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Ruanda, vent’anni dopo

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Ricorre il ventennale degli accordi di Arusha, il summit che aprì le porte al genocidio ruandese

La scorsa settimana, esattamente il 4 di agosto, ricorreva il ventesimo anniversario degli accordi di Arusha: non una fausta celebrazione, quanto il ricordo nefasto dell’inizio del terribile genocidio del Ruanda, scoppiato il 6 aprile del 1994 e durato circa cento giorni, che causò fra le 800mila e il milione di vittime.

Le cause del massacro vanno ricercate nei conflitti razziali fra le tre etnie del Ruanda: hutu, tutsi e twa. In particolare, l’odio inter-etnico fra hutu e tutsi esiste da prima che se ne abbia memoria. Già ai tempi del Ruanda pre-coloniale dominato da re tutsi, e poi durante le colonizzazioni tedesca e belga, i tutsi si garantirono una predominanza schiacciante, forti anche dell’appoggio europeo.

In particolare i belgi, le cui terribili forme di colonizzazione sono note anche negli altri protettorati – l’esempio più eclatante è rappresentato dal Congo – attuarono in Ruanda politiche violente di separazione etnica, affidando ai tutsi responsabilità amministrative ed economiche maggiori.

Nel 1959 gli hutu si ribellarono al regime coloniale, massacrando un gran numero di tutsi e arrivando, nel 1962, a fondare uno stato indipendente da loro dominato. In seguito a questo episodio, proseguirono lo stato di belligeranza inter-etnica e l’emigrazione oltre confine dei tutsi oggetto di attacchi violenti da parte degli hutu al potere.

Nell’ottobre del 1990, l’FPR (Fronte Patriottico del Ruanda), formato in maggioranza dai tutsi esiliati diede il via a una ribellione armata contro l’esercito del presidente Juvenal Habyarimana.

E proprio nel 1993, vent’anni fa, il compromesso per segnare la fine della guerriglia firmato ad Arusha, in Tanzania, sarebbe stato in realtà la miccia esplosiva di un conflitto ben più sanguinoso, uno dei genocidi più violenti non solo del continente Africa ma del mondo intero.

L’intento dell’accordo, giungere a una risoluzione diplomatica dello stato di belligeranza permanente nonché aprire le menti alla tolleranza inter-etnica, fu non solo deluso, come spesso accade, ma ebbe anche il violento effetto contrario di fomentare ancor più l’odio insito negli Akazu, gli estremisti hutu nell’entourage presidenziale.

Come ricorda in un’intervista al “Jeune Afrique” Patrick Mazimkaka, deputato dell’unione aficana che partecipò alle negoziazioni del 1993 per conto dell’FPR, il colonnello Bagosora, capo degli estremisti hutu fautori del genocidio, lasciò Arusha in anticipo dichiarando che rientrava nella capitale per “preparare l’apocalisse”. Che si riversò con una violenza impensabile contro i “ribelli” tutsi.

L’accordo giunto al ventennale, dunque, rappresenta un esempio palese di fallimento quasi totale delle proprie intenzioni; anzi, come si può evincere dal rapporto che l’Unione Africana ha dedicato al genocidio, le conseguenze di Arusha furono assolutamente contrarie allo scopo. Quasi totale, comunque, perché grazie a esso il presidente hutu Habyarimana si trovò costretto a introdurre il multi-partitismo nella costituzione e a nominare un governo di coalizione. Oggi il Ruanda sta vivendo una crescita economica dovuta principalmente al turismo, la cui principale attrattiva è costituita dagli splendidi e rarissimi gorilla di montagna.

Il ricordo del genocidio però è talmente forte da essere un monito per l’intera comunità internazionale, a far sì che non si verifichino più disastri e distruzione inter-etnica di queste proporzioni. Solo poco tempo fa il Guardian titolava “Why Burma could become another Rwanda”, facendo luce sulla pulizia etnica della popolazione musulmana Rohingya orchestrata nei monasteri del Myanmar. E auspicava che la comunità degli stati vigilasse per impedire il ripetersi di una tragedia ruandese ma con toni asiatici.

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