Così la rivoluzione delle donne sta mettendo in difficoltà il regime di Teheran
L’Iran è una Repubblica fuori dal tempo: le donne sono sottoposte a una serie inaccettabile di restrizioni, ormai invise anche agli uomini. La protesta contro il velo è solo la punta dell’iceberg. Ecco come le rivolte, non più limitate ai centri urbani, stanno mettendo in difficoltà il regime
La rivoluzione iraniana del velo, sospinta dall’urgenza di libertà e dalle seduzioni della modernità, produce una prima ricaduta storica. Nell’aspettativa della spinta finale riduce il tradizionale divario di cultura e di costume che un po’ in tutto il mondo divide le metropoli dalle campagne. Le signore della borghesia che scendono in piazza contro la teocrazia a Teheran non si distinguono per grado di indignazione e potenza degli slogan dalle meno sofisticate manifestanti di Saqqez, sonnolenta cittadina sperduta nelle montagne del Kurdistan iraniano da dove proveniva Mahsa Amini (la 22enne ammazzata dagli scagnozzi della morale per l’hijab indossato in maniera un po’ scomposta che lasciava intravvedere una ‘pericolosa’ ciocca di capelli).
L’abissale sproporzione fra il peccato veniale della ragazza e la reazione feroce dei gendarmi ha fatto divampare a dimensioni globali la protesta contro le strette medievali in cui per oltre 40 anni di khomeinismo è stato pietrificato l’universo femminile. L’ultimo orrore dell’uccisione della 16enne Asra Panami, per essersi rifiutata di cantare in classe un inno dedicato alla Guida Suprema Ali Khamenei, alza a dismisura i livelli di tensione prefigurando scenari ancor più drammatici.
Ricorrentemente, nel corso dei decenni, il fuoco del malessere crepitava sopra le ceneri. Ma, dopo quello che è apparso a tutti un assassinio di Stato (a cui sono seguite oltre 200 altre morti violente e migliaia di incarcerazioni), mai con tanta virulenza. E mai con tanta compattezza. Senza antagonismi generazionali. Figlie, madri, nonne: tutte insieme. Unite sotto le bandiere di un’indignazione che si sta trasformando in rivolta. Come se tutto l’Iran – circa 85 milioni di abitanti, il 40 per cento con meno di 20 anni – fosse percorso da una scarica elettrica indirizzata verso i palazzi del potere. Senza neanche lo sprone trainante di un capo.
Sostituito collettivamente da un’intera società. Cementato dalla comunicazione sui social quando non vengono oscurati. Assecondato dalle manifestazioni di solidarietà dilagate ai quattro angoli del mondo, dove il rituale del ciuffo tagliato è diventato un’icona di liberazione che accelera anche nelle aree più arretrate del pianeta il processo di emancipazione femminile. E rinvigorito dall’adesione dei maschi iraniani, soprattutto i giovani, che stremati da proibizioni non più in linea con lo spirito dei tempi tendono a liberarsi del patriarcato e del machismo e a sovvertire anche gli indicatori della statistica. Nel 2016 il 73 per cento della popolazione riteneva ancora perfettamente legale l’imposizione dell’hijab. Oggi la percentuale è scesa al 58,5 e a Teheran addirittura al 39. Se si escludono le ridotte ideologiche del più retrivo conservatorismo, le roccaforti inesauste del potere politico e i mondi marginali che continuano a pascolare nel passato, tutti i settori vengono investiti.
