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La storia di Rojava, società utopica curda al confine dei territori dell’Isis

Immagine di copertina

Come una regione autonoma curda nel nord della Siria è riuscita a ottenere democrazia, parità di genere e laicità nel bel mezzo dell'estremismo religioso dell'Isis

In Siria esiste una società autonoma non riconosciuta ufficialmente né dal regime di Bashar al-Assad, né dalle Nazioni Unite e nemmeno dalla Nato: Rojava è uno stato di fatto, situato su una striscia di terra nel nord della Siria grande quanto lo stato americano del Connecticut e abitato da 4,6 milioni di curdi. La regione produce 15mila barili di petrolio al giorno, che viene venduto alla gente locale e all’amministrazione di Assad per finanziare parte della guerra contro l’Isis.

Il giornalista statunitense Wes Enzinna si è recato a Rojava per una settimana nell’estate del 2015. Il reporter era partito per insegnare a un gruppo di studenti le basi del giornalismo e per capire come si vive in una società che da molti è stata definita come utopica. Enzinna ha poi raccontato la sua visita nella regione in un articolo che è stato pubblicato dal quotidiano statunitense The New York Times.

Gli ideali sui quali è fondata la società di Rojava sono quelli del rivoluzionario curdo di sinistra Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e attualmente unico prigioniero presente nell’isola-carcere di Imrali in Turchia. Secondo questi prinicipi, le donne di Rojava vengono normalmente scelte come leader della comunità, il rispetto dell’ambiente è fondamentale a tal punto da essere presente nelle leggi e la democrazia diretta viene resa esecutiva nelle strade.

Il governo turco non ha alcuna intenzione di riconoscere l’esistenza di Rojava, che viene considerata solo come un fronte dell’organizzazione paramilitare Pkk. Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan ha affermato: “non permetteremo mai la creazione di uno stato che prenda parte del sud del nostro Paese e parte del nord della Siria. Continueremo a combattere contro questo a tutti i costi”. Per l’occidente la questione è completamente diversa.

Diversi occidentali, infatti, si sono espressi a favore dell’evoluzione degli eventi nella regione. Secondo quanto dichiarato da un esponente della Camera dei Lord britannica Raymond Joliffe, quello che i curdi di Rojava stanno portando avanti è “un esperimento unico che merita di avere successo”. Il professore olandese Jan Best de Vries, invece, dopo aver visitato Rojava nel dicembre del 2014, ha donato 10mila dollari per aiutare gli studenti universitari curdi a comprare libri.

Anche David Graeber, uno dei fondatori del movimento Occupy Wall Street, ha visitato Rojava e ha dichiarato che “la regione autonoma di Rojava, così come è oggi, è uno dei pochi lati positivi che emerge dalla tragedia della rivoluzione siriana”.

Le forze di Rojava

Se l’esperimento di Rojava dovesse avere successo, la regione andrebbe a costituire una seconda, importante fetta di terra per la patria dei curdi. La prima è il Governo Regionale del Kurdistan (KRG) in Iraq. Le due amministrazioni tuttavia non sono affiliate.

A Qamishli, la capitale di Rojava, situata in un distretto abitato da 400mila persone c’è un’università aperta a uomini e donne, la Mesopotamian Social Sciences Academy. Questo stesso fatto è decisamente rivoluzionario. Per anni infatti, Bashar al-Assad e suo padre Hafez hanno proibito ai curdi siriani di studiare. Nei territori vicini controllati dall’Isis le donne curde vengono torturate continuamente con l’accusa di essere “eretiche occidentalizzate”. A Rojava, invece, le ragazze e i ragazzi vengono istruiti.

Il territorio dello stato di fatto di Rojava è governato da un partito affiliato del Pkk chiamato Partiya Yekita Demokrat (Pyd), che sostiene una milizia chiamata Ypg o Unità di protezione popolare e un nucleo completamente femminile chiamato Ypj o Unità di protezione delle Donne.

Entrambe le forze armate sono fondamentali per gli Stati Uniti nella lotta contro l’Isis nella regione: dal settembre 2015, i bombardamenti aerei statunitensi si sono focalizzati nell’aiutare l’Ypg, mentre da novembre 2015 il presidente Barack Obama ha inviato 50 soldati delle forze delle Operazioni Speciali a Rojava per assistere e consigliare i curdi.

