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Home » Esteri

Reportage TPI – Viaggio a Jenin: dentro la piccola Gaza della Cisgiordania

Immagine di copertina
Credit: AGF

Qui si combatte da molto prima del 7 ottobre. Tanto che il cimitero è stato ampliato per seppellire gli adolescenti uccisi negli scontri con l'esercito israeliano. In città sempre più giovani lasciano gli studi e il lavoro per imbracciare il fucile. L’alternativa è la morte o il carcere

Le colline attorno a Jenin sono cambiate rispetto a 20 o 30 anni fa, il verde degli ulivi ha lasciato il passo al bianco delle case in cemento armato, tutte squadrate, che formano le colonie.

Dalla pianura dove nasce la città sono ben visibili, così come lo è il Monte Carmelo che nasconde la città da dove provengono in molti: Haifa. Dalla Nakba del 1948 i loro padri e i loro nonni hanno lasciato le case forzati dall’esercito del neonato Stato d’Israele. Chi è andato in Libano, chi a Jenin, altri ancora hanno proseguito verso la Giordania. Da quel giorno sono profughi di uno Stato che non esiste, quello palestinese. Chi vive a Jenin o in Cisgiordania e aveva un permesso di lavoro almeno poteva andare a vedere cosa c’era dietro quel muro, gli altri no, soprattutto chi vive all’estero e non ha il diritto al ritorno.

Sessanta chilometri di distanza tra Haifa e Jenin che però sembrano un universo, oltre il muro di separazione c’è quella che viene definita l’unica democrazia del Medio Oriente, nata però sulla terra altrui.

Il cuore degli scontri
Mentre ci avviciniamo alla città i check point chiudono strade, ne deviano altre. «Dopo il 7 ottobre non sappiamo mai dove sono e quanto dureranno», ci dice un automobilista che sta facendo inversione di marcia: quella via a doppio senso che collega diversi centri abitati oggi è a senso unico, non quello che stiamo percorrendo noi. L’alternativa è cambiare strada, allungare di almeno 40 minuti e sperare che anche quella non sia chiusa.

Jenin non è una città come le altre, Jenin è il cuore della resistenza che dal 2021 al 2023 ha sostituito nelle cronache Gaza anche grazie alla strategia di Hamas, far calare il silenzio, assopire un conflitto per poi attaccare all’improvviso all’alba del 7 ottobre 2023. In quel silenzio Jenin, Nablus, Tulkarem sono diventate centrali, con raid israeliani sempre più frequenti e con una radicalizzazione del conflitto, e dei giovani, sempre più forte. Tanto che Jenin viene chiamata la piccola Gaza.
«Mio fratello faceva il pittore in Israele, non aveva mai militato in nessuna organizzazione ma un giorno ha deciso di diventare un combattente e in quel momento è come se un pezzo di lui fosse morto, perché quella strada è a senso unico». Ahed è la sorella di un “martire”, di un ragazzo morto con un fucile in mano e sepolto con una lapide dove foto e parole ricordano il suo sacrificio per quella terra. Suo fratello si chiamava Yusuf ed è morto poco più di un anno dopo aver scelto quella strada che Ahed sapeva essere con una sola via d’uscita: il martirio.

Nella loro casa c’è un piccolo altare dedicato a Yusuf. Ci sono foto di quando era bambino un po’ sbiadite, altre con la divisa delle “Brigate Jenin” e un Kalashnikov in mano, altre ancora all’università. I tanti Yusuf che in poco più di 20 anni di vita hanno coabitato in una sola persona, che ha vissuto in un luogo pieno di contraddizioni che spinge anche le persone a esserlo.
«Ha scelto di combattere dopo che un suo caro amico è morto in un raid israeliano, non era il primo che moriva per colpa degli occupanti ma a lui era particolarmente legato», ci racconta Fatimah che aggiunge: «Un giorno mi ha detto: “Mamma ma io come faccio ad andare all’università ogni giorno mentre attorno a me tutti muoiono”. Pensava mi sarei arrabbiata, pensava che avrei tentato di fargli cambiare idea ma qui sappiamo che il destino dei giovani è questo: martiri per la nostra terra».

