Essere un rifugiato in Israele
Siamo andati a visitare il centro di detenzione israeliano di Holot per conoscere i richiedenti asilo che da Israele rischiano di essere rimandati in Africa
A vederlo, Kimo sembra uno studente appena uscito da un campus americano: 26 anni, modi educati, inglese perfetto, jeans e converse.
Invece è un richiedente asilo, arrivato in Israele dalla provincia sudanese del Darfur nel 2008. Da più di un anno, Kimo vive nel centro di detenzione di Holot, insieme a circa altri 2.500 prigionieri: tutti richiedenti asilo sudanesi o eritrei.
Holot è il posto dove finiscono in genere quelli che, in Israele, hanno richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato politico e che non l’hanno ancora ottenuto.
Kimo ci porta all’ingresso del campo, tra le bandiere dell’Onu e i tendoni dove i detenuti fumano insieme il narghilè. La struttura è circondata da filo spinato.
“La mia famiglia aveva una fattoria, e prima della guerra ero uno studente. Volevo entrare in un’università americana per studiare archeologia. Poi è cominciato il genocidio, e siamo scappati tutti”.
La sua famiglia ha trovato rifugio in Kenya, mentre lui si è spinto verso l’Egitto. Voleva raggiungere Israele perché era il Paese democratico più vicino a lui.
“Ho attraversato il confine illegalmente e sono arrivato a Tel Aviv. Ho cominciato a lavorare in nero come cameriere, e nel frattempo ho fatto richiesta per ottenere lo status di rifugiato. Non mi hanno mai risposto”.
(Nella foto qui sotto: Kimo nel centro di detenzione di Holot. Credit: Eleonora Cosmelli)
Kimo ha imparato l’ebraico, e a Tel Aviv ha trovato una casa e degli amici. Siamo seduti all’ingresso. Rifiuta una sigaretta, ma accetta volentieri delle patatine al burro di arachidi, il tipico snack israeliano.
Poi continua: “L’anno scorso la polizia è entrata a casa mia e mi ha deportato in prigione”, sottolinea la parola deportato, “Ho passato otto mesi in carcere, poi mi hanno spostato a Holot”.
Da quel momento vive lì, nel bel mezzo del deserto del Negev, nel sud di Israele. In lontananza s’intravedono i grattacieli di Ashkelon, la città più vicina.
Nessuno la nomina, ma siamo a pochi chilometri da Gaza. Per il resto non c’è niente, se non una strada dove passa un autobus ogni venti minuti.
“Durante il giorno possiamo uscire, basta rispettare il coprifuoco alle 10 di sera”, ci spiega Kimo, “Di solito andiamo ad Ashkelon. Ci danno 120 shekel ogni dieci giorni per le spese”.
È l’equivalente di circa 27 euro. Con quei soldi, i detenuti comprano frutta, verdura e sigarette, e se le scambiano tra loro.
All’ingresso del centro, hanno messo su un vero e proprio mercato tipicamente mediorientale. L’unica nota di colore in quella terra arida.
“Durante il giorno dobbiamo rispondere a tre appelli. Se trasgrediamo una sola regola, torniamo in prigione. C’è chi ci resta anche tre mesi”.
È strano parlare di tempo a Holot, dove sembra tutto sospeso. Kimo e gli altri non sanno per quanto tempo resteranno lì.
Si trovano in un limbo legale: in quanto richiedenti asilo, non possono essere rimandati in patria. Infatti Israele è firmatario della Convenzione Onu sullo status di rifugiati, e non può espatriare qualcuno che nel Paese d’origine rischia la vita o la libertà.
D’altra parte, Israele si rifiuta di riconoscerli come rifugiati politici e di integrarli. Non sono nemmeno accusati di nessun crimine.
“Vogliono solo farci sparire”, dice Kimo. In Israele, i richiedenti asilo hanno solo una protezione “temporanea”: hanno il diritto di restare nel Paese, ma non a lavorare né ad avere un’assistenza sanitaria.
Possono solo stare lì, nel Negev, e aspettare che la situazione nei loro Paesi migliori. Ovviamente, potrebbero volerci molti anni. Essere riconosciuti come rifugiati è un’utopia: dal 2013, solo tre richieste su circa 5mila sono state accolte.
È la cifra più bassa del mondo occidentale. Le leggi nazionali sulla tutela dei richiedenti asilo sono cambiate ripetutamente.
Le ultime due leggi anti-infiltrazione approvate dal governo Netanyahu sono state entrambe dichiarate incostituzionali dalla Corte Internazionale di Giustizia.
L’ultima, approvata a dicembre, prevede che i richiedenti asilo passino tre mesi in carcere e almeno 20 a Holot.
Secondo l’attivista Anael Adda, lo scopo sarebbe portare i richiedenti asilo al punto da decidere “volontariamente” di tornare nel proprio Paese.
A metà aprile, il ministro degli Interni ha dichiarato che il governo comincerà la deportazione dei richiedenti asilo eritrei e sudanesi verso Paesi africani terzi, come il Ruanda e il Ghana, anche senza il loro consenso.
Kimo, dal canto suo, sta valutando l’ipotesi di tornare a casa. Parlando della sua vita a Holot, usa soprattutto parole come “frustrazione” e “disperazione”. E alla fine dice: “Stare qui mi farà diventare matto”.