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Silence di Martin Scorsese: un mix poco riuscito di teologia e torture porn

Immagine di copertina

L'ultimo film del grande regista, da sempre ossessionato dal cattolicesimo, non trova una cifra giusta tra gli estremi del trattato religioso e del film di prigionia

Crocifissione in mare (così che il malcapitato muoia di stenti a forza di onde che con la marea lo sommergono); ustione tramite mestoli di acqua bollente appena raccolta da sorgenti vulcaniche; morte sul rogo dopo essere stati avvolti in una stuoia di paglia; morte per annegamento in mare con l’uso della già citata stuoia; decapitazione tramite katana; morte per stenti alimentari unita ad annegamento tramite bastoni; sospensione per giorni a testa in giù in un pozzo dopo aver effettuato un taglio alla tempia del malcapitato, così che il sangue non gli vada alla testa e non perda i sensi durante l’operazione.

Dovendo andare a vedere un film sapendo soltanto che nei suoi lunghi 161 minuti queste saranno le azioni rappresentate sullo schermo, sarebbe facile pensare di dover assistere a un cosiddetto torture porn, ovvero quel sottogenere dell’horror che, da Saw – L’enigmista a Hostel, basa la sua trama sull’indulgenza morbosa in pratiche disgustose di tortura fisica e psicologica.

Le numerose barbarie sopracitate sono invece tutte tratte da Silence, ultima fatica da regista di quel Martin Scorsese che si può facilmente ritenere il maestro del cinema più venerato al mondo, autore di capolavori indiscussi quali Taxi Driver, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi e molti altri.

Questa morbosa attenzione per la violenza esibita (molto diversa da quella rapida e feroce dei suoi “soliti” gangster) sembra ancor più fuori luogo se si considera il materiale trattato dal film. 

La trama di Silence è infatti riassumibile in poche righe: nel 1640 due giovani padri gesuiti portoghesi, padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garupe (Adam Driver), partono alla volta del Giappone con l’impellente desiderio di avere notizie del loro mentore, padre Ferreira (interpretato da Liam Neeson), da anni missionario in quella terra.

In quegli anni in Giappone vi era durissima persecuzione contro i cristiani, che si radunano segretamente come i primi fedeli ai tempi dell’antica Roma, e le voci arrivate in Europa danno padre Ferreira come convertito al buddismo dopo aver abiurato il dio cristiano che aveva predicato per decenni.

Il film altro non è che il racconto, tratto dall’omonimo romanzo dell’autore giapponese Shūsaku Endō edito nel 1966, delle peripezie dei due religiosi per scoprire la verità sul loro maestro, e sulle difficoltà che li attendono in una terra quantomai ostile alla loro fede.

Riuscire a rendere coinvolgente un simile materiale sarebbe impresa ardua per chiunque, e la difficoltà di un film del genere di attrarre pubblico è ancor più evidente se si considera il contrasto con l’appeal commerciale dell’ultimo film di Scorsese, The Wolf of Wall Street: tre ore di vorticosa orgia visiva tra droghe, sesso e lusso sfrenato con protagonista Leonardo DiCaprio, uno degli attori più amati al mondo.

Silence è stato però da subito un film nato per passione e non per il botteghino, visto che il progetto ossessionava Scorsese sin dal 1988, quando dopo una proiezione de L’ultima tentazione di Cristo – la sua personale rappresentazione della Passione – l’arcivescovo di New York gli regalò il libro di Endo.

Quello che però è difficile perdonare a un regista tanto capace è proprio la scelta di promuovere a materia primaria della sua opera, l’indulgenza sugli aspetti più sadici delle persecuzioni, che vanno oltretutto a braccetto con carnefici giapponesi ritratti in modo caricaturale, in una rappresentazione che sembra rifarsi agli allibratori vietnamiti del Cacciatore, ai secondini turchi di un film carcerario come Fuga di mezzanotte o agli stereotipati capitani nazisti dei film di prigionia.

Piegare i cristiani all’abiura è un’ossessione che perseguono fino al fanatismo, e altrettanto fanatica sembra la scelta dei protagonisti, padre Rodrigues in primis, di non cedere, anche quando questo significherebbe evitare sofferenze indicibili a se stessi e agli altri.

Proprio questa vocazione al martirio, rappresentato come massima dimostrazione di fede e coraggio, sembra particolarmente sconveniente e fuori luogo in un’epoca in cui, in altri luoghi e con altre fedi, questa parola è oggi causa quotidiana di morte e sofferenza: è indubbio che i dogmi morali dei protagonisti siano figli di un’epoca diversissima, ma all’alba del Ventunesimo secolo è decisamente difficile comprendere un sacrificio di questo genere in nome di un credo religioso.

Il background biografico di Scorsese, che da adolescente frequentò un anno di seminario e per tutta la vita è stato profondamente cattolico anche se non necessariamente praticante, sembra influenzare eccessivamente il film un po’ come era stato per La passione di Cristo di Mel Gibson, con il risultato di offrire un’opera che oscilla tra il torture porn e il trattato di teologia, senza trovare una cifra giusta tra questi due estremi.

Superata la parte iniziale, in cui lo spettatore è coinvolto dalla spedizione clandestina dei due giovani protagonisti e si chiede cosa ne sarà di loro, il film si sviluppa come un film di prigionia claustrofobico e noioso, in un costante andirivieni tra dialoghi sul valore del sacrificio e rappresentazioni concrete dei suddetti sacrifici. 

Il tema del “silenzio di Dio”, a cui si rimanda nel titolo e nei dialoghi (“Io prego ma sono sperduto. Alla mia preghiera risponde il silenzio”), è sicuramente una delle grandi domande della storia del cristianesimo, a partire dal proverbiale grido di Cristo sulla croce “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”, ma non erano necessarie le due ore e quaranta di questo film per offrire una riflessione originale al riguardo, forse perché non necessariamente un maestro del cinema può essere anche un teologo convincente.

Scorsese sembra essere stato indeciso proprio tra questi due ruoli, dimenticando per buona parte del film di coinvolgere gli spettatori e allo stesso tempo focalizzandosi troppo sugli aspetti più spettacolari e cinematografici del testo di partenza (come la tortura), finendo col non offrire né il suo abituale virtuosismo stilistico né una riflessione spirituale veramente coinvolgente e contemporanea.

Ci si può soltanto augurare che, ormai realizzato questo progetto personale, Scorsese torni ai materiali più consoni alla sua arte magistrale, ai peccatori e alle laiche vie crucis della contemporaneità, ricordando ciò che aveva fatto dire ad Harvey Keitel nel suo Mean Streets di quarant’anni fa: “I peccati non si scontano in chiesa. Si scontano per le strade, si scontano a casa: il resto è una balla e lo sanno tutti”. 

Questo il trailer del film, dal 12 gennaio in sala:

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