La serenità con la quale racconta la sua storia è destabilizzante, forse è una maschera o forse davvero crede in quello che sta dicendo. Fatimah prende una busta di plastica da sotto l’altare, la apre e dentro ci sono delle scarpe da ginnastica quasi completamente distrutte. «Indossava queste, c’è ancora il suo sangue…», ci dice mentre Ahed si alza.
La mamma invece resta seduta accanto all’altare di Yusuf, ha un drappo bianco in mano, è macchiato di sangue, diventato ormai marrone. Sono passati più di 3 mesi dalla morte del figlio e quel sudario lo custodisce gelosamente, lo stringe a sé e lo avvicina al volto come a cercare un odore ormai svanito che gli ricordi suo figlio. La donna imperturbabile di poco fa è sparita davanti a un ricordo tangibile del figlio.

Un’unica prospettiva
Ahed ci precede tra i vicoli del campo profughi, uno dei luoghi più controllati al mondo da due fazioni al tempo stesso: chi lo difende come fosse il forte Apache e chi da fuori ogni notte entra armato per uccidere e arrestare. Quelli che difendono il campo profughi ci si materializzano davanti all’improvviso: sono cinque, tutti armati. Parlano fitto con Ahed, lei è la sorella di un loro martire e questo ci apre la strada.

«Non vogliamo foto e non vogliamo dirvi i nostri nomi ma se volete possiamo parlare», esordisce quello che deve essere il capo. Sono tutti giovanissimi, il leader è alto un metro e ottanta, moro con i capelli ricci, una faccia come molte di quelle che si vedono in Palestina. Era un muratore ma dopo il 7 ottobre il suo permesso di lavoro in Israele è stato annullato, come quello di tutti i palestinesi, e oggi passa le notti a sparare in queste vie. La vita negli ultimi mesi è come se si fosse fermata e quello che non riescono a fare i raid notturni lo fa la fame: qui quasi più nessuno lavora, l’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) prima era importante come sostegno, oggi è diventata indispensabile per tutte le famiglie del campo. La massa di lavoratori e lavoratrici che ogni giorno passano il muro per guadagnarsi lo stipendio oggi sono bloccati in un limbo dal quale non sembra sia possibile uscire.

«Siamo nati sapendo che avremmo dovuto fare questo e da alcuni anni è un destino inevitabile per tutti», ci racconta. Yusuf era suo amico, sono quasi coetanei e uno di loro mi mostra il fucile del fratello di Ahed. «Non ne abbiamo a sufficienza per tutti, sappiamo però che quando uno di noi muore il fucile viene raccolto da un altro». Hanno lo sguardo fiero nonostante la giovane età, qui al campo di Jenin si cresce in fretta e difficilmente si ha nitido il primo ricordo dell’esercito israeliano perché la presenza dei soldati è una costante, si cresce in una battaglia perenne.

«L’ultima incursione è finita appena tre ore fa, hanno arrestato un ragazzo in una casa poco più su in collina ma i combattimenti andavano avanti da tutta la notte», aggiunge un secondo ragazzo, anche lui armato. Hanno le facce assonnate ma il loro compito, anche di giorno, è presidiare le vie d’accesso dove ci sono anche i cavalli di frisia posizionati al centro della strada.

Da un video che ci mostra Ahed riconosciamo la strada nella quale stiamo camminando solo che sullo schermo c’è un fuoristrada blindato dell’esercito israeliano e dei soldati che sparano e avanzano. Ahed indica un punto, è suo fratello Yusuf che spara da dietro la colonna di un palazzo dove ci troviamo noi in questo momento. «Avanzavano ma non capivano da dove arrivassero i colpi, è riuscito a tenerli lontani per un po’, fin quando non hanno capito da dove arrivavano gli spari», racconta mentre proseguono le immagini. Quando Yusuf ha capito di essere stato scoperto, ha corso ma lo hanno colpito alle spalle. Nonostante questo si è trascinato per le scale che Ahed ci mostra e ci fa percorrere, lei rivive ogni momento, ogni passo, fino al punto in cui c’è un buco a terra: «Qui è dove è esplosa la bomba stordente, proprio sul suo piede… Poi si è trascinato fino a lì», ci dice indicando la fine della seconda rampa di scale. La pozza di sangue è ancora evidente ma quello che si nota maggiormente sono i muri crivellati: i soldati hanno sparato centinaia di colpi, qualche decina di questi ha colpito e ucciso Yusuf, gli altri sono andati a vuoto.

