Scandalo Shein: la moda ultra-veloce causa danni permanenti
Il colosso cinese ha una linea produttiva sovrumana, con più di mille nuovi modelli prodotti ogni giorno venduti a poche decine di euro. Ma in piena crisi climatica, non si può ignorare il consumo di risorse, lo sfruttamento e l’inquinamento che genera
Chi ha un profilo Instagram o un account TikTok si sarà probabilmente imbattuto in un unboxing video, in cui si vede una persona spacchettare un ordine effettuato online, un acquisto fatto in un negozio o un regalo inviato da un brand, mostrarne il contenuto e la vestibilità.
Molto spesso a registrare questi filmati, chiamati anche “haul”, letteralmente “video del bottino” sono gli influencer che, alla fine della consueta prova abito, forniscono il desiderato codice sconto ai followers, aumentando la visibilità del marchio. Molte celebrità social che commercializzano prodotti e marchi di lifestyle accelerano la cultura del fast fashion attraverso cicli di tendenze in continua evoluzione: ciò che è alla moda oggi, potrebbe essere completamente superato domani.
Questi rapidi cambiamenti hanno un impatto enorme sulle lotte ambientali e umanitarie in tutto il mondo come l’inquinamento da plastica, lo sfruttamento dei lavoratori e la dispersione nell’atmosfera di microfibre, sostanze chimiche e materiali tessili.
Il caso
Shein (che si pronuncia sci-in) è stato fondato nel 2008 dall’imprenditore cinese Chris Xu a Nanchino. All’inizio vendeva abiti da sposa comprati nei mercati all’ingrosso, poi nel 2015 cominciò a confezionare i propri vestiti, spostando la produzione a Canton, centro della manifattura tessile cinese. Per abbattere ulteriormente i costi, Shein ha venduto fin da subito i prodotti direttamente al pubblico, senza intermediari, differenziandosi così dagli altri grandi marchi di fast-fashion.
Il brand cinese non ha una propria identità o estetica, ma utilizza algoritmi e analisi dei dati per intercettare le mode dei vari Paesi e riproporle il più velocemente possibile nelle sue collezioni, spesso copiando esplicitamente le creazioni di stilisti, con una qualità decisamente più bassa.
Shein è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni grazie ai social media e alla pandemia: le sue pubblicità online sono dappertutto, Instagram e TikTok sono inondati di influencer pagati direttamente dal brand per far vedere i loro acquisti a milioni di consumatori facilmente condizionabili dall’algoritmo e l’anno scorso ha raggiunto un valore totale di 100 miliardi di dollari (più di H&M e Zara messi insieme) e un fatturato di 15,7 miliardi di dollari.
Parte del successo è dovuto alla sua capacità di seguire rapidamente le micro tendenze, ai prezzi stracciati che non hanno competitor e a una comunicazione mirata alla Generazione Z (le persone nate tra il 1995 e il 2010); il sito-web e l’app sono coloratissimi e invogliano all’acquisto impulsivo tramite sconti e promozioni dalla durata limitata e spedizioni gratuite. È stato stimato che ogni giorno è in grado di produrre almeno 35mila capi e di caricarne online tra i 500 e i 2.000.
I vestiti sono prodotti a ritmi insostenibili e il ricambio dei modelli è così elevato che solo il 6 per cento dell’inventario rimane in vendita per più di 90 giorni: la maggior parte degli indumenti resta in produzione solo se trova successo nelle vendite, altrimenti viene dismessa per lasciare spazio a nuovi capi. Questo modello di business si è rivelato un successo nel mondo consumista e annoiato, ma è pieno di problemi.
Fa male all’ambiente
Il settore della moda è responsabile del 10 per cento di tutti i gas serra ed è considerata una delle industrie più inquinanti del mondo, sia per le emissioni di CO2, sia per lo spreco di materiali: la produzione richiede grandi quantità di prodotti chimici, acqua ed energia: secondo il World Resources Institute, per realizzare una maglietta di cotone occorrono 2.700 litri di acqua, l’equivalente del consumo medio che una persona beve in due anni e mezzo.