Oltre all’Ypg e all’Ypj, esiste anche la forza di polizia degli Asayis, fondata dal partito Pyd nel 2012, che comprende 6mila poliziotti, tutti eletti, e in cui un nucleo composto da sole donne si occupa di stupri e aggressioni di matrice sessuale. Secondo quanto dichiarato dal capo della polizia di Qamishli, tutte le nuove reclute ricevono le proprie armi solo dopo “due settimane di istruzione femminista”.

(Due combattenti curde dell’Ypj)

Una storia di riconoscimenti negati e i bombardamenti turchi

Nonostante gli Stati Uniti, alleati della Turchia, supportino la lotta dei curdi contro il sedicente Stato islamico, i turchi continuano a focalizzare i propri bombardamenti contro i curdi piuttosto che contro l’Isis. Dall’agosto 2014, infatti, la Turchia ha bombardato i combattenti curdi in Iraq e Siria circa 300 volte, colpendo invece solo tre obiettivi dell’Isis.

Il popolo curdo ha abitato storicamente un territorio situato tra i fiumi Tigri ed Eufrate conosciuto come Kurdistan. Dopo l’Accordo Sykes-Picot del 1916, con il quale il Regno Unito e la Francia divisero i territori del Medio Oriente in base alle proprie sfere d’influenza, milioni di curdi che vivevano in quell’area si sono ritrovati divisi tra le tre nazioni neonate: Iraq, Siria e Turchia.

In Turchia i curdi costituiscono un quinto della popolazione, ma il governo ha da sempre negato l’esistenza di un’etnia curda. Le leggi turche hanno rimosso qualsiasi traccia dell’identità curda dai libri di storia e hanno proibito che la lingua curda venga parlata in pubblico. La violazione di queste norme è punita con lunghi periodi di detenzione.

Una leggera apertura c’è stata nel 2013, quando il governo ha abrogato una legge che proibiva l’uso delle lettere Q, W e X, che appaiono nell’alfabeto curdo ma non in quello turco.

In Siria, dove i curdi costituiscono il dieci per cento della popolazione, simili provvedimenti legali sono stati resi esecutivi da un capo di polizia di nome Mohammed Talib Hilal, che nel 1963 aveva paragonato la questione curda nel Paese a “un tumore maligno”.

Gli studenti di Rojava

Durante il primo incontro tra Wes Enzinna e i suoi studenti, il giornalista ha potuto osservare in particolare l’eterogeneità della sua classe.

Enzinna aveva raggiunto Rojava durante il Ramadan, il mese in cui i musulmani praticano il digiuno dall’alba al tramonto, eppure aveva visto studenti mangiare nella mensa dell’università durante tutto il giorno.

È in quell’occasione che ha avuto modo di scoprire che Ramah, uno dei suoi studenti, era ateo.

Il 90 per cento dei curdi è musulmano sunnita, ma l’Isis li considera
comunque infedeli e li attacca costantemente. Nel maggio del 2014 alcuni
militanti del sedicente Stato islamico hanno rapito 186 studenti curdi di ritorno a Rojava da Aleppo, dove erano andati a sostenere un esame, per poi costringerli a frequentare una scuola religiosa jihadista, minacciando con la decapitazione chiunque tentasse la fuga.

Sami Saeed Mirza, di 29 anni, un altro studente di Enzinna, non è musulmano. Non è nemmeno cresciuto in Siria, viene infatti da un piccolo villaggio nell’ovest dell’Iraq, vicino la città di Sinjar, e fa parte della minoranza etnica e religiosa yazidi, che pratica una forma moderna di Zoroastrismo.

Mirza aveva sentito parlare del rivoluzionario Abdullah Ocalan solo recentemente, quando era stato liberato insieme alla sua famiglia da un battaglione di donne dell’Ypj dopo che i militanti dell’Isis avevano attaccato il suo villaggio, uccidendo circa 5mila persone.

“Quella battaglia [tra l’Ypj e i militanti dell’Isis] ha cambiato la mia idea sulle donne”, ha dichiarato Mirza, “Le donne combattenti… ci hanno salvati. La mia società, quella yazidi, è diciamo più tradizionale. Non avevo mai pensato alle donne come leader, come eroine, prima d’ora”.

Mirza ha sentito parlare della Mesopotamian Social Sciences Academy in un campo rifugiati, e lì ha continuato la sua istruzione femminista.

