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Home » Esteri

La guerra delle spie: gli Usa sapevano da metà giugno della rivolta di Wagner e Prigozhin contro Putin

Immagine di copertina
Credit: AGF

L’intelligence di Washington aveva appreso già a metà giugno che Prigozhin pianificava un'azione armata in Russia. Persino i servizi di Mosca, secondo la stampa americana, erano al corrente. E avvisarono Vladimir Putin. Nessuno però ha fermato la marcia di Wagner

«Cosa non è possibile perdonare? Il tradimento». Sono molte le domande destinate a rimanere senza risposta dopo la breve insurrezione di Yevgeny Prigozhin ma le parole di Putin, risalenti al 2018, hanno un eco sinistro su quanto avvenuto in Russia. Che è anche una storia di spie.

Se si sia trattato di un semplice scontro di potere o di un tentativo coordinato di porre fine al regime di Vladimir Putin o ancora, per citare una delle più originali teorie viste in circolazione dopo i fatti del 24 giugno scorso, una manovra per preparare un attacco dalla Bielorussia, la rapidità con cui si è dispiegata la crisi sembra aver colto alla sprovvista molti tra osservatori e addetti ai lavori.

Mesi di attacchi sempre più diretti nei confronti dell’establishment militare russo avevano già portato allo scoperto lo scontro tra Prigozhin e la fazione che fa riferimento al ministro della Difesa Sergej Shoigu. Nonostante i numerosi segnali captati anche dai servizi di intelligence occidentali, secondo quanto riporta la stampa statunitense, non era però nota la «natura esatta e la tempistica» di quanto stesse preparando il capo del gruppo Wagner.

Diverse fonti governative hanno confermato al Washington Post che già da metà giugno l’intelligence statunitense era a conoscenza dei piani di Prigozhin. I segnali, secondo le fonti citate dal quotidiano, erano sufficienti per far supporre che lo stesso Cremlino fosse informato di quanto stesse per accadere. Sebbene non sia chiaro esattamente quando gli sia stato detto, secondo un funzionario dell’intelligence statunitense citato dal quotidiano, lo stesso presidente russo sarebbe stato informato dell’insurrezione «sicuramente più di 24 ore prima» del colpo di mano di Prigozhin. Perché non abbia agito, se fosse vera l’indiscrezione proveniente da Oltreoceano, resta un mistero. Fatto sta che le avvisaglie della crisi erano tante e non servivano i servizi segreti per sottolinearle.

I segnali della crisi
A far precipitare la situazione, l’annuncio il 10 giugno scorso che tutti i volontari, tra cui rientrano i mercenari di Prigozhin, avrebbero dovuto siglare un accordo formale con il governo russo. Un tentativo di mettere Wagner sotto l’ombrello del ministero della Difesa, respinto subito al mittente dall’ex “chef” di Putin. «Sfortunatamente, la maggior parte delle unità militari non possiede [la nostra] efficienza, in particolare perché Shoigu non riesce a gestire le formazioni militari in maniera normale», era stato l’ennesimo attacco rivolto al ministro della Difesa da Prigozhin, che aveva comunque assicurato «la completa subordinazione agli interessi della Federazione Russa e del comandante supremo» Vladimir Putin.

Invece già nei giorni successivi, stando all’intelligence statunitense, il 62enne di San Pietroburgo si preparava all’insurrezione. Di queste informazioni, come riportato dal Washington Post, erano a conoscenza la Casa bianca e vari esponenti del Pentagono, del Dipartimento di Stato e del Congresso statunitense.

A Washington ci sarebbe stata «forte preoccupazione» per i pericoli dovuti all’apertura di una fase di instabilità nella più grande potenza nucleare al mondo. In particolare, in cima ai timori delle agenzie di intelligence statunitensi, c’era quello dello scoppio di una «guerra civile».

«Ogni volta che un Paese importante come la Russia mostra segni di instabilità, è motivo di preoccupazione», aveva commentato il segretario di Stato americano Anthony Blinken. «Quando si tratta delle loro armi nucleari, non abbiamo visto alcun cambiamento nel loro assetto e non abbiamo apportato modifiche al nostro. Ma è qualcosa, ovviamente, che stiamo guardando molto, molto attentamente», aveva aggiunto. Il timore che l’arsenale russo, che conta 4.500 armi atomiche, possa cadere nelle mani sbagliate non è nuovo. Già dopo il crollo dell’Unione Sovietica, tale preoccupazione aveva spinto Washington e Mosca ad accordarsi per ridurre il numero di testate atomiche, con il trattato Start. 

Lo scorso febbraio però il governo russo ha sospeso la partecipazione al nuovo accordo che era stato siglato nel 2010, quando si sperava di aprire una nuova stagione nei rapporti tra le due potenze.

Lo spettro dell’instabilità
Nell’avanzata verso Mosca, come riportato invece dal Wall Street Journal, le forze di Wagner sono passate a poco più di 150 chilometri da due siti noti in passato come depositi di armi nucleari, Voronezh-45 e Tula-50.

Lo spettro dell’instabilità è stato evocato anche da Putin nel discorso tenuto nella mattina di sabato 24 giugno, in cui aveva promesso una risposta «dura» a chi si era macchiato di tradimento. «Intrighi, litigi e macchinazioni alle spalle dell’esercito e del popolo hanno portato alla catastrofe più grande, la distruzione dell’esercito e dello Stato, la perdita di vasti territori, fino alla tragedia e alla guerra civile», aveva detto il presidente russo, tracciando un parallelo con la rivoluzione bolscevica del 1917. «Coloro che hanno organizzato e preparato l’ammutinamento, che hanno puntato le armi contro i loro commilitoni, hanno tradito la Russia e ne saranno ritenuti responsabili», aveva sottolineato Putin.

