Arresti, torture, processi farsa: viaggio dentro la repressione del dissenso di Erdogan
Al suo arrivo nel 2003, Recep Tayyip Erdogan aveva fatto promesse di democrazia sostenuto anche dall’Europa. Promesse che per molti attivisti sono state tradite. Nessuna svolta in vista oggi, per il Paese cerniera tra Oriente e Occidente
In questi mesi uno dei processi più esemplari della Turchia sta giungendo alla fase finale. Si tratta del processo Kobane, che vede alla sbarra 108 imputati accusati di essere responsabili delle manifestazioni a sostegno della città siriana, avvenute nell’ottobre del 2014, in cui sono morte decine di persone.
In molti allora scesero in piazza per chiedere al governo di intervenire per spezzare l’assedio dell’Isis a Kobane, città che si trova nel Kurdistan siriano, a pochi chilometri dal confine turco, la cui resistenza è diventata il simbolo della lotta curda contro il terrorismo islamico.
Lo scorso 14 aprile, i pubblici ministeri hanno presentato l’ultima istanza in cui hanno chiesto pene severe per tutti e in particolare, l’ergastolo aggravato per 36 imputati, tra cui gli ex co-presidenti dell’Hdp Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, che sono già in carcere preventivo per queste vicende.
Proprio in questi giorni il giudice sta ascoltando le difese di ogni imputato, a seguito delle quali, verso gli inizi di ottobre, emetterà il verdetto finale.
L’accusa non ha minimamente considerato la risoluzione del Parlamento europeo del giugno del 2022, che chiede l’assoluzione per tutti, testo che Erdogan ha criticato pubblicamente: a suo avviso, infatti, gli imputati sarebbero i responsabili delle morti avvenute durante le stesse manifestazioni del 2014.
Tale è l’accanimento in questo processo che nemmeno il devastante terremoto del 6 febbraio scorso ha comportato una variazione nel calendario delle udienze.
Can Memìs, all’epoca dei fatti di Kobane aveva 20 anni, faceva parte della sezione giovanile del partito l’Hdp ed è uno dei 36 imputati che rischiano di dover scontare la pena più grave. Il 7 febbraio scorso l’abbiamo seguito sul treno Istanbul-Ankara, nel suo viaggio per raggiungere il tribunale dove si tengono tutte le udienze del processo, a Sincan, più di mezz’ora di auto dalla capitale turca.
Can è arrabbiato: “Come può essere considerata prioritaria quest’udienza il giorno dopo l’avvento di una tale calamità”, si domanda. “La maggior parte degli imputati e gli avvocati difensori arrivano proprio dalle zone colpite dal sisma. Alcuni di loro sono morti deceduti, altri non possono raggiungere Ankara”.
Mentre ci avviciniamo in taxi al tribunale, Can indica la montagna che vediamo sul fondo: “Quella è la montagna che vedevo dalla mia cella”, dice. È già stato arrestato nel 2020 a causa del suo impegno politico e ha trascorso 10 mesi nella prigione adiacente al tribunale. Racconta delle difficoltà, del freddo d’inverno, delle pareti spoglie che ha reso meno grigie appendendo delle foto, dei disegni che gli amici gli mandavano.
Can ama fare foto per tracciare percorsi nella sua memoria, che dice essersi indebolita dopo la detenzione. E chissà, forse, come racconta una sua cara amica, vuole fissare i momenti, i luoghi per conservarne il ricordo se dovrà tornare in prigione e non li potrà più rivedere.
Molti attivisti accusati di terrorismo e cospirazione sono stati i primi ad aiutare le vittime del terremoto. Una di loro è Sebnem Korur Financi, presidente dell’Associazione Turca dei medici (Ttb). Quando raggiungiamo la loro sede ad Ankara, i corridoi e gli uffici sono pieni di medici e volontari che lavorano senza sosta per supportare i dottori e la popolazione delle zone terremotate alle prese con feriti, mancanza di acqua potabile, elettricità e di strade percorribili.
Medico legale e attivista per i diritti umani, anche Sebnem a ottobre 2022 è stata arrestata e ha passato tre mesi in carcere. Invitata in un programma di una tv pro-curdi aveva dato un parere medico confermando che le reazioni dei corpi che si vedevano in un video relativo a un attacco alla popolazione curda da parte di forze governative, indicavano l’utilizzo di armi chimiche.
Erdogan l’ha accusata di cospirare coi terroristi e pochi giorni dopo è stata arrestata. Ancora oggi ricorda con lo sconcerto negli occhi, della quantità di forze dell’ordine presenti al processo, come fosse la persona più pericolosa della Turchia, proprio lei che lotta per prevenire ogni forma di violenza.
Con le elezioni dello scorso maggio in molti dell’area democratica speravano in un cambiamento, tra questi la sociologa e scrittrice Pinar Selek: “Abbiamo sperato in un miracolo, io e i miei amici, ma il miracolo non è avvenuto. Sapevano quanto fosse difficile che Erdogan perdesse, complice il monopolio dei media, l’incessante propaganda, ma per un momento abbiamo sperato”.
Anche Pinar è sotto processo in Turchia. Arrestata e torturata nel 1996 perché aveva fatto una ricerca per l’università sul Pkk e non aveva voluto rivelare i nomi delle presone intervistate, ancora oggi è alle prese con una lunga vicenda giudiziaria e le accuse di essere una terrorista.
