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Home » Esteri

Reportage TPI – Non solo Gaza: viaggio nell’altra guerra ai palestinesi nei Territori occupati di cui nessuno parla

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Invadono le case con le armi spianate, minacciano le persone e le obbligano a fuggire. Da quattro mesi il mondo è concentrato solo su Gaza. Ma dal 7 ottobre sono aumentate le violenze anche in Cisgiordania, dove ormai una Terza Intifada sembra dietro l’angolo

Mentre l’attenzione del mondo è concentrata sulla Striscia in Gaza, il 7 ottobre, o quello che ora viene ricordato come il «Black Shabbat», ha fornito un’occasione irripetibile ai coloni israeliani per intensificare la repressione nella West Bank, dove da quattro mesi si registrano livelli di violenza senza precedenti e dove una Terza Intifada sembra ormai dietro l’angolo. 

Una città fantasma
La città di Hebron, nel sud della Cisgiordania, racchiude tutta la bellezza e le contraddizioni di queste terre infuocate. Ritenuta il luogo natale del patriarca Abramo e centro millenario di commerci, è un perfetto esempio del recente inasprimento tra le comunità e del progressivo contesto di apartheid che ha preso piede. Caso unico ad ospitare insediamenti al suo interno, con il “protocollo di Hebron” dal 1997 la città è stata divisa in due zone: l’H1 dove vivono 250mila palestinesi, e l’H2, l’antico centro storico dove vivono 700 ebrei e 40mila palestinesi i cui spostamenti sono limitati, monitorati e sottoposti a rigidi controlli.

Dall’ottobre 2015 solo i residenti sono autorizzati ad attraversare a piedi il checkpoint di Shuhada Street, sulla vecchia strada del mercato. Nel 2019 l’esercito ha ampliato e potenziato l’infrastruttura del checkpoint, includendo una sala di osservazione, quattro cancelli girevoli e una sala di screening dotati di tecnologia Blue Wolf, un’intelligenza artificiale in grado di categorizzare gli individui in base alla loro pericolosità, in barba alle più elementari forme di privacy.

Coperta da sistemi di sorveglianza tecnologicamente avanzati che forniscono all’esercito israeliano un controllo totale con la minima presenza sul campo – sensori di movimento e calore, lettori di targhe, algoritmi di riconoscimento facciale, sorveglianza CCTV 24 ore su 24, 7 giorni su 7 – che coprono uno dei luoghi più contestati nei territori occupati, la Città Vecchia si è così trasformata nel tempo nella quintessenza della fantasia militarista e del capitalismo di sorveglianza