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Reportage TPI – La rabbia e l’odio dei giovani palestinesi in Libano

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

La mancanza di lavoro, istruzione e diritti. L’impossibilità di costruirsi un futuro e lo sdegno per la guerra a Gaza. Siamo entrati nel campo profughi di Shatila per capire come i gruppi armati guadagnano consensi e reclute

La sera del 27 maggio migliaia di rifugiati palestinesi di ogni età si riunirono in tutto il Libano per protestare contro il massacro compiuto la sera prima nella tendopoli di Rafah, che ha scatenato una condanna globale. Decine di civili sono stati bruciati vivi dagli attacchi aerei israeliani mentre cercavano rifugio dai bombardamenti nel sud della Striscia di Gaza.

In quella serata luttuosa i manifestanti si sono accalcati per le strade di Shatila, il campo profughi palestinese tristemente noto per essere stato il centro del brutale massacro del 1982, durante il quale le milizie falangiste libanesi, sostenute dalle forze armate israeliane (Idf), uccisero a sangue freddo migliaia di palestinesi – bambini, donne, anziani e uomini disarmati.

Kazem Hasan, il vice leader di Fatah nel campo di Shatila, parlò alla folla chiedendo giustizia per i loro fratelli e sorelle di Gaza, affermando eloquentemente che «il sangue palestinese è uno solo, e stiamo sanguinando tutti insieme».

Frustrati
Durante un’altra protesta, in cui studenti e giovani chiedevano alla loro università di tagliare tutti i legami con le aziende da boicottare, Qamar, 20 anni, rifugiata palestinese la cui famiglia è originaria di Akka, ci ha raccontato che «prima del 7 ottobre i palestinesi in Libano avevano perso ogni speranza di tornare. Dopo quella fatidica giornata, però, una scintilla ha riacceso la rabbia generazionale e il desiderio di stabilirsi nella loro terra con ancor più vigore».

Fayyad, 20 anni, un altro studente e rifugiato palestinese, ha aggiunto che persino coloro che in passato si erano dichiarati contrari o neutrali di fronte alla resistenza armata, ora la sostengono incondizionatamente. «È l’unico modo per far sentire la nostra causa: dopo decenni di sforzi diplomatici e politici ignorati, la nostra frustrazione si è accumulata e ora, con il genocidio a Gaza, è imperativo sostenere la resistenza a qualunque costo».

Mentre il mondo osserva da lontano il massacro nella Striscia, i rifugiati palestinesi in Libano ne sono particolarmente colpiti. Da un lato, sono costretti a guardare impotenti mentre le proprie famiglie vengono decimate senza poter intervenire. Dall’altro lato, vivono da decenni in un limbo di diritti in un Paese che non li riconosce come cittadini. Da ottobre, la gioventù palestinese è sempre più esposta al rischio di radicalizzazione, trovando conforto contro la disillusione nella scelta di arruolarsi. Come ha sottolineato la direttrice in Libano dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), Dorothee Klaus, «dal 1948 non ci sono stati progressi nel riconoscimento dei diritti dei rifugiati palestinesi in Libano». «Gli eventi del 7 ottobre hanno galvanizzato la comunità, dando vita alla percezione di poter aspirare a uno Stato con diritti civili e politici», ha sottolineato Klaus. «Questa frustrazione alimenta il reclutamento da parte di gruppi militanti, che convincono i giovani che la lotta armata sia preferibile alla loro attuale situazione politica senza orizzonti».

Abbiamo trascorso diversi giorni esplorando la realtà materiale e psicologica dei rifugiati palestinesi in Libano, concentrandoci sulle difficili condizioni di vita nel campo di Shatila, considerato uno dei siti Unrwa più disastrati. Mahmoud Al Hanafi, professore palestinese di diritti umani e diritto internazionale, ha descritto l’Unrwa come «un organo vitale, un “polmone” per la sopravvivenza dei rifugiati palestinesi». Tuttavia, dal momento che gli Stati Uniti, il principale donatore dell’Unrwa, hanno interrotto i loro contributi fino ad almeno il marzo 2025, l’agenzia delle Nazioni Unite è costretta a implementare misure di austerity per evitare un collasso totale. A ciò si aggiunge che nel febbraio scorso sedici Paesi donatori hanno sospeso (e poi in gran parte ripristinato) i finanziamenti a seguito di una serie di accuse da parte del governo israeliano riguardo presunti legami di dodici impiegati dell’Unrwa (su un totale di 33mila dipendenti) con Hamas – accuse ancora da provare, nonostante sia l’Unione europea che l’Office of Internal Oversight Services dell’Onu stiano investigando da mesi. Così, mentre i pochi fondi rimasti vengono indirizzati alla catastrofica crisi umanitaria di Gaza, le già precarie vite dei rifugiati palestinesi in Libano, la maggior parte dei quali vive al di sotto della soglia di povertà, sono messe a rischio.

