Rohingya, l’Onu chiede di perseguire generali dell’esercito birmano per genocidio e crimini contro l’umanità
Nel rapporto delle Nazioni Unite si legge che i crimini perpetrati sono "simili per natura, gravità e portata a quelli che hanno permesso di stabilire intenzioni di genocidio in altri contesti"
Le Nazioni Unite, attraverso un rapporto divulgato lunedì 27 agosto, hanno chiesto alla giustizia internazionale di indagare per genocidio e crimini contro l’umanità il capo dell’esercito del Myanmar e altri cinque alti comandanti militari.
Il rapporto, basato su centinaia di interviste, è la più forte condanna da parte dell’Onu delle violenze perpetrate contro i Rohingya. Vi si legge che le tattiche dell’esercito sono “coerentemente e grossolanamente sproporzionate rispetto alle attuali minacce alla sicurezza”.
Il documento è molto critico anche nei confronti di Aung San Suu Kyi, consigliere di Stato della Birmania, leader del partito birmano Lega Nazionale per la Democrazia (Ndl) e premio Nobel per la Pace nel 1991, accusata di non aver agito per fermare la violenza.
La relazione chiede che la leader birmana venga deferita alla Corte penale internazionale.
Il governo ha costantemente affermato che le sue operazioni erano mirate a colpire minacce terroristiche, ma il rapporto sostiene che i crimini perpetrati sono “scioccanti. Questioni di carattere militare non giustificherebbero mai l’uccisione indiscriminata, lo stupro di gruppo delle donne, l’assalto di bambini e la distruzione di interi villaggi”.
Nel marzo 2017 è stata istituita una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sul Myanmar, per indagare sulle diffuse accuse di violazioni dei diritti umani contro la minoranza Rohingya, in particolare nello stato di Rakhine.
Era il 25 agosto 2017 quando scoppiarono gli scontri tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani di un gruppo paramilitare vicino ai musulmani rohingya.
In breve tempo, molte organizzazioni non governative hanno denunciato l’esercito birmano per aver messo in atto una “operazione di pulizia” contro questa minoranza religiosa, con omicidi, stupri e incendi messi in atto contro i rohingya e i loro villaggi.
Queste azioni hanno causato centinaia di morti nello stato di Rakhine, in Birmania, e hanno dato inizio a un esodo che ha portato nei mesi successivi oltre 700mila musulmani rohingya ad attraversare il confine con il Bangladesh (qui lo speciale di TPI.it sulla crisi dei rohingya).
I profughi, secondo i dati dell’ong MSF, si sommano alle oltre 200mila persone che erano già scappate a seguito di precedenti ondate di violenza. Complessivamente, sono oggi oltre 919mila i rohingya che vivono nel distretto di Cox’s Bazar, nel sudest del Bangladesh.
Nello stato di Rakhine, il rapporto dell’Onu ha anche trovato elementi “simili per natura, gravità e portata a quelli che hanno permesso di stabilire intenzioni di genocidio in altri contesti”.
Le Nazioni Unite, per stilare il rapporto, non hanno avuto accesso al Myanmar, ma il documento è comunque basato su fonti primarie come interviste, immagini satellitari, fotografie e video.
La missione delle Nazioni Unite elenca un numero di alti funzionari dell’esercito che avrebbero avuto le maggiori responsabilità in relazione alle violenze. La lista include il comandante in capo Ming Aung Hlaing e il suo vice.
I Rohingya sono una delle tante minoranze etniche in Myanmar e costituiscono la più grande percentuale di musulmani nel paese. Il governo, tuttavia, li considera come immigrati illegali e nega loro la cittadinanza.
Un’indagine interna dei militari del Myanmar nel 2017 ha scagionato l’esercito stesso, sollevandolo da ogni responsabilità.