Ha sete di novità l’imprenditoria che ha familiarità con l’estero. Aspira a volare più alto la cultura che cerca in tutti i modi di sfuggire alle tagliole delle direttive di Stato. È scossa la coscienza dei fedeli che continuano ad assegnare la priorità assoluta alla dottrina sciita e a considerare il velo un bastione dell’identità ma non tollerano più leggi inculcate senza il minimo rispetto per la dignità e le esigenze delle donne. Cerca di affrancarsi lo sport dove la Nazionale di calcio dopo la morte della Amini ha indossato giubbetti neri in segno di lutto e la scalatrice Elnaz Rekabi ai campionati asiatici di Seul ha avuto l’ardire di gareggiare senza l’hijab sul capo esponendosi a immediate ritorsioni. Si smarcano anche se con prudenza i bazari, i commercianti che sono sempre stati vicini al potere ma oggi avvertono che stanno spirando venti nuovi. Sono dilaniate dal dubbio perfino le minoranze moderate dello stesso clero: una hojjatoleslam (il grado religioso più alto raggiungibile dalle donne) in una conversazione si è lasciata scappare che il potere giuridico è troppo influenzato dagli uomini e che l’istituzione dell’obbligo dell’hijab potrebbe essere stata un errore.
Al di là del velo è impressionante, e agli occhi di un occidentale ai limiti quasi dell’inverosimile, la casistica di divieti che penalizzano la quotidianità della donne. Le iraniane ancor oggi in pubblico non possono né ballare né cantare se non in un duetto con un partner maschile. Non possono andare all’estero né ricevere eredità senza il consenso del padre o del marito. Sono costrette molto spesso, se di ceto povero, a accettare matrimoni combinati dalle famiglie a età tra i 9 e i 13 anni in cui non hanno ancora raggiunto sufficienti livelli di autonomia e nemmeno di discernimento. Debbono sottostare a una legge sulla poligamia che consente al maschio di collezionare fino a quattro mogli, anche se nei fatti l’usanza si sta scolorendo e sopravvive solo nelle zone meno sviluppate del paese. In caso di separazione sono svantaggiate nella gestione dei figli. Sono escluse da alcuni atenei e da alcuni corsi universitari. Vengono punite con l’impiccagione o la lapidazione se commettono adulterio. Solo da qualche anno possono recarsi liberamente allo stadio ma solo per le partite della Nazionale.
Su oltre 150 paesi esaminati l’Iran è agli ultimi posti negli studi sul divario di genere. Una sorta di aparheid inflitto in nome della sharia (il complesso di regole di vita dettato da Dio per la condotta morale, civile e religiosa) che viene applicata nell’ottica di un islamofascismo onnipresente. In ossequio alle intransigenti convinzioni di Khomeini secondo cui le austere vesti islamiche rispecchiavano l’integrità morale delle donne giovani e per bene che avevano fatto la Rivoluzione. E nelle interpretazioni più allucinate poteva degenerare nella macchietta. Che andò surrealmente in scena quando in un comizio nella capitale un predicatore suonato inveì contro “molte donne che non si curano di portare i giovani alla perdizione, corrompere la castità, diffondere l’adulterio nella società e provocare perfino i terremoti”. Rivelazione, l’ultima, che gli sarebbe stata espressa niente meno che dall’autorità divina.
Ma dal momento che la vita è ovunque larga e trova sempre gli spiragli per insinuarsi nelle pieghe delle proibizioni, per decenni le donne iraniane si sono ingegnate a eludere i divieti sopperendo con gli sforzi di fantasia. Le più giovani hanno da tempo eliminato il chador, iil tunicone copritutto non ancora abbandonato dalle generazioni più anziane. Ma essendo tassativo il veto di non far risaltare il seno o il fondo schiena ricorrono a schermature come i maglioni abbondanti, i jeans non aderenti o le gonne lunghe eleganti. Sull’hijab hanno sempre trovato il modo di spingere la sfida fino a un millimetro prima del punto di non ritorno, scapricciandosi in compenso liberamente nell’accostamento dei colori. Per rendersi più attraenti si smaltano le unghie con estrose combinazioni cromatiche e ricorrono frequentemente alla chirurga plastica. L’Iran è il primo paese al mondo per la quantità di rifacimenti del naso.