Il ciclo di vita di un prodotto Shein, per esempio, è brevissimo poiché la qualità dei tessuti è bassa, i capi sono fatti apposta per essere indossati poche volte – una sorta di obsolescenza programmata – e poi annoiare in favore della nuova collezione. La maggior parte dei vestiti che viene rimandata indietro finisce in discarica perché all’azienda costa meno che rimetterli sul mercato; inoltre le sostanze chimiche utilizzate sono dannose e inquinanti per i terreni e le acque, disperdono nell’ambiente volumi significativi di microplastiche che richiedono centinaia di anni per decomporsi, diventando così un problema per le nuove generazioni.
In questi mesi Shein sta provando a difendersi dalle varie critiche ricevute, mostrandosi più attento alle preoccupazioni sul tema della sostenibilità ambientale espresse dai propri clienti: ha annunciato l’istituzione di un fondo da 50 milioni di dollari per ridurre gli sprechi di prodotti tessili e ha avviato una collaborazione con un’organizzazione no profit che si occupa di tutela del clima. Nel suo rapporto sulla sostenibilità e l’impatto sociale del 2021 ha detto di volersi impegnare a contenere i consumi di acqua e a ridurre i rifiuti durante tutte le fasi della produzione.
Fa male ai lavoratori
Un’indagine di Public Eye condotta in 17 stabilimenti ha rivelato la mancata sicurezza dei lavoratori all’interno delle fabbriche di Shein e le cifre dei loro salari, bassissime. I dipendenti intervistati lavorano fino a 12 ore al giorno, hanno due sole pause, una sera libera a settimana e un giorno di riposo al mese. All’interno dei siti di produzione cinesi, corridoi e scale sono ingombri di borse e rotoli di tessuto, le finestre sono dotate di grate.
Un problema in caso di evacuazione per un incendio, tanto più in assenza di un’uscita di emergenza. Ma sul suo sito-web, l’azienda rassicura: i dipendenti sono trattati bene e gli ambienti di lavoro sono sicuri. Eppure queste condizioni rievocano alla memoria il crollo del Rana Plaza in Bangladesh, l’edificio di otto piani che nel 2013 subì un cedimento strutturale dovuto al peso dei numerosi macchinari delle imprese tessili e che provocò la morte di 1.134 persone.
Un recente documentario di Channel 4 ha denunciato ulteriori trattamenti disumani nei confronti degli operai, spesso privi di contratto. Shein si affida a fabbriche in cui le condizioni lavorative sono deplorevoli: in una i dipendenti guadagnano 550 dollari al mese per produrre 500 capi al giorno, mentre in un’altra la paga è di 54 centesimi per capo.
Il tutto con turni fino a 18 ore, solo un giorno di riposo al mese e il rischio di vedersi tagliare lo stipendio di due terzi se commettono un errore. Una vera e propria catena di montaggio umana che non prevede alcuno stop e costringe a una vita non dignitosa (nel filmato dell’inchiesta, alcune operaie si lavano i capelli durante la pausa pranzo). Nonostante un report del 2021 avesse trovato violazioni del codice di condotta nel 66 per cento delle fabbriche, Shein non garantisce informazioni precise sulle condizioni all’interno dei suoi stabilimenti.
Fa male ai consumatori
Un rapporto di Greenpeace Germania ha denunciato la presenza di elevate quantità di sostanze tossiche nei vestiti di Shein presi a campione. Su 47 capi comprati in varie parti d’Europa (Austria, Germania, Italia, Svizzera e Spagna) e fatti analizzare da un laboratorio indipendente, nel 96 per cento di essi sono state trovate tracce di sostanze tossiche, ossia composti chimici come Pfas, ftalati, metalli pesanti e formaldeide che l’Unione Europea riconosce come dannosi e ai quali, attraverso la regolamentazione Reach, impone dei limiti per salvaguardare la salute dei consumatori, indicando quali sono i valori limite di sostanze chimiche pericolose che possono essere contenuti in capi d’abbigliamento, accessori e scarpe.