Nella giungla di cemento
Nella zona a sud di Beirut, Shatila ospita circa 35mila residenti in soli 0,68 chilometri quadrati. Fondato nel 1949, il campo era destinato, come molti altri, a offrire un rifugio temporaneo ai palestinesi costretti a fuggire dopo la Nakba. A distanza di settantacinque anni, i residenti di oggi sono i discendenti di coloro a cui fu promesso il diritto al ritorno in Palestina.

Le condizioni di vita a Shatila sono estremamente gravi. Il campo, limitato ai confini del 1949, ha visto la sua popolazione aumentare di quasi il 1000 per cento, costringendo gli abitanti a costruire in altezza anziché in larghezza. Il risultato è una giungla di cemento, con edifici sovrapposti così strettamente che la maggior parte delle strade è sufficiente a malapena per il passaggio di una sola persona. Gli appartamenti sono spesso privi di ventilazione e di luce solare. Kazem Hasan, vice leader di Fatah nel campo, ha descritto l’acqua corrente come «acqua salata senza pesci», a causa della sua alta salinità e impurità. I cavi per l’irrigazione, l’elettricità e le telecomunicazioni sono spesso ammassati in modo disordinato, causando ogni anno incidenti mortali per folgorazione. Senza un’autorità governativa libanese nei campi, non ci sono controlli infrastrutturali né un sistema adeguato di smaltimento dei rifiuti. Solo alcuni impiegati dell’Unrwa con contratti giornalieri si occupano di raccogliere l’immondizia che invade le strette e claustrofobiche stradine del campo. La maggior parte dei bambini, che costituiscono la maggioranza della popolazione, frequenta le scuole locali dell’Unrwa, ma queste soffrono della carenza di finanziamenti e le aule affollate contengono una media di 40 studenti ciascuna.

Abbiamo parlato con Jamal Husseini, un medico impegnato incessantemente all’interno di Shatila nel fornire servizi medici di base ai residenti del campo. Husseini ha studiato medicina a Cuba negli anni Ottanta grazie a un accordo bilaterale tra l’Olp e Fidel Castro, ma può lavorare soltanto all’interno dei campi palestinesi a causa delle restrizioni imposte dalla legge libanese. Ci ha descritto le condizioni estremamente precarie in cui vivono i bambini nei campi, con gravi problemi di malnutrizione dovuti alla mancanza di mezzi economici per ottenere «cibo reale, non merendine confezionate». L’ambiente architettonico claustrofobico dei campi impedisce al sole di entrare, mentre l’eccessivo affollamento e la putrefazione dei rifiuti favoriscono la diffusione di batteri, causando una serie di malattie spesso fatali.

Inoltre, come evidenziato anche da Dorothee Klaus, l’aspetto più devastante è il progressivo deterioramento della salute psicosociale nel campo. «Non possiamo misurare quantitativamente la depressione e la salute mentale nei campi», ha spiegato Klaus, «ma l’aumento della violenza tra milizie armate e faide familiari, insieme agli elevati tassi di abbandono scolastico, dimostrano chiaramente che la mancanza di speranza è la malattia più contagiosa e difficile da combattere».

Senza prospettive
La tragica situazione è ulteriormente complicata dalla quasi totale impossibilità per i palestinesi di costruirsi un futuro al di fuori dei campi. Il Libano ospita circa 250mila rifugiati palestinesi, privi di qualsiasi diritto civile e politico fondamentale. Il professor Al Hanafi ci spiega che le rigide restrizioni impediscono ai palestinesi di accedere a una libertà economica, vietando loro di praticare circa 40 professioni al di fuori dei campi, tra cui medicina, legge e ingegneria. Di conseguenza, molti ragazzi abbandonano la scuola in giovane età, rendendosi conto che l’unica possibilità di perseguire i loro interessi professionali sarebbe emigrando, un’opzione spesso irraggiungibile o pericolosa, come dimostrò il mortale naufragio dell’estate 2022 di un’imbarcazione carica di migranti partiti dal Libano.

Ciò ha spinto la maggioranza dei residenti a cercare lavori giornalieri a basso salario, che offrono poca o nessuna sicurezza economica alle loro famiglie. In alcuni casi estremi, famiglie come quella di Ahmed Zammar, un rifugiato palestinese originario di Yafa e padre di quattro figli, dipendono dalle donazioni trimestrali di 50 dollari dell’Unrwa per sopravvivere. Tuttavia, a seguito della decisione degli Stati Uniti di interrompere le loro donazioni, l’Unrwa è stata costretta a ridurre gli aiuti finanziari a 30 dollari, ovvero 10 dollari al mese.

Ahmed lavora come falegname con contratti giornalieri e vive con la sua famiglia e i suoi genitori in un appartamento di 20 metri quadrati, privo di finestre e ventilazione. «Ogni giorno è una nuova sfida», confessa. «Mi sveglio ogni mattina sperando di trovare un modo per portare il pane a casa».

