Dal terrorismo ai migranti: ecco perché l’uccisione del presidente del Ciad Idriss Deby Itno riguarda anche l’Europa
“Qualcuno a cui far fare il lavoro sporco”. Così Saleh Kebzabo, storico oppositore di Idriss Deby Itno, definì qualche anno fa il defunto presidente del Ciad e i suoi rapporti con l’Occidente. E ora?
Il capo dello Stato africano, morto a seguito delle ferite riportate durante un’azione militare contro alcuni ribelli che hanno attaccato il regime di N’Djamena a poche ore dalla conferma della rielezione per un sesto mandato presidenziale dopo 30 anni al potere, lascia un “vuoto strategico” nel Sahel. Gli sviluppi di questa morte potrebbero infatti avere effetti su un’area vastissima del continente africano: dal Mar Rosso all’Atlantico, fino al Golfo di Guinea e alle sponde meridionali del Mediterraneo.
Il Paese africano occupa una posizione strategica tra il Sahel e il Corno d’Africa, in un’area circondata da numerosi fattori di instabilità: tra la Libia in guerra da un decennio a nord, il martoriato Darfur sudanese a est, il Centrafrica afflitto da colpi di stato e conflitti civili e le regioni separatiste anglofone del Camerun a sud, il lago Ciad confinante con la Nigeria infestato da Boko Haram a sud-ovest e il deserto del Niger dove operano milizie jihadiste a ovest.
N’Djamena si è imposta negli anni come bastione della presunta stabilità dell’area, soprattutto nelle logiche di sicurezza regionale promosse dalla Francia e dagli Stati Uniti, anche grazie ai buoni rapporti del regime trentennale di Idriss Deby con Parigi, Washington e con l’Occidente in generale. Un’importanza che ora porta la comunità internazionale a chiedersi cosa succederà dopo la scomparsa del dittatore ciadiano, recentemente rieletto per un sesto mandato con il 79 per cento delle preferenze in una consultazione tutt’altro che trasparente.
Non a caso, la crisi che ha portato alla morte del presidente del Ciad è cominciata dalla vicina Libia, con cui il Paese africano condivide il confine settentrionale. Prima delle elezioni presidenziali, la scorsa settimana varie colonne di milizie ribelli hanno cominciato a marciare sulla capitale proprio dal confine libico con l’intenzione di spodestare Idriss Deby.
Nonostante le molteplici rassicurazioni del governo di N’Djamena sulla sconfitta dei ribelli, nel fine settimana le ambasciate di Stati Uniti, Francia e Regno Unito avevano comunque disposto il rimpatrio del personale diplomatico non essenziale, consigliando ai rispettivi cittadini di lasciare la città.
L’attacco, simile a un altro tentativo di golpe avvenuto due anni fa ad opera del movimento ribelle Unione delle forze di resistenza (UFR) guidato allora dal nipote del presidente, Timan Erdim, non è stato respinto stavolta dai caccia francesi Mirage intervenuti a sostegno del dittatore ciadiano, come già nel 2008.
Il gruppo ribelle Fronte per l’Alternanza e la Concordia in Ciad (FACT), di stanza in Libia, è invece riuscito a mettere in discussione il regime, eliminando addirittura fisicamente il capo dello Stato dopo trent’anni al potere. Composta per lo più da combattenti di etnia Goran, la milizia ha un patto di non aggressione con il generale libico Khalifa Haftar, che controlla gran parte dell’est della Libia, e rivendica il controllo della regione ciadiana di Kanem.
Il colpo messo a segno dal FACT promette comunque ripercussioni gravi in tutta l’area, non solo interne. La scomparsa di Idriss Deby, sostituito frettolosamente con un consiglio militare guidato dal figlio 37enne Mahamat Idriss Deby Itno conosciuto come Mahamat Kaka, mette ora a rischio il quadro della sicurezza nella regione come era stato pensato negli ultimi tre decenni.
Formatosi in Francia come pilota e allievo del Centro rivoluzionario mondiale fondato da Muammar Gheddafi, il defunto presidente ciadiano è salito al potere nel 1990 guidando un golpe militare contro il suo predecessore Hissene Habré, che sta scontando l’ergastolo con l’accusa di genocidio, crimini contro l’umanità e tortura, tutti reati commessi quando Idriss Deby prestava servizio in qualità di capo delle forze armate.
Nonostante le accuse di ripetute violazioni dei diritti umani e clientelismo nella gestione dei proventi delle attività petrolifere, lo scomparso capo di Stato africano si è distinto sin dagli anni Ottanta come uno dei pochi leader in grado di respingere l’influenza e le incursioni libiche, anche militarmente.