I prodotti di Shein non sempre rispettano questi valori: in 15 di questi capi, i livelli delle sostanze chimiche sono stati considerati quasi al limite e quindi preoccupanti per la salute umana, e in altri sette di questi (prevalentemente scarpe) i limiti venivano superati: tassi di rilascio di nichel tre volte superiori alla soglia; formaldeide in concentrazioni di 130 mg/kg in un tutù per bambine, quando il limite dovrebbe essere 30mg/kg; ftalati centinaia di volte oltre il limite di 1000 mg/kg.
I social, un mercato ignaro
Inizialmente creati per connettersi con gli amici, i social network stanno adottando un approccio più curato e basato sul target pubblicitario. Le app sono in grado di adattare perfettamente i contenuti allo spettatore, sulla base di algoritmi e analisi di dati. Seppur la Generazione Z sia più consapevole delle proprie abitudini di consumo, è allo stesso tempo più suscettibile alle strategie di marketing, mascherate da innocui post di influencer.
Le nuove generazioni cercano una moda duratura, sostenibile e prodotta eticamente ma gli annunci pubblicitari sono inevitabili su qualsiasi piattaforma esistente e invitano costantemente il pubblico a cliccare sul contenuto acquistabile. «Creano un bisogno che non c’è. Ti serve uno zaino? Non trovi quello multitasking, ma quello per lo specifico evento. Per l’università, per la passeggiata in montagna, per contenere il pc. Si comprano così prodotti che non ci servono veramente, ma che soddisfano un bisogno momentaneo e immediato», racconta a TPI l’attivista di Extinction Rebellion, Francesca Poli.
«Non dimentichiamoci che le grandi aziende sanno fare molto bene greenwashing, cioè fingere che stiano vendendo in maniera sostenibile, perché hanno soldi, potere e capacità per creare false narrazioni che hanno una forte risonanza e in qualche modo puliscono le coscienze. Molti ragazzi non si sentono in colpa nell’acquistare vestiti a basso prezzo perché spendono poco: se dopo un po’ di tempo non piace più, lo possono rivendere e quindi rimettere in circolo, o se dura poco possono comunque dire di averlo usato abbastanza, senza considerarsi colpevoli. In realtà questo meccanismo non rientra nella vera economia circolare, perché comprando compulsivamente si finanzia un’azienda che punta sull’usa e getta e si incentiva una produzione continua, un sistema tossico e inquinante. Un consumismo sfrenato», conclude.
Alcuni dei rivenditori di moda più famosi ricreano nuovi pezzi dei principali marchi progettati a buon mercato per le masse, producendo scorte completamente nuove per i loro negozi quasi ogni settimana. Queste diventano micro tendenze nella cultura del fast fashion, generando un veloce circuito di acquisto e scarto, prima di lasciare spazio a prodotti ancora più nuovi, ancora più alla moda.
L’abbigliamento diviene così monouso e la cultura sociale spinge le persone a sentirsi come se avessero bisogno di novità costanti nel guardaroba, per sentirsi alla pari e felici. «Viviamo in un sistema mondo che ci succhia via il tempo per essere felici.
Dopo una giornata lavorativa siamo stanchi, e a volte l’unica cosa che può renderci contenti è cedere a certe pulsioni: prendo il telefono, scrollo un mondo patinato che sembra offrirmi soluzioni e scappatoie e, con pochi soldi e qualche clic, ho il mio nuovo paio di jeans». È il pensiero di Martina Comparelli, attivista di Fridays For Future, che a TPI rimarca: “Non è scontato che tutti sappiano come funziona il fast fashion, le informazioni devi andarle a cercare, io per esempio sono un’esperta del settore, ma riconosco che è la mia bolla. Non posso pretendere che arrivi fuori con tutta la potenza possibile a un altro ragazzo che si informa solo sui social: magari intravede un articolo, ma non ha il quadro completo del fenomeno».
