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Le 48 ore più buie della Russia: e ora che succederà? (di G. Gramaglia)

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Credit: AP Photo

Il tentato putsch di Wagner è durato meno di due giorni. Ma ha evidenziato tutte le debolezze di Putin. Che (per ora) l’ha scampata bella. E il mondo con lui. In Russia però ci rimettono tutti: Prigozhin è in esilio e senza esercito, ma il Cremlino ha perso autorità

Vladimir Putin l’ha scampata bella (per ora); e noi con lui. Ma se la minaccia Prigozhin è svanita, ammesso che fosse reale e che sia davvero svanita, quanti altri Tigellino nutriti ad ambizione e rancore albergano nei corridoi del Cremlino? Dai tempi di Nerone, Tigellino è per antonomasia l’uomo di fiducia rozzo e crudele che tradisce e “pugnala alle spalle” – l’espressione è di Putin, di sabato 24 giugno, quando la Russia pareva sull’orlo di una guerra civile – il capo che ha ciecamente servito fino ad un attimo prima.

Sono state 48 ore che potevano cambiare la Russia; e che forse l’hanno cambiata. E che potevano anche cambiare i destini della guerra in Ucraina e i contorni della sicurezza internazionale; e forse li hanno cambiati. Ma ancora non lo sappiamo. Anzi, continuiamo a faticare a capire che cos’è davvero successo, in un intreccio di notizie non verificate e di supposizioni presentate come notizie.

Una costosa guerra del soldo
Di certo, la crisi innescata dalla ribellione di Yevgeny Prigozhin, 62 anni, delinquentello in gioventù, poi imprenditore dell’agroalimentare a San Pietroburgo, infine “signore della guerra”, fondatore e proprietario del Gruppo Wagner, 25 mila effettivi, s’è risolta nel giro di una giornata: lo spettro d’una guerra civile è stato derubricato a tentato putsch, una “guerra del soldo” come se ne vedono spesso in Africa, dove i militari insorgono contro i governi che non li pagano.

L’Occidente ha misurato in quelle 48 ore tutti i rischi connessi all’instabilità russa, mentre, a Kiev, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il suo staff studiavano come approfittare sul terreno dell’indebolimento della struttura di potere a Mosca.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, consultava telefonicamente i maggiori alleati (fra di essi, non l’Italia: Gran Bretagna, Francia, Germania); il segretario di Stato Usa Antony Blinken scambiava pareri e informazioni con i colleghi del G7; l’Unione europea mutuava le notizie e coordinava le reazioni, fino alla riunione – già programmata – dei ministri degli Esteri dei 27 a Lussemburgo.

Concorde la linea emersa: fermo restando il sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione russa, questa è una vicenda interna alla Federazione russa, in cui non interferire – ammesso che tutto si sia svolto nella neutralità occidentale.

Ma il brivido è stato forte: la Nato considera Putin un criminale di guerra, ma se a sostituirlo fosse un capitano di ventura come Prigozhin o altro avventuriero “ultra-nazionalista” la sicurezza globale non ne sarebbe rafforzata. Anche per questo, la Cina, l’Iran e altri Paesi, anche la Turchia, che è nella Nato, si sono affrettati ad esprimere sostegno a Putin nel momento della minaccia interna.

Per il New York Times, l’intelligence statunitense sapeva dalla metà di giugno che Prigozhin stava progettando un’operazione in Russia e aveva comunicato all’amministrazione Biden i suoi dubbi sulla capacità di Putin di restare al potere e i suoi timori per l’instabilità che poteva derivare dall’insurrezione di Prigozhin, anche per quanto riguarda il controllo dell’arsenale nucleare russo.

Strano che l’intelligence russa non avesse avuto sentori analoghi e ignorasse le trame di Prigozhin, il cui brusco voltafaccia sulle ragioni della guerra potrebbe essere stato “incoraggiato” – è solo uno dei tanti interrogativi – da qualche attore esterno; o che forse – altro rovello – sperava di trovare qualche spalla interna (o, addirittura, contava di disporne).