Lo status politico e amministrativo dei campi dell’Unrwa è particolare, poiché né il governo libanese né le sue forze di sicurezza hanno autorità su di essi, e l’Unrwa stessa non possiede alcun potere politico. Klaus spiega che questa mancanza di soluzioni amministrative formali pone un onere significativo sull’Unrwa, che deve operare in totale neutralità su richiesta dei suoi finanziatori. Tuttavia, ciò è difficile nei fatti perché il 98 per cento del personale dell’Unrwa è composto da rifugiati palestinesi, mentre il panorama politico instabile all’interno dei campi, con varie fazioni palestinesi che se ne contendono il controllo, richiede all’Unrwa di svolgere un ruolo di mediazione e consulenza politica.

Inoltre, data l’illegalità dei campi, Shatila – unico tra quelli palestinesi in Libano – ha visto un significativo cambiamento demografico: il 60 per cento dei suoi residenti sono ora migranti siriani fuggiti dalla guerra civile, i quali sono considerati illegali nel Paese e quindi non possono ricevere assistenza dall’Unhcr. Si nascondono a Shatila per sfuggire alle autorità. Questa mancanza di potere politico-amministrativo ha trasformato Shatila in un luogo in cui la criminalità è diffusa, dove gli spacciatori si recano appositamente per operare indisturbati nell’ombra, aumentando l’anarchia e l’insicurezza per i residenti.

Le conseguenze del massacro
Kazem Hasan è nato a Gerusalemme negli anni Cinquanta ed è dovuto fuggire dalla Palestina nel 1979 dopo aver subito persecuzioni a causa del suo impegno politico con Fatah. Prima di diventare un rifugiato in Libano, Hasan era un insegnante di matematica e fisica e aveva progettato di lasciare la sua patria solo per un breve periodo, in attesa che le cose migliorassero. Quarantacinque anni dopo, continua a sperare in un ritorno, mentre vive incollato allo schermo per seguire le notizie da Gaza e dalla Cisgiordania, trovando ombre di speranza nei tentativi di liberazione dei suoi compagni palestinesi in patria.

«Quando è successo il 7 ottobre, tutti sono rimasti sbalorditi». Sebbene Hasan sia personalmente contrario all’uccisione di bambini, perché crede che l’infanzia e la maternità siano sacre e non dovrebbero essere coinvolte in politica, ritiene che quanto è accaduto abbia portato la questione palestinese al centro dell’attenzione, come mai prima d’ora. All’interno di Shatila e in tutti i campi libanesi ci sono diverse fazioni politiche palestinesi (Olp/Fatah, Hamas, Resistenza Islamica, ecc.), e mentre prima del 7 ottobre queste fazioni erano spesso in conflitto, Hasan sostiene che questa nuova coscienza collettiva abbia ricordato ai palestinesi che l’unità debba essere sempre preferibile alla divisione.

Zeinab al Hajj è coordinatrice delle attività di supporto psicosociale per donne e bambini nel campo profughi di Shatila. Dedica le sue giornate a svolgere tre lavori e a cercare instancabilmente assistenza sociale per coloro che ne hanno bisogno. Nel corso degli anni, ha aiutato oltre mille studenti palestinesi in Libano a ottenere borse di studio per proseguire gli studi superiori, coprendo i costi necessari. Il suo impegno le ha guadagnato riconoscimento e gratitudine nella comunità del campo, dove è apprezzata per la sua gentilezza e il suo duro lavoro. Zeinab mi ha raccontato che, mentre lavora con i bambini, li sente spesso descrivere i video orribili ed espliciti sui bambini uccisi a Gaza ai quali sono esposti dai social media. Questa esposizione li porta a formulare espressioni ingenue come quella di voler «avere una loro vendetta»

Lei li dissuade, pur comprendendo che questa reazione è una naturale conseguenza alla normalizzazione alla violenza in cui sono stati immersi tutti i palestinesi a partire dalla Nakba e poi da tutte le stragi che ha compiuto Israele nei loro confronti. Zeinab, non schierata con Hamas, nemmeno da un punto di vista religioso, si sente obbligata, in quanto palestinese, a sostenere la resistenza in qualsiasi forma in questi tempi difficili. «Le azioni di Israele piantano semi di odio, rendendo il bisogno di resistere una conseguenza quasi inevitabile e universale della lotta in corso. Gli ultimi otto mesi di guerra genocida hanno creato la base per un odio ancora maggiore contro Israele. La retorica della violenza diventa sempre più popolare, mentre i palestinesi vedono il loro diritto ad avere uno Stato promosso solo da gruppi di militanti». 

Rimane un barlume di speranza nei più piccoli, nei bambini che hanno ancora il privilegio di essere protetti dalla disillusione della realtà. I bambini di Shatila, quando viene chiesto loro cosa vogliono fare da grandi, rispondono, come in qualsiasi altro posto al mondo, «Il dottore! Il veterinario! Voglio fare la mamma!». Ma la maggior parte di loro dice anche: «Voglio liberare la Palestina». 

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