Secondo l’ambientalista inoltre, la possibilità degli esseri umani di preoccuparsi per certi temi è limitata: «Non possiamo trascorrere la vita a premurarci di tutto ciò che ci ruota intorno. Covid, guerra, caro-vita…qualcosa deve inevitabilmente uscire dalla finestra degli interessi, altrimenti si rischia di impazzire. E il tema ignorato potrebbe allora essere quello del clima. Così si chiude un occhio, e si pensa che le energie sono già state impiegate per altro».
Guarda nel tuo guardaroba
Shein non è l’unico brand di fast fashion ad utilizzare sostanze chimiche pericolose nella sua filiera produttiva, ma visti i prezzi incredibilmente allettanti e la smisurata popolarità che ha raggiunto, è importante assumere consapevolezza quando acquistiamo, per poterlo fare nella maniera più conscia possibile, e nel caso, optare per scelte migliori.
Secondo molti il fenomeno del fast fashion è una comodità e l’unica opzione di abbigliamento conveniente o comprensiva di taglia (Shein ha il pregio di essere particolarmente inclusivo nei confronti di tutta la varietà dei corpi e specialmente delle taglie forti), ma allo stesso tempo, il corretto atteggiamento verso le nostre decisioni d’acquisto è il solo vero strumento che abbiamo per poter contrastare queste realtà non certo etiche e fare la differenza attraverso alcuni piccoli cambiamenti sostenibili è possibile: una soluzione è quella di “comprare meno per comprare meglio”, prediligere il riciclo, la qualità dei tessuti e la conseguente longevità dell’abito.
Perché seppur risparmiare piaccia a tutti e spesso comprare vestiti a basso prezzo sia una necessità, è doveroso chiedersi se quello che abbiamo nell’armadio sia dannoso per la nostra salute. «Mi rattrista e mi sorprende sapere che Shein è stato il brand che ha venduto di più quest’anno, io personalmente ho una community sensibile e attenta al tema della sostenibilità, quindi a volte faccio difficoltà a credere che così tante persone scelgano ancora il fast fashion», racconta a TPI Caterina Grieco, studentessa di fashion design e fondatrice del brand Catheclisma.
«Prima di comprare un prodotto sono abituata a pensare intensamente se mi serve davvero, lo faccio in maniera consapevole e precisa, perché voglio qualcosa che duri tanto e che abbia un buon materiale, ma mi rendo conto che non è così per tutti. Le persone sono abituate ad acquistare in maniera compulsiva, a fare cambi e resi e a spendere poco. Me ne accorgo anche quando mi chiedono di poter cambiare la taglia delle mie creazioni: non si rendono conto che non sono un’azienda come Zara? Nel mio progetto – nato per caso durante la quarantena – io, mia mamma e altre tre sarte andiamo a recuperare tessuti invenduti o con piccole imperfezioni nelle aziende intorno a Bergamo, e diamo loro una nuova vita. Produciamo solo quando riceviamo gli ordini, non abbiamo sprechi, non abbiamo magazzini, le sarte abitano a cinque minuti da casa mia, le taglie solo inclusive, così come i prezzi, ma sembra sempre che non emergano lo sforzo e i costi che ci sono dietro…Il futuro? Non credo possa cambiare tutto nel giro di qualche anno, ci vuole tempo, bisogna conoscere la materia e abbandonare un determinato modo di comprare, inconsapevole e irrispettoso. Una buona alternativa è sicuramente il vintage, ma va anche detto che se si comprano indumenti vintage ogni settimana, non è comunque sostenibile».
Nonostante la responsabilità delle aziende sia molto più alta di quella degli individui e il settore moda dovrebbe ripensare il proprio modello di business per andare verso una produzione più controllata, meno inquinata e più attenta alle sostanze utilizzate, riportare le criticità del mondo di oggi può permetterci di raggiungere un compromesso, tra esigenze individuali e conseguenze sociali. Calcolare i rischi e i benefici per migliorare le cose.