Nel dettagliato resoconto di Ahed si inseriscono tre ragazzi giovanissimi, avranno tra gli 11 e i 13 anni. Ci seguono, sono curiosi, hanno ascoltato il racconto di Ahed anche se già lo conoscevano a memoria. Chiedono da dove veniamo e che lavoro facciamo. Hanno la curiosità dei bambini. Quando gli chiediamo cosa vogliono fare da grandi la risposta arriva in coro e senza indugi: i combattenti e, aggiungono, tra 10 o 15 anni saranno martiri anche loro. Anche loro ci mostrano un video su di uno smartphone: imbracciano un fucile di legno e insieme ad altri quattro ragazzini si addestrano su come aprire una via durante un combattimento o su come difendersi in caso di attacco. Sorridono, da una parte è un gioco, dall’altra è emulazione dei loro fratelli o cugini più grandi. «Vedete, qui è l’unica prospettiva che abbiamo», ribadisce Ahed.

L’alternativa
Il campo profughi di Jenin è uno dei pochi luoghi dove si combatte tutti insieme a prescindere dall’appartenenza politica: Hamas, Jihad Islamica, Fatah o Fronte Popolare, i combattenti collaborano, non solo negli scontri a fuoco ma anche nelle fasi di addestramento. Il mantra qui è: “Meglio martire che in carcere”, perché se anche prima del 7 ottobre 2023 le condizioni di migliaia di palestinesi nelle carceri non fossero buone, oggi è un inferno. Non c’è più modo di comunicare con chi sta dentro, i pochi che escono hanno perso la metà del peso e raccontano di torture continue. Su un muro del carcere di Neve Tirtza c’è una scritta, che recita: “Benvenuti nel macello di Neve”.

Per comunicare con i carcerati c’è solo un modo: mandare dei messaggi a una radio di Ramallah che in alcune ore del giorno li legge nella speranza che i destinatari abbiano una radio per riceverli. «Prima del 7 ottobre ce ne erano molti, oggi solo una radio ogni quattro o cinque celle, però chi è uscito dice che fanno il passaparola e in qualche modo arriva», racconta Marwa, una giovane donna di 27 anni che fino a pochi mesi fa abitava nella casa accanto a quella di Fatimah e Ahed. «Mio fratello è un martire, è stato latitante per due anni e gli israeliani irrompevano spesso a casa nostra nel cuore della notte perché pensavano di trovarlo, un giorno dopo aver rotto tutto hanno arrestato mio marito, dato fuoco alla casa e poi hanno fatto saltare in aria anche le mura», racconta ancora Marwa mentre siamo proprio su quello che una volta era il tetto di casa sua. Lei oggi è tornata a casa dei genitori, sempre nel campo profughi di Jenin, e sta crescendo suo figlio di appena due anni da sola.

Suo fratello è stato trovato pochi mesi dopo a casa di un miliziano di Hamas e sono stati uccisi entrambi. «Siamo di Hamas, non lo abbiamo mai nascosto, noi vogliamo la liberazione della Palestina dal fiume al mare. Qui combattiamo contro il resto del mondo, siamo soli ma abbiamo i nostri figli», aggiunge Marwa mentre prende in braccio suo figlio che ha un nome evocativo: Qassam, come Izz al-Din al-Qassam, il combattente jihadista ucciso nel 1935 proprio a Jenin dalle forze britanniche e ispiratore del braccio militare di Hamas nella Striscia di Gaza. 

Ogni giorno Marwa manda un messaggio alla radio di Ramallah ma di suo marito non ha notizie e non ci sono udienze in vista: il fermo viene prolungato di volta in volta da più di un anno e questa procedura potrebbe durare anni. «Spero che un giorno esca per riabbracciare nostro figlio ma l’idea che possa restare a Neve Tirtza per altri anni mi fa star male al solo pensiero».

Jenin e in particolare il suo campo profughi sarà il cuore della resistenza anche dopo la fine della guerra a Gaza. Negli ultimi anni sempre più giovani hanno lasciato gli studi e il lavoro per imbracciare il fucile e sempre più giovani vengono uccisi.
Uscendo dal campo si apre uno spiazzo con un muro di cemento piuttosto recente, è il nuovo cimitero creato perché i martiri avevano riempito il vecchio. Le date di nascita e di morte confermano che qui si muore giovani e le foto e le effigi sulle lapidi dicono che sempre più persone muoiono per combattere contro Israele. 

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