Rich kids of Mogadiscio
Nella capitale somala in guerra c'è una piccola oasi, dove giovani, con orologi e foulard firmati, si godono i piaceri della vita nel primo locale notturno della città
Come teschi dalle orbite vuote, i palazzi di Mogadiscio sventrati dalle esplosioni assistono alla corsa frenetica dei cittadini somali verso le proprie case. È terminata l’ultima preghiera e un brulicare veloce di uomini e donne esce dalle moschee e attraversa le strade della capitale. Sono rapidi, furtivi, i cittadini somali, perché assolto l’ultimo dovere quotidiano al cospetto di Dio, a Mogadiscio, non è più il tempo degli uomini: occorre solo riparare nelle proprie abitazioni e far sì che la notte trascorra il più in fretta possibile, nell’attesa di una nuova alba per cui essere grati ad Allah.
La capitale somala da oltre vent’anni è sprofondata in un vortice di violenza e, sebbene in questi ultimi giorni del 2016 il paese sia febbricitante per l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 28 dicembre, la guerra comunque non cessa d’intensità e le esplosioni sono quotidiane. La tragedia ha un suo apogeo e nel conflitto somalo questo è rappresentato dalla notte.
Con l’oscurità, infatti, i miliziani di Al Shabaab fanno incursioni nei campi profughi, dai tetti colpi di mortaio piovono in direzione di Villa Somalia, l’orrore cammina prepotente in ogni dove, e si alimenta del buio, del dubbio, dell’ignoto e getta nel panico: è il terrore che diviene legge.
Al chilometro 5, uno dei quartieri centrali di Mogadiscio però, il suono di un oud (uno strumento musicale simile al liuto, ndr), schernisce ogni dogmatismo di paura. La morte, che marcia sotto la luce della luna somala sembra essere ostacolata da un battere di mani esplosivo e dalle voci di giovani, molti, che sotto una stellata oceanica sfregiano il regime del timore e l’oscurantismo della jihad.
A proteggere i canti di felicità, che come un’attentato alla dittatura dell’islamismo continuano ad alzarsi, un muro di cinta, dei cavalli di Frisia e degli uomini di guardia che, appostati sulle torrette, tengono sotto tiro ogni accesso alla via dove è situato il Posh Treats. È questo il nome dell’oasi di vita di Mogadiscio, il primo locale notturno della città, un country club dove la gioventù della capitale, e soprattutto i figli della “diaspora” ritornati nel loro paese, si incontrano, bevono tè e ascoltano musica sfidando Al Shabaab e il fatalismo di dannazione che ha marchiato la contemporaneità del loro paese.
(Il Posh Treats a Mogadiscio. Credit: Posh Treats Fb page. Il pezzo continua sotto la foto)
Le porte del country club si spalancano, e all’ingresso, a far gli onori di casa, c’è Manar Moalin, la fondatrice e titolare del locale. Il volto, illuminato da una lampada a petrolio, è circondato da un velo che evidenzia il suo sorriso eburneo e lei, seduta in veranda mentre l’incenso si diffonde ovunque, incomincia a raccontare la sua storia, legata a doppio filo con quella del suo locale: “Ho 35 anni, ma quando ne avevo 7 sono scappata da Mogadiscio per via della guerra e ho iniziato a vivere tra Napoli, Londra e Dubai”.
Manar poi prosegue: “Mia madre due anni fa è tornata in Somalia e mi ha detto che la situazione stava cambiando e che si stavano aprendo spiragli di normalità. Ho deciso quindi di tornare anch’io. A Dubai gestisco una Spa e mi sono chiesta “perché non avviarla anche qua nella capitale del mio paese?”, è così che il 5 gennaio 2015 ho aperto il Posh Treats”. Il locale inaugurato dalla giovane donna comprende una sala biliardo, una palestra, un parrucchiere, un barbiere, una guest house, uno spazio concerti e delle sale per fumare il narghilè.
Ogni giorno dalle 70 alle 80 persone frequentano la struttura. Donne che vanno a farsi belle approfittando della presenza di estetiste etiopi, uomini che sfruttano la palestra e poi giocano a biliardo e ragazzi e ragazze che si scambiano sguardi di complicità, seduti sui divanetti e liberi dallo spettro di un peccato mortale che l’eresia ha elevato a condotta morale.
“Ho deciso di dar vita a tutto questo perché la gioventù somala ha diritto a una vita, ai piaceri della vita. Ma questo mio desidero di dare un contributo all’avvenire del mio paese non è stato senza conseguenze”. Manar si interrompe e risponde al walkie talkie che porta sempre con sé, ogni mezz’ora infatti tutte le guardie del locale la informano della situazione.
Una volta terminata la comunicazione la donna racconta i problemi legati alla corruzione, all’incapacità governativa di affrontare i jihadisti e alla mancanza di futuro per la gioventù somala che ha conosciuto solo armi e sangue. Poi con orgoglio aggiunge: “Questo che vedete è il mio impegno per la patria”.
Delle luci rosse illuminano il palco, la musica dell’oud prosegue e nella piccola pista da ballo alcuni ragazzi hanno deciso di lanciarsi in una cadenzata danza liberatoria. Hassan Hassan smette di ballare, si avvicina al narghilè, e con la mano al cui polso brilla un orologio d’oro afferra la pipa d’acqua e incomincia ad aspirare il tabacco.
È uno dei clienti che popolano il Posh Treats, uomini e donne fuggiti dalla loro terra negli anni Novanta, quando erano bambini, e ora tornati per fare investimenti, aprire attività e contribuire nel ridare una nuova vita, politica ed economica alla Somalia. Indossano camice firmate, mentre le ragazze usano foulard delle griffe europee più prestigiose per coprirsi i capelli.
“Sono tornato da tre mesi. In Somalia è difficilissimo vivere, c’è la guerra, ma questo è il paese di mia madre e quindi la Somalia è mia madre e occorre impegnarsi perché ritorni la pace”. Sono queste le parole di Hassan e di molti ragazzi come lui, che vivono le notti di Mogadiscio sotto un cielo diverso dal resto della città dove invece la musica della notte rimane quella di sempre, fatta di ossessive raffiche di kalashnikov e grida di anonime vittime che, ancora una volta, nell’oscurità somala, implorano pietà piangendo alla luna.