Il presidente turco ha chiesto alla Francia, Paese dove Selek si è rifugiata, la sua estradizione. Il prossimo 29 settembre il tribunale emetterà la sentenza definitiva che potrebbe essere ergastolo aggravato. Il che significherebbe impossibilità di ricevere la grazia e detenzione in isolamento totale.
La questione curda guida ancora oggi la politica del Paese segnato in modo dominante dal nazionalismo, supportato anche da frange estremiste che appoggiano il “sultano”. Non a caso nel discorso della vittoria Erdogan ha esortato il popolo a unirsi “attorno ai sogni a agli obiettivi della nazione” così come ha ribadito che tra le priorità c’è un “rafforzamento della lotta al terrorismo”.
“Prima dell’avvento di Erdogan in prigione c’erano 35mila persone, ora ce ne sono circa 100mila, complice anche il discusso colpo di stato del 2016 e le detenzioni legate alle proteste di Gezi Park”, racconta Pinar Selek .
Ciò che è accaduto a Gezi Park è l’emblema di quanto si può spingere oltre la repressione il governo turco. Un anno prima degli eventi di Kobane, nel giugno 2013, alcuni ambientalisti sono scesi in piazza dopo che il governo aveva dato il permesso per costruire un centro commerciale e una caserma militare nel parco. Questo avrebbe fatto venir meno una delle rare aree verdi rimaste nel cuore di Istanbul.
Da semplice manifestazione in pochi giorni diventò una vera e propria occupazione con migliaia di persone. La polizia ha più volte attaccato i manifestanti, che hanno resistito per tre mesi. Il costo è stato altissimo: 11 morti, 8.163 feriti, centinaia di arrestati tra cui architetti, professori, giornalisti che sono ancora oggi in prigione.
Ci racconta quei giorni l’attivista Deniz Ozgur. Il suo nome in italiano significa mare libero. Accetta di incontrarci al parco di Gezi oggi presidiato dalla polizia. Ci sediamo al tavolo di un chiosco.
Parliamo da pochi minuti quando si avvicina un uomo con gli occhiali scuri che ci guarda di continuo. Quando si accorge che l’abbiamo notato, cambia tavolino e smette di guardare, ma resta la sensazione che ascolti. Lo indichiamo a Deniz e lui conferma: “Sì, ci starà ascoltando, ma per me non è un problema”.
Deniz è amareggiato per le persone in carcere, per l’ostilità con cui il governo si pone nei confronti dei cittadini privando o limitando le loro libertà personali, negando loro spazi pubblici che oggi sono chiusi da transenne e presidiati dalla polizia per prevenire manifestazioni di dissenso.
È chiusa la piazza adiacente a Gezi Park e anche piazza Galatasarai, dove per più di due decenni si sono riunite le “madri del sabato”, un gruppo di madri, figli e figlie di persone che sono scomparse tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. I terribili anni successivi al golpe militare del 1980 ad opera del generale Kenan Evren.
Si trattava soprattutto di ragazzi e uomini che venivano ritenuti vicini alle posizioni del neonato partito curdo dei lavoratori (Pkk). Una volta arrestati dalla polizia, entravano nell’oblio. Pian piano negli anni le persone che scendevano in piazza il sabato sono diventate migliaia.
Quelle manifestazioni erano un simbolo della lotta per i diritti umani in un Paese in cui la libertà di espressione è sotto attacco di continuo. Tanto che dal 25 agosto 2018, le madri del sabato sono interdette da Galatasarai. Era il 700esimo sabato di protesta, la polizia arrestò e picchiò i manifestanti tra cui le madri anziane. Tutte sono oggi sotto processo per aver “attentato alla sicurezza nazionale”. Da quel giorno piazza Galatasarai è blindata ed è presidiata costantemente da pattuglie di polizia.
Il futuro della Turchia è ancorato al passato, tante le ferite inflitte negli anni dai governi che hanno sempre attuato una politica repressiva.
Al suo arrivo nel 2003, Recep Tayyip Erdogan aveva fatto promesse di democrazia sostenuto anche dall’Europa. Promesse che per molti attivisti sono state tradite. Nessuna svolta in vista oggi, per il Paese cerniera tra Oriente e Occidente.
Erdogan lo scorso 28 maggio è stato riconfermato per la terza volta presidente della Turchia, nonostante la profonda crisi economica e un’inflazione senza precedenti. Si appresta a governare per altri cinque anni. Nemmeno Kemal Ataturk, fondatore della patria e della Repubblica, della quale proprio quest’anno si celebra il centenario, aveva guidato il Paese per un tempo così lungo.
“Il governo di Erdogan aveva fatto promesse di democrazia. Era anche sostenuto dall’Europa. Ma quando si è allineato alla linea nazionalista dello Stato profondo ha ricominciato con tutti questi metodi”, conclude Selek. “Ci sono molte persone in prigione che non hanno nemmeno letto il loro atto d’accusa ed è davvero difficile riuscire a difendersi in queste condizioni. Molte persone che manifestano anche solo una volta, che dicono no, che fanno una domanda, si trovano in processi kafkiani, si trovano in film dell’orrore”.
“Sapere che questo orrore continuerà ci rende un po’ più deboli. Quando sei stato rinchiuso per molto tempo, hai bisogno di speranza e ora la speranza appare un po’ lontana. Per questo abbiamo sempre più bisogno della solidarietà internazionale”.
Il reportage “La piazza negata” di Chiara D’Ambros e Tommaso Javidi, andrà in onda lunedì 14 agosto, quarta puntata del programma “Il Fattore Umano” alle 23.30 su Rai3.