(Una scuola curda vicino il confine tra Siria e Iraq)

Il femminismo di Ocalan

Gli studenti dell’università devono studiare un testo scritto da Ocalan sulla parità di genere chiamato “Liberating Life”. In esso, il rivoluzionario curdo sostiene che i problemi di cattiva amministrazione, corruzione e istituzioni democratiche deboli nelle società mediorientali non possono essere risolti se non si ottiene la totale parità di genere.

“Non dovete essere uomini ora. Dovete pensare come una donna, perché gli uomini combattono solo per il potere. Ma le donne amano la natura, gli alberi, le montagne… È così che diventerete dei veri patrioti”, aveva detto Ocalan in un discorso ai militanti del Pkk in Turchia.

La costituzione di Rojava è stata ratificata il 9 gennaio 2014: si tratta di un “contratto sociale” che considera la parità tra i sessi e la libertà di culto come diritti inviolabili di tutti gli abitanti. 

Al principio le credenze di Abdullah Ocalan erano diverse. La sua carriera politica iniziò nel 1978 con la creazione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), i cui membri chiamavano Ocalan Apo, “zio” nella lingua curda.

Gli esponenti del Pkk erano soliti praticare spettacolari atti di violenza contro le organizzazioni rivali e i soldati del governo per destabilizzare e delegittimare l’autorità della Turchia nel sudest curdo del Paese. 

Abdullah Ocalan scappò in Siria nel 1980, dove ricevette asilo da Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano. Per circa 20 anni, Ocalan guidò la battaglia del Pkk da lontano, venendo poi cacciato dalla Siria nel 1998 in seguito alle crescenti pressioni della Turchia.

Scappò attraverso l’Europa arrivando infine in Kenya, dove venne catturato con l’aiuto dell’agenzia statunitense Cia, che all’epoca aveva definito il Pkk un’organizzazione terroristica. Dopo essere finito nelle mani del governo turco ed aver probabilmente subito torture da parte delle forze di sicurezza turche, Ocalan aveva infine rinunciato all’obiettivo di creare una “patria” indipendente per il popolo curdo.

Fu imprigionato nel carcere di Imrali, situato su un’isola al largo di Istanbul, in cui è attualmente l’unico detenuto, ed è da allora che le sue credenze iniziarono a cambiare. Gli venne permesso di incontrare comandanti anziani del Pkk e avvocati per comunicare attraverso di essi i dettagli della tregua ai suoi seguaci.

Gli venne inoltre concesso di leggere alcuni libri, e fu grazie a questo che entrò in contatto con l’ideologia radicale di un filosofo dello stato americano del Vermont, Murray Bookchin. Quest’ultimo credeva nella “ecologia sociale”, secondo cui tutti i problemi sociali dipendono dall’ineguaglianza, dal sessismo e dal razzismo.

In isolamento, Ocalan studiò la maggiore opera di Bookchin, “L’ecologia della Libertà”, in cui il filosofo sostiene che il problema principale dell’umanità sono le relazioni gerarchiche e non il capitalismo. Secondo Bookchin, la distruzione del mondo naturale da parte del genere umano sarebbe il prodotto della nostra tendenza a dominare il prossimo, ed è solo eliminando tutte le gerarchie – come la superiorità dell’uomo rispetto alla donna, del vecchio rispetto al giovane, del bianco rispetto al nero, del ricco rispetto al povero – che riusciremo a risolvere la crisi ecologica globale.

La democrazia secondo Ocalan

In un altro libro, “Urbanizzazione senza Città”, Bookchin sostiene che la democrazia diretta basata sul modello ellenico sia la scelta migliore per una società. Solo utilizzando questo sistema l’umanità potrebbe contrastare l’ingiustizia, così da impedire ai movimenti radicali di riprodurre le stesse ineguaglianze che essi stessi si propongono inizialmente di sconfiggere.

Basandosi sull’idea di Bookchin di ottenere l’indipendenza attraverso le assemblee municipali, Ocalan riuscì finalmente a trovare un modo per realizzare il sogno curdo: il Pkk avrebbe potuto far ottenere diritti ai curdi attraverso la creazione di proprie comunità separate all’interno di Paesi già esistenti, facendo ricorso alla violenza solo in caso di attacco. Forse, dopotutto, Ocalan aveva sbagliato a pensare che la liberazione potesse essere ottenuta solo attraverso la creazione di uno stato-nazione governato dai curdi.

