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Come funziona la mente di un terrorista

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Due ricercatori argentini hanno condotto uno studio per capire in cosa si differenzia il giudizio morale di un terrorista rispetto a quella di un'altra persona

All’indomani di ogni attacco terroristico, la domanda che risuona nella mente è: “Come hanno potuto farlo?”. Dalla Nigeria al Kenya, dagli Stati Uniti all’Europa, ogni attacco suicida, da quello più coperto mediaticamente a quello meno noto, è forte la sensazione di spaesamento davanti a un essere umano che sceglie di farsi saltare in aria uccidendo suoi simili.

In che modo si coniugano attacchi fatti in nome di un Dio o di una morale, con omicidi condannati da ogni religione?

Agustín Ibáñez, ricercatore di Scienze cognitive della Fondazione Ineco presso l’Università Favaloro di Buenos Aires, in Argentina, e Adolfo Garcia, ricercatore presso il National Scientific and Technical Research Council dell’Argentina, hanno portato avanti una ricerca per capire in cosa si differenzia la mente di un terrorista rispetto a quella di un’altra persona che non commette azioni violente con questa modalità.

Nello studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Human Behavior, Ibáñez e Garcia hanno analizzato 66 terroristi in carcere, con test per valutare il loro funzionamento cognitivo, la loro aggressività, le loro emozioni e la loro capacità di giudizio morale.

I 66 partecipanti alla ricerca erano membri di un gruppo paramilitare armato colombiano, considerato un’organizzazione terroristica da molti paesi. Ognuno di loro era stato condannato per omicidio con una media di 33 vittime. Alcuni di questi avevano partecipato a massacri dove furono uccise ben 600 persone. A ognuno di loro è stato abbinata un’altra persona con un livello di istruzione e un background simile, ma che non erano criminali.

I ricercatori hanno scoperto che in termini di intelletto e di capacità di auto-regolare il proprio comportamento, i terroristi non erano diversi dagli altri. Erano però più proattivamente aggressivi: avevano più probabilità di agire in modo aggressivo se vi era una ricompensa per la loro violenza.

Una parte importante della ricerca era rappresentata dalla capacità di giudizio morale. Ai partecipanti sono stati presentati 24 scenari in cui due personaggi interagivano con alcune conseguenze: nessun danno, danno accidentale, danno intenzionale ma senza successo, danno intenzionale con successo. I partecipanti hanno dovuto valutare quanto accettabili trovassero i comportamenti in ogni scenario.

“Vari studi hanno sistematicamente mostrato che nel giudicare la moralità di un’azione, gli individui civilizzati attribuiscono in genere una maggiore importanza alle intenzioni rispetto ai risultati”, ha detto Ibáñez. “Se un’azione è intesa a indurre il danno, non importa se abbia successo o meno: la maggior parte della gente lo considera meno moralmente accettabile di altre azioni in cui il danno non è stato né previsto né inflitto, o di azioni in cui il danno è stato causato accidentalmente”.

Per la maggior parte della gente, l’intenzione di fare del male è altrettanto da biasimare come fare concretamente del male. I due studiosi hanno notato che nei 66 terroristi il giudizio morale era ribaltato: per loro era meno accettabile il danno accidentale del danno voluto, ma senza successo, dal momento che nel danno accidentale qualcuno si era fatto male, a differenza della situazione in cui l’intenzione di fare del male c’era ma nessuno era rimasto ferito.

Questa tendenza a concentrarsi sui risultati piuttosto che sull’intenzione significa che i terroristi si concentrano più sui risultati.

“Il nostro campione è caratterizzato da una tendenza generale a concentrarsi maggiormente sui risultati delle azioni che sulle intenzioni delle azioni”, hanno spiegato i due autori.

Come facciamo a sapere che questo vale solo per il terrorismo e non per il crimine in sé? La stessa ricerca sul giudizio morale è stata condotta su altri assassini senza background terroristico. In questo caso le risposte degli assassini erano le stesse dei soggetti non criminali.

I ricercatori hanno inoltre aggiunto che la maggior parte di queste persone provengono da settori molto vulnerabili della società: sono individui con povertà estrema e bassi livelli di istruzione, abusi in età infantile, elevati livelli di violenza sessuale e coinvolgimento nella guerriglia e in gruppi paramilitari.

Ibáñez suggerisce che l’isolamento sociale può contribuire alla radicalizzazione che porta una persona a unirsi a un gruppo terroristico.

Lo studio si concentra inoltre sull’ideologia e sulla religione, che però, in questo contesto specifico, non hanno una rilevanza troppo grande.

La maggior parte dei combattenti in Colombia si sono uniti a gruppi paramilitari per motivi economici. Solo il 13 per cento degli ex combattenti aveva una motivazione ideologica per l’adesione al gruppo paramilitare. Pertanto, è improbabile che terrorismo e altri atti criminali commessi da questi individui siano stati guidati esclusivamente dalle loro convinzioni ideologiche.

Secondo Ibáñez, se le conclusioni a cui sono giunti dovessero essere confermate da futuri studi, il test sul giudizio morale potrebbe essere utile come strumento per capire chi potrebbe aver bisogno di interventi psicologici e di monitoraggio.

“La nostra ricerca non sa rispondere alla domanda sul perché i terroristi facciano questa valutazione morale atipica”, ha spiegato Garcia. “Il terrorismo e la radicalizzazione sono fenomeni multifattoriali, modellati da dinamiche di gruppo, predisposizioni biologiche, vincoli culturali e fattori socio-psicologici. Può anche essere un caso che questa forma anomala di cognizione morale sia il risultato della partecipazione alle pratiche terroristiche. Sarebbe necessaria un’ulteriore ricerca per rispondere a questa domanda”.

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