moody’s, che sembrava aver accolto positivamente i primi passaggi del piano elaborato nelle precedenti settimane, con l’annuncio di un aumento di capitale accompagnato dal riconoscimento di quasi 2 miliardi di perdite sugli investimenti. Il taglio del rating era stato solo di una “tacca” come, secondo Reuters, speravano i dirigenti di SVB.

Mancava all’appello però la reazione dei mercati e dei clienti, che già da settimane avevano iniziato a spostare altrove i propri depositi. A guidare l’esodo erano stati proprio quegli investitori che avevano reso la banca un riferimento per la Silicon Valley, da cui dipendeva quasi la metà di tutte le start up statunitensi finanziate da fondi di venture capital.

Il diavolo è nei dettagli

Le preoccupazioni di fondi come quello di Peter Thiel, noto come co-fondatore di PayPal e investitore di Facebook, erano legate alla stabilità dell’istituto, arrivato in pochi anni a diventare il sedicesimo degli Stati Uniti. Una crescita alimentata dal boom del tech durante gli anni della pandemia, che aveva portato i depositi a sfiorare i 200 miliardi di dollari a inizio 2022, il quadruplo dei livelli del 2018, prima di scendere a quasi 175 miliardi al momento del collasso.

Fondi che l’istituto di Santa Clara aveva in parte destinato in investimenti considerati all’epoca più sicuri, come le obbligazioni a basso rischio ma a lunga scadenza. Tramite questi titoli però, la banca si esponeva al rischio di aumenti dei tassi, come quelli che si sono concretizzati nell’ultimo anno dopo la svolta decisa dalla banca centrale statunitense per combattere l’inflazione. Lo stesso rischio a cui erano esposti alcuni dei depositanti, che vedevano il valore delle proprie start-up scendere con l’aumentare del costo del denaro. Una clientela interconnessa, abituata a detenere presso la banca somme di importo molto elevato. I depositi superavano in quasi tutti i casi la soglia per la garanzia federale, pari a 250mila dollari (da noi è di 100mila euro), con un’azienda che era arrivata addirittura a un saldo di 3,3 miliardi di dollari: nell’eventualità di un fallimento, solo il 3 percento di tutti i depositi era assicurato da possibili perdite. Dettagli che sembrano essere sfuggiti alle autorità di vigilanza e, con il senno di poi, sono andati a comporre la ricetta perfetta per una corsa agli sportelli, che puntualmente si è verificata giovedì 9 marzo.

Ricetta per il disastro

Dopo la chiusura di Silvergate Capital, un’altra banca in cui i clienti avevano perso fiducia, è iniziata la fuga da SVB. In poco tempo, i clienti hanno cercato di ritirare un un quarto dei depositi, mentre il titolo arrivava a perdere oltre il 60 percento. Il giorno successivo, la banca era già sotto il controllo delle autorità.

Si è consumato così, nel giro di poche ore, il fallimento più grande dalla crisi del 2008 e il secondo nella storia statunitense. Una crisi che ha spinto i mercati a rivolgere l’attenzione verso le banche più a rischio, nel nuovo contesto di inflazione elevata e tassi in rialzo. E ha riacceso il vecchio dibattito sulla deregulation, principale imputato per gli eccessi che avevano portato alla crisi del 2008.

“Era [una crisi] prevedibile ed è stata prevista”, ha scritto il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, che considera il fallimento di Silicon Valley Bank la conseguenza logica di riforme come quelle volute da Donald Trump e delle scelte fatte dalla banca centrale. Nel mirino dell’economista, noto per i suoi contributi sulle asimmetrie informative anche in ambito bancario, c’è il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, e la stretta monetaria imposta negli ultimi 12 mesi. Non solo i rialzi “sono la via più sbagliata per combattere l’inflazione” e “la strada più diretta e sicura per la recessione”, ma hanno anche effetti sulla stabilità: secondo Stiglitz, era prevedibile che avrebbero “causato traumi da qualche parte nel sistema finanziario”. Powell è anche accusato di aver aiutato Trump, in veste di consigliere, nello smantellare alcune delle regole introdotte dopo la crisi del 2008.

Responsabilità politiche

Subito dopo il fallimento, la memoria di molti critici è andata alla proposta approvata cinque anni fa, sulla spinta dalla stessa Silicon Valley Bank e di altre banche di medie dimensioni. “È il risultato diretto di un’assurda proposta di legge sulla deregolamentazione bancaria del 2018 firmata da Donald Trump”, ha detto senza mezzi termini Bernie Sanders. Una proposta che ha permesso a banche come SVB “di prendersi di rischi, aumentare i loro profitti, pagare i loro dirigenti, bonus giganti e infine far saltare in aria le banche”, ha ribadito Elizabeth Warren. La senatrice, rivale di Sanders per i voti della sinistra del Partito democratico alle ultime elezioni, ha anche presentato una proposta per abrogare le novità introdotte nel 2018.

La riforma consentiva agli istituti con meno di 250 miliardi di attivi di sottrarsi agli obblighi previsti per le banche più grandi, come quelli di sottoporsi a stress test annui e di rispettare requisiti patrimoniali e di liquidità. Ci sono dubbi se le regole avrebbero effettivamente potuto evitare il fallimento di Silicon Valley Bank, anche se all’epoca diversi avevano avvertito dei rischi. L’Ufficio congressuale di bilancio aveva esplicitamente detto che l’allentamento aumentava “la probabilità che una grande società finanziaria con attivi compresi tra 100 miliardi e 250 miliardi fallisca”.

All’epoca la Silicon Valley Bank era uno degli istituti che si era impegnato maggiormente negli sforzi di lobbying. Il suo capo Greg Becker affermava che regole più stringenti avrebbero “soffocato la nostra capacità di fornire credito ai nostri clienti senza alcuna significativa riduzione corrispondente del rischio”, dato “il basso profilo di rischio delle nostre attività e del nostro modello di business”.

Anche altre voci critiche dell’intervento pubblico in economia si sono decisamente attenuate negli ultimi giorni. Investitori noti per le loro posizioni conservatrici, sono stati tra i più accesi a chiedere l’intervento del governo per proteggere i depositi che non erano coperti da garanzia. “Dov’è Powell? Dov’è Yellen? Fermate questa crisi ADESSO. Annunciate che tutti i depositanti saranno al sicuro”, era stato l’appello accorato dell’investitore David Sacks, prima di essere accontentato da Joe Biden. “Mi scusi, adesso è il governo la risposta?!?”, una delle repliche, tra l’incredulo e il beffardo, degli utenti di Twitter. Ancora più pungente il messaggio di un veterano di Wall Street, l’investitore Jim Chanos. “È stata letteralmente la comunità degli investitori di venture capital a iniziare la corsa agli sportelli giovedì [9 marzo, ndr], quando ha esortato le società [in cui investiva] a ritirare i loro depositi. E adesso vogliono che sia il contribuente a salvare il loro investimento”, il commento di Chanos. “Il capitalismo, in salsa Silicon Valley”.

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