Parole che hanno ricordato un vecchio video del 2018, rilanciato sui social negli ultimi giorni. «È in grado di perdonare?», chiedeva l’intervistatore nei giorni in cui teneva banco il caso Skripal. «Sì, ma non tutto», era stata la risposta del presidente russo. «Cosa non è possibile perdonare?». «Il tradimento». All’epoca gli strali di Putin erano destinati all’ex spia ricoverata per avvelenamento nel Regno Unito, dopo essere stata accusata di alto tradimento in Russia. Cinque anni dopo, la promessa di ritorsioni è chiaramente diretta al suo ex braccio destro, nonostante la scelta di non nominarlo. Mentre veniva trasmesso il discorso, il gruppo Wagner aveva già rivendicato la presa di Rostov sul Don e si stava dirigendo verso Mosca.

Ferita insanabile
Indicazioni di una frattura insanabile tra Prigozhin e il resto dell’establishment militare erano già emerse lo scorso autunno, dopo la decisione di ritirare le truppe dalla città ucraina di Lyman, nella regione di Donetsk, a pochi giorni da quando Putin aveva annunciato l’annessione dell’intero Donbass. «Mandate tutti a piedi nudi con le mitragliatrici direttamente al fronte», aveva detto Prigozhin, riferendosi proprio ai vertici militari del Paese. In quel caso si era unito alle critiche del leader ceceno Ramzan Kadyrov, anche lui legato strettamente a Putin, che aveva addirittura invocato l’uso di armi nucleari tattiche.

A febbraio poi erano arrivate le accuse di alto tradimento al ministro della Difesa Shoigu e al generale Valeri Gerasimov, da poco nominato comandante delle forze russe in Ucraina. «Hanno deciso che queste persone moriranno quando farà loro comodo, quando ne avranno voglia», aveva detto Prigozhin, accusando i vertici militari di bloccare l’arrivo di munizioni e forniture ai suoi combattenti, con l’intento di eliminare il gruppo Wagner. I mercenari erano impegnati nella lunga battaglia di Bakhmut, conclusa solo a fine maggio con il successo di Wagner.

Anche poche settimane prima di annunciare la vittoria, Prigozhin aveva continuato a criticare Shoigu e Gerasimov, minacciando di ritirarsi dal fronte se non avesse ricevuto le armi necessarie. Dopo alcuni giorni si era trovato a smentire la notizia, trapelata dall’intelligence statunitense, che aveva offerto a Kiev le posizioni dell’esercito russo. Secondo quanto dichiarato da un esponente delle forze ucraine al Washington Post, l’offerta era stata fatta da Prigozhin «più di una volta»: a Kiev veniva chiesto, come contropartita, il ritiro delle forze intorno a Bakhmut. Il capo di Wagner aveva comunque trovato modo di attaccare ancora una volta le élite russe, disposte a macchiare la sua reputazione perché «invidiose» dei successi dei suoi mercenari al fronte.

Le tensioni sono culminate a giugno con il rifiuto di firmare il contratto con il ministero della Difesa. L’obbligo, da assolvere entro il 1 luglio, era giustificato dall’esigenza di formalizzare la presenza di Wagner e altri gruppi di volontari nel conflitto ucraino. Ma Prigozhin ha voluto mettere in chiaro che non aveva intenzione di «firmare alcun contratto con Shoigu» in quanto già «organicamente» integrato nelle forze russe.

Venerdì 23 giugno è il giorno in cui Prigozhin ha (apparentemente) superato il punto di non ritorno, con un video in cui ha sconfessato i presupposti dell’intera «operazione militare speciale».

Nel filmato lungo 30 minuti, pubblicato sul suo canale Telegram, ha accusato il Cremlino di aver mentito sulla minaccia che poneva Kiev ai territori separatisti, posta come giustificazione dell’invasione scattata il 24 febbraio 2022. «Il ministero della Difesa sta cercando di ingannare l’opinione pubblica e il presidente e di far circolare la storia secondo la quale ci sarebbero stati livelli folli di aggressione da parte ucraina e che ci avrebbero attaccato insieme all’intero blocco Nato», aveva detto il capo di Wagner, subito indagato dalla procura generale per «sospetta insurrezione armata». «La guerra non era necessaria per riportare a casa i cittadini russi, né per smilitarizzare o denazificare l’Ucraina», un’altra frase pronunciata nel video. «La guerra era necessaria affinché un branco di animali potesse semplicemente riempirsi di gloria». È poi passato ai fatti annunciando l’avanzata verso Rostov sul Don, la cittadina da cui, secondo Prigozhin, Shoigu avrebbe addirittura ordinato i bombardamenti contro le retrovie russe, per colpire i suoi mercenari. Un’accusa prontamente smentita dal ministero della Difesa, secondo il quale i presunti attacchi «non corrispondono a realtà». Il muro alzato dal Cremlino non ha però fermato Prigozhin, che dopo Rostov ha iniziato a dirigere i suoi carri armati verso Mosca.

Una marcia che ha causato, secondo alcuni analisti, la morte di almeno 13 soldati russi, la distruzione di un deposito di carburante e l’abbattimento di sei elicotteri e di un aereo militare. A questi danni andrebbero aggiunti quelli dei bombardamenti sull’autostrada Mosca-Rostov per fermare l’avanzata dei mercenari. Il bilancio, se confermato, sarà duro da dimenticare per le autorità russe, per quanto potrà essere forte l’intenzione di voltare pagina. Nonostante l’improvviso dietrofront, grazie all’intermediazione del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, è difficile ipotizzare che le crepe aperte dal «tradimento» possano non avere ripercussioni.

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