Lo Zar è nudo
I mercenari del Wagner sono stati determinanti nella guerra in Ucraina: la popolazione russa favorevole alla cosiddetta “operazione militare speciale”, come il regime chiama l’invasione, li acclama “eroi” delle battaglie di Mariupol e di Bakhmut – lo prova l’accoglienza festosa fatta ai ribelli da una parte degli abitanti di Rostov sul Don. Prigozhin, il loro capo, aveva sempre condiviso le ragioni dell’invasione e aveva sempre criticato i vertici degli apparati militari russi, il ministro della Difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato Maggiore, generale Valerij Vasilievic Gerasimov, per le loro scelte strategiche e tattiche e per la loro gestione degli approvvigionamenti alle prime linee. Ma, di punto in bianco, venerdì 23, una settimana fa, Prigozhin aveva denunciato le menzogne di Putin sull’innesco della guerra, oltre che l’asserita corruzione di Shoigu e Gerasimov e la loro indifferenza alle perdite subite.

Pochi giorni prima, la Cnn aveva attribuito a Prigozhin la previsione di “una rivoluzione” che poteva investire la Russia se gli sforzi di guerra in Ucraina continuavano a essere inadeguati e insufficienti: intervistato da un blogger nazionalista, il capo dei Wagner parlava di “balbettamenti” e dava un quadro graffiante dell’impreparazione militare russa. Le critiche di Prigozhin erano tutte rivolte alla gerarchia militare, ma – osservava la Cnn – potevano alimentare spaccature nei ranghi delle forze armate e anche alimentare divisioni nel potere politico. Probabilmente erano un segnale di quanto stava per accadere.

Secondo l’Istituto per lo studio della guerra (Isw), un centro di ricerca Usa anti-russo e pro-ucraino, l’ammutinamento di Prigozhin è fallito, ma il Cremlino si trova ora ad affrontare una situazione «profondamente instabile»: la «soluzione a breve termine profilatasi danneggia in modo sostanziale» il potere di Putin e lo sforzo bellico russo in Ucraina. «La ribellione ha messo a nudo la debolezza delle forze di sicurezza russe e ha mostrato l’incapacità di Putin d’usare la forza in modo tempestivo per respingere una minaccia interna, erodendo ulteriormente il suo controllo sugli apparati militari».

Molto rumore per nulla?
Nel dopo sommossa, spuntano come funghi i Dottor Stranamore che descrivono scenari improbabili se non impossibili. Mentre gli ucraini valutano come trarre vantaggio dal momento di debolezza, o almeno di sbandamento, russo, c’è chi ipotizza che sia tutta una finta e che i Wagner si trasferiscano in Bielorussia per attaccare da nord l’Ucraina e aprire un nuovo fronte che freni la controffensiva. Come se ciò potesse avvenire da un giorno all’altro e di sorpresa: gli ammassamenti di truppe richiedono tempo e preparazioni logistiche, oltre a svolgersi sotto gli occhi dei satelliti.

Le 48 ore trascorse tra venerdì 23 e sabato 24 sono state fra le più convulse della Russia moderna, un po’ come il putsch di agosto del 1991, quando i carri che occupavano Mosca furono neutralizzati dal coraggio di un vigoroso Boris Ieltsin salito su di essi a parlare con i soldati nelle torrette.

Bollato come traditore da Putin, cui era sempre stato fedele, Prigozhin, dopo un negoziato condotto dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, uno che non muove foglia se Putin non vuole, ha improvvisamente ordinato ai suoi uomini, la cui avanzata non aveva trovato opposizione né di terra né aerea, di fare dietro fronte e di rientrare nei loro acquartieramenti.

Che cosa ha ottenuto in cambio? Per sé, l’esilio in Bielorussia (o forse altrove) e l’immunità: non dovrà rispondere delle proprie azioni, nonostante Putin avesse pubblicamente assicurato il contrario. Per i suoi uomini, l’immunità e forse un qualche soldo extra; quelli che vorranno saranno inglobati nell’esercito russo, prospettiva respinta fino a venerdì 23 giugno – anzi, considerata alla stregua di un “casus belli”.

Tutto qui? Dopo tanto rumore di putsch, molte cose non sono chiare. Prigozhin, più che a spiegarle, deve probabilmente preoccuparsi per la propria incolumità: per lui, il rischio di bere un tè indigesto o di inciampare in un ombrello appuntito è altissimo.

Allo stato, ci perdono tutti: Prigozhin, alla macchia, capitano di ventura senza più esercito; e pure Putin, la cui autorità e la cui aura sono state intaccate dalla insubordinazione d’un suo sodale. L’interrogativo è se il fallimento di Prigozhin scoraggerà ulteriori insubordinazioni allo “Zar”; o se, invece, la temerarietà di Prigozhin troverà degli emuli. Tutto questo in attesa dell’anno di tutte le elezioni, europee e Usa, ma, in questo contesto, soprattutto presidenziali russe e ucraine.

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