Nel marzo del 2005 Ocalan pubblicò la Dichiarazione del confederalismo democratico in Kurdistan. Nel manifesto, il leader del Pkk sollecita tutti i guerriglieri a leggere L’Ecologia della Libertà, e ordina ai suoi seguaci di smettere di attaccare il governo e creare invece delle assemblee municipali, che lui chiama “democrazia senza lo stato”.

Queste assemblee avrebbero l’obiettivo di formare una grande confederazione che si estenderebbe a tutte le regioni curde di Siria, Iraq, Turchia e Iran, unite da una base comune di valori fondati sulla difesa dell’ambiente, il rispetto del pluralismo religioso, politico e culturale e l’uguaglianza di genere a tutti i livelli della società.

Non tutti i comandanti del Pkk hanno accettato di buon grado i cambiamenti, ma hanno comunque seguito la linea di Ocalan. Le donne del movimento, invece, hanno accolto positivamente la nuova ideologia.

Il Pkk si è così organizzato in modo da formare immediatamente delle assemblee clandestine in Siria, Iraq e Turchia, in attesa della occasione giusta per potersi espandere.

Ed è proprio a Rojava che l’ideologia del Pkk espressa nella Dichiarazione del confederalismo democratico in Kurdistan, figlia del “sogno di Bookchin”, sta prendendo piede in maniera più evidente.

(Bandiere curde vengono sventolate dopo la liberazione di alcuni villaggi dagli estremisti islamici)

La democrazia diretta di Rojava

“Rojava è qualcosa che va oltre lo stato-nazione”, ha detto a Enzinna il comandante donna Hediye Yusuf, copresidente del distretto di Jazeera, la municipalità locale di cui fa parte la capitale Qamishli. “È un posto dove tutte le persone, tutte le minoranze e tutti i generi vengono ugualmente rappresentati”, ha aggiunto Yusuf.

Secondo quanto dichiarato da Yusuf, ogni posizione di qualsiasi livello del governo di Rojava viene occupata sia da una donna che da un uomo con pari autorità. A condividere la presidenza del distretto con Hediye Yusuf è Sheikh Humeydi Daham al-Hadi, leader di una tribù araba precedentemente affiliata ad Al-Qaeda in Siria. Secondo Yusuf il collega al-Hadi “è ben lontano dall’essere un femminista, ma ci supporta poiché offriamo una società funzionale che rispetta tutti, a differenza di Assad, dell’Isis e di Erdogan”.

Enzinna ha avuto l’occasione di essere presente durante la riunione di una delle assemblee municipali basate sul modello di Ocalan: la comune Martyr Ramsi. I 46 membri di questa assemblea si erano incontrati per discutere della sicurezza della regione. La loro è una delle 97 comuni distinte in base al quartiere d’appartenenza presenti nella capitale di Rojava. Ce ne sono altre centinaia ad Afrin e Kobani, gli altri due distretti di Rojava.

Secondo quanto dichiarato da Chenar Salih, rappresentante del Movimento per una società democratica (Tev-Dem) – una coalizione di sei partiti politici della quale fa parte anche il Pyd – il Pyd ha implementato dei controlli sul suo stesso potere per assicurare che non sia una maggioranza curda a dominare.

“Essendo una minoranza che viene repressa in Turchia, siamo consapevoli dell’importanza di dare a tutti un ruolo egalitario al’interno del governo”. Nel marzo 2015 a Jazeera si sono tenute le elezioni distrettuali. Di 565 candidati, 237 erano donne, 39 assiri e 28 arabi, provenienti da molti partiti politici diversi.

Gli oppositori del Pyd

Secondo alcuni, tuttavia, ciò che sostiene il Pyd riguardo la propria apertura sarebbe in realtà una trovata del partito. A quanto dice il portavoce di un gruppo d’opposizione curda in Siria, il Pyd non è altro che “una dittatura le cui pratiche arbitrarie contro i curdi siriani includono la repressione, gli assassini e la detenzione per coloro che non appoggiano le norme del Pyd”.

Human Rights Watch ha espresso dubbi in merito al ruolo del Pyd. Amnesty International ha anche pubblicato delle preoccupanti accuse indirizzate all’Ypg, secondo le quali la forza armata avrebbe commesso crimini di guerra, radendo al suolo interi villaggi come punizione per aver ospitato di nascosto militanti dell’Isis.