Negli ultimi anni, Idriss Deby si è poi ulteriormente guadagnato le simpatie dell’Occidente per il ruolo svolto dalle forze armate di N’Djamena nell’operazione militare francese Barkhane e nell’iniziativa del G5 du Sahel, sostenuta da Stati Uniti, Unione europea e vari Paesi africani schierata per lo più in Mali, Niger e Burkina Faso contro i gruppi jihadisti che operano nell’area. Il dittatore ciadiano si è poi dimostrato altrettanto attivo nella vicina Nigeria e al confine con il Camerun nella lotta contro Boko Haram. Insomma un attore a cui difficilmente avrebbero voluto rinunciare le potenze occidentali interessate a minimizzare l’instabilità nel Sahel.
Cosa succederà ora? Non è semplice riuscire a valutare la situazione sul campo. Tuttavia, le milizie ribelli del FACT potrebbero aver acquisito il controllo dell’intera regione di Kanem, al confine con il Niger, che nel punto più meridionale dista solo 150 chilometri dalla capitale N’Djamena e quasi 1.000 chilometri dal confine libico dove hanno le proprie basi sicure.
I recenti proclami del gruppo invitano l’esercito a “servire la nazione” e a unirsi ai ribelli, rassicurando al contempo i “cittadini e i partner esteri del Ciad” che la ribellione non mette in pericolo la sicurezza nazionale e dei confini, perché la milizia continuerà a sostenere gli impegni assunti all’estero da N’Djamena, come nell’operazione Barkhane.
Le rassicurazioni dei ribelli e la scelta delle autorità militari ciadiane di chiudere i confini del Paese africano a seguito della morte di Idriss Deby potrebbero sembrare una buona notizia ma i rischi di implosione del regime restano tutti sul tavolo.
La base di potere del defunto presidente del Ciad, figlio di un pastore del gruppo etnico Zaghawa, risiede proprio nelle forze armate, comandate da figure leali alla famiglia e al clan del capo di Stato, vero e proprio nerbo del governo di N’Djamena. Una sconfitta sul campo seguita dalla morte del dittatore non depone certo a favore dell’autorità dei militari nel Paese, anche in considerazione dell’elevatissima spesa che essi rappresentano per il bilancio dello Stato, tra i più poveri al mondo.
Secondo l’International Crisis Group, la spesa annua per la difesa rappresenta tra il 30 e il 40 per cento del bilancio annuale nazionale, in un Paese che è al 187esimo posto su 189 nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite e che secondo la Banca mondiale conta oltre 6 milioni di poverissimi su quasi 16 milioni di abitanti, ospitando oltre 450 mila rifugiati dai vicini Sudan, Repubblica Centrafricana e Nigeria.
Pur giocando un ruolo centrale nel sistema internazionale antiterrorismo del Sahel, l’esercito ciadiano è allo stesso tempo una fonte di potenziale instabilità per il Paese. Nonostante i finanziamenti, i contributi dall’estero e le riforme, gli sforzi di Idriss Deby per creare una forza unita sono stati sempre frustrati dalle rivalità tra le diverse comunità del Ciad.
Le truppe restano organizzate su basi comunitarie mentre il divario con i corpi di élite, per lo più comandati da figure appartenenti al gruppo etnico del defunto presidente e meglio addestrati, equipaggiati e pagati del resto dell’esercito, ne mina la coesione interna.
Proprio due episodi andati in scena nel 2019 devono far riflettere sulle prospettive future in Ciad. Nel febbraio di due anni fa, alcuni alti ufficiali si rifiutarono di combattere i ribelli dell’Unione delle forze di resistenza (UFR) per solidarietà etnica. Stesso problema si registrò qualche mese dopo quando diverse unità militari non presero parte alla repressione dei gruppi di autodifesa della città mineraria di Miski, nel nord del Paese.
Il rischio maggiore per il Ciad è una divisione dell’esercito tra fazioni rivali, soprattutto su base comunitaria, che potrebbe spaccare il Paese e provocare ulteriore instabilità nel centro-nord dell’Africa. Dal punto di vista internazionale invece, anche una semplice riduzione dell’impegno dei militari di N’Djamena nella regione avrebbe effetti immediati sull’iniziativa del G5 du Sahel, di cui Stati Uniti e Francia sono i principali promotori e finanziatori.
Visto che l’aiuto militare del Ciad non ha certo diminuito la violenza nella regione, secondo il think tank americano Atlantic Council, la possibile perdita di un elemento così importante, il principale per contributo offerto alla missione tra i Paesi africani interessati, potrebbe indurre Parigi e Washington a ripensare il proprio coinvolgimento, anche in considerazione delle accuse rivolte al regime in materia di diritti umani.
Una scelta operata in questo senso da Francia e Stati Uniti potrebbe poi provocare un effetto a catena sugli alleati europei, coinvolti negli ultimi anni sempre di più nell’area. Un tale disimpegno militare avrebbe effetti immediati sulla tenuta dei regimi nella regione, con prevedibile aumento dell’instabilità in termini di violenza, fughe dei civili e flussi migratori.
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