Nei ceti alto-borghesi che gravitano intorno all’area esclusiva di Teheran Nord le signore son solite organizzare cene ad alto tasso alcolico (severamente vietato), con vini e distillati di marca che vengono spediti per posta dall’estero sotto lo sguardo distratto di doganieri a cui basta la corresponsione di una mancia per voltare lo sguardo da un’altra parte. Nei ristoranti chic, che come qualsiasi altro locale dovrebbero chiudere a mezzanotte, le sale appartate rimangono aperte fino all’’alba. Le donne che hanno i mezzi e i permessi per viaggiare all’estero in aereo, dopo il decollo si liberano nella toilette degli abiti monacali e si rilassano per il resto del viaggio in mise meno opprimenti. Le ragazze e i ragazzi che non hanno soldi per partire girano di notte in macchina scambiandosi per gioco, grazie alla tecnologia Bluetooth, messaggi erotici con gli occupanti sconosciuti delle auto che incrociano.
In ambiti meno frivoli le iraniane si mostrano più impegnate degli uomini negli studi (è maggiore il numero delle laureate). Sono molto attive nelle università e nell’organizzazione di eventi culturali. E hanno in pugno l’industria dell’editoria. Dalle loro file provengono artiste famose come Eshirin Neshat emigrata negli Usa e registe come Marjane Satrapi che vive in Francia. In America è riparata anche la scrittrice Azar Nafisi, autrice del bestseller “Leggere Lolita a Teheran” che prende spunto da un seminario di lettura dei classici per scandagliare le difficoltà che incontrano le donne nell’Iran contemporaneo.
Per fronteggiare l’uragano delle proteste, nazionali e internazionali, la teocrazia si è trincerata dietro lo schermo vacillante del complotto. La piazza sarebbe finanziata e aizzata dagli Stati Uniti e da Israele. E perfino dall’Iraq, su cui si affaccia il teatro del Kurdistan iraniano oggi in fiamme non per per obiettivi indipendentisti ma per la morte irragionevole di una ragazza nata e cresciuta in quelle terre. La Guida Suprema, l’83enne Ali Khamenei da tempo in cattive condizioni di salute, assicura che la parte sana del paese è schierata con l’interpretazione più ortodossa del credo sciita.
Come nei tentativi di sovversione precedenti (moti studenteschi nel 1999, l’onda verde contro la presidenza dell’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad nel 2009, cortei contro il rincaro dei carburanti nel 2019) è ragionevolmente sicuro che il robustissimo apparato di Stato riassorbirà come sempre la protesta e reimporrà la stabilità. La tensione è però altissima anche in campo sociale. L’inflazione supera ormai il 40 per cento e si avvicina al 10 la percentuale della disoccupazione nonostante l’alto livello di istruzione (l’Iran è il secondo paese al mondo per numero di lauree scientifiche). Ma la Repubblica islamica, nel disegno globale della teocrazia, rimane pur sempre una potenza petrolifera, in grado di condizionare i prezzi del mercato energetico e resistere alle sanzioni imposte dal mondo occidentale per la controversa questione del nucleare.
È sui diritti che gli ayatollah appaiono irremovibili. Il quotidiano parigino “Le Monde” ha recentemente pubblicato un rapporto ufficiale di 219 pagine dal titolo “Progetto castità e hijab”. In cui il governo di Teheran lancia un allarme sul crollo dei valori e sulla necessità di studiare nuove misure repressive per prevenire il caos. Allo studio il potenziamento della video sorveglianza nelle strade centrali delle città e nei punti nevralgici. E l’istituzione di centri di rieducazione per recuperare alla causa sciita i ribelli più riottosi.
L’inquietudine nelle alte sfere si è accentuata quando il nuovo presidente, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, dopo aver pasticciato una serie di improbabili giustificazioni per gli omicidi della polizia religiosa, ha cercato un armistizio con la popolazione femminile intervenendo a Teheran all’apertura dell’anno accademico dell’università Al-Zahra (ateneo per sole donne). Ma la vivace contestazione l’ha costretto a ridurre al minimo la sua presenza.