“Avevamo delle prove che avessero cooperato con l’Isis”, ha detto Yusuf riguardo alle affermazioni di Amnesty International, cercando di spiegare la faccenda e negando con forza che fossero state distrutte deliberatamente le case dei civili. Ha tuttavia ammesso che “siamo in mezzo a una guerra e a una rivoluzione, e abbiamo commesso degli errori”. Ha infine aggiunto che il Pyd ha collaborato con Human Rights Watch nell’indagine e che i responsabili sono stati puniti.

Le diffidenze degli studenti verso Enzinna

Nel suo viaggio alla scoperta della società di Rojava, l’unico conflitto che Enzinna ha riscontrato con i suoi studenti riguardava quanto essi avrebbero voluto rivelare delle loro vite. Una sera, il giornalista ha chiesto loro di scrivere un saggio breve su dove si trovassero quattro anni prima, quando era iniziata la guerra civile in Siria, e dove avrebbero voluto essere quattro anni dopo.

Gli studenti si sono fatti subito sospettosi e hanno chiesto a Enzinna di uscire dall’aula, dove hanno continuato a discutere per molto tempo. Solo dopo il giornalista ha capito come le sue domande potessero essere fraintese poiché molto simili alle richieste poste dal regime di Assad durante gli interrogatori che coinvolgevano i giovani curdi.

Nonostante lo scontro, tutti gli studenti si sono presentati alla lezione successiva. “Rifiutiamo la relazione signore-servo come modello per la relazione tra insegnante e studente”, ha dichiarato uno degli alunni, “ma abbiamo deciso che puoi continuare a farci da insegnante”.

I segni della guerra nella regione

A Enzinna è stato chiesto di lasciare la scuola prima di quanto stabilito, poichè un battaglione di diverse centinaia di reclute sarebbe stato spostato in prima linea e quindi l’università sarebbe stata usata come rifugio temporaneo.

Il giornalista ha successivamente seguito il viaggio dei soldati verso il fronte, ritrovandosi ad attraversare un villaggio che faceva da avamposto contro l’Isis a 24 chilometri a sud della capitale Qamishli. Parte del centro era talmente distrutta da essere più simile a una rovina archeologica che a una città.

In una delle case ancora in piedi, Enzinna ha incontrato Deniz Derik, una combattente di 24 anni dell’Ypj, capo di 23 ragazze che vivevano con lei in quella casa, di età comprese tra i 14 e i 21 anni.

Il giornalista ha chiesto a Shaker, un giovane insegnante dell’accademia che lo aveva accompagnato nel suo viaggio, come mai ragazzi come lui frequentassero l’università mentre quelle “ragazzine” facessero parte dell’esercito.

Shaker ha risposto che chiunque voglia può andare a scuola, a costo di saper dimostrare la propria serietà.

Enzinna ha poi chiesto a Derik se le sarebbe piaciuto studiare, e lei ha risposto che persino i soldati studiano le teorie di Ocalan per due ore ogni giorno.

Passando vicino a una bandiera appesa a un lampione che onorava un soldato Ypg morto, Shaker aveva raccontato a Enzinna che l’uomo era stato un suo amico dai tempi del liceo.

È stato allora allora che Enzinna si è reso conto di come la generazione di cui facevano parte Shaker e il suo defunto amico fosse costretta a scegliere necessariamente tra diventare un rifugiato o un combattente.

E per quelli che sceglievano di combattere, l’unica opzione erano diversi tipi di militanza: affiliarsi all’Isis, al regime di Assad o alla rivoluzione curda.

In un contesto di estrema violenza come quello che caratterizza la Siria dagli ultimi quattro anni, secondo Wes Enzinna non è così sorprendente che le ideologie più estreme, non importa quanto brutali o utopiche, stiano prendendo piede così velocemente.

Il giornalista ha chiesto alla combattente Deniz Derik se avesse paura di morire.

“Paura? Perché dovrei avere paura? Diventare una martire è la cosa migliore che mi possa succedere. Certo, combattere è brutto, ma combattere per questo è bello. La paura è per le vostre donne occidentali nelle loro cucine”, ha risposto Derik.

Continuando la camminata nel villaggio e passando accanto a una scuola distrutta dai bombardamenti, Derik ha aggiunto: “Ognuno deve scegliere da che parte stare. L’Isis ha scelto quella della schiavitù, noi abbiamo scelto quella della libertà.”

“Noi combattiamo per le nostre idee”, è poi intervenuto Shaker, “le idee, come le persone, muoiono se non combattiamo per loro”.

Il giornalista Wes Enzinna ha raccontato la sua storia per la prima volta sul New York Times

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