Sul corpo delle donne il potere iraniano nell’ultimo secolo ha sempre esercitato un controllo ferreo. Con aperture e chiusure scandite a seconda delle convenienze. Dai tempi della dinastia Pahlavi ai nostri giorni. Nel 1936 lo scià Reza Pahlavi, in un periodo di difficoltà, mostrò un volto liberale schiudendo alle donne le porte delle università. Il figlio, Mohammed Reza Pahlavi, sul trono dal ’46, accentuò il processo di modernizzazione pur non rinnegando le radici spirituali dell’Islam. Negli anni Sessanta varò un piano di riforme, consegnato alla storia con l’etichetta di “rivoluzione bianca”, che concesse alle donne l’elettorato attivo e passivo e abolì la poligamia.
L’ascensore sociale consenti al gentil sesso di scalare le vette dell’alta politica (nel ’68 la 46enne Farrokhroo Parsa divenne ministro) e della diplomazia (furono nominate un paio di ambasciatrici). Tolleranza si instaurò anche nei costumi. Nelle grandi città le ragazze indossavano senza problemi abiti occidentali, accelerando un processo di distacco dalle tradizioni che mise in allarme le autorità religiose ancora saldamente influenti nei centri di provincia. Era una società in pieno fermento e con grandi contraddizioni. Al diffuso benessere delle classi privilegiate si opponeva l’estrema miseria delle periferie e delle campagne. La troppo disinvolta corruzione nei circuiti della nomenclatura contrastava con la rigorosa aderenza ai precetti islamici dei ceti più umili. Una inconciliabilità che provocò la discesa in piazza delle donne conservatrici in difesa del velo, del chador e della purezza musulmana.
Nello iato fra queste due visioni si inserì l’ayatollah Ruhollah Khomeini che di ritorno dall’esilio parigino nel 1979 rovesciò la monarchia con un referendum plebiscitario (99 per cento di consenso) e instaurò la Repubblica islamica. La nuova Costituzione stabilì per le donne condizioni di parità sociale ed economica sottoposte però ai dettami della sharia. Nei fatti calò sulle loro vite una cortina di oscurantismo. Che coinvolse subito non solo l’aspetto esteriore ma anche la libertà di movimento e di carriera. Vietati salvo permessi i viaggi all’estero, sbarrate le porte della facoltà di giurisprudenza, cancellati i tornei sportivi femminili.
Sulle prime, nonostante l’entusiasmo che aveva originariamente provocato l’avvento della rivoluzione, il pendolo cominciò a indirizzarsi nell’altro verso. Il 7 marzo del 1980, vigilia della festa delle donne, 100 mila fra lavoratrici e studentesse scesero a Teheran in piazza contro l’imposizione del velo (3 mila perfino nel santuario spirituale di Qom). Ma l’oceanica manifestazione non servì neanche a scalfire la rigidità del regime. E da quel momento la società femminile oscillò fra rassegnazione, sussulti di insofferenza, speranze sempre disattese per le stagioni apparentemente riformiste, scappatoie per sottrarsi alla morsa. Fino ai moti dei nostri giorni.
A distanza di oltre 40 anni la Repubblica islamica appare indebolita ma ancora reattiva. Con le declinanti forze di Ali Khamenei, che anche agli occhi degli iraniani più timorati comincia a incarnare la figura del dittatore, ha seri problemi di leadership. Nelle grandi manovre per la successione il favorito a raccoglierne l’eredità sarebbe il figlio 53enne Mojtaba. Uno sbocco dinastico come se regnasse ancora la monarchia. Nel valutare le prospettive occorre tener conto anche del quadro geopolitico. L’Iran ha forti legami con la Russia, a cui ha venduto i droni-kamikaze che nella guerra in Ucraina stanno tormentando Kiev. E, oltre che con il Cremlino, vanta affinità con la Cina, puntate contro l’occidentossicazione: la tendenza soprattutto delle giovani generazioni a lasciarsi attrarre dai lustrini consumistici delle nostre democrazie giudicate deboli, debosciate e decadenti.
La rivoluzione del velo avanza a passo spedito. Ma i muri da sbriciolare appaiono ancora solidi. Probabilmente molto altro sangue scorrerà prima che una tirannia così consolidata si sfasci o stronchi una volta di più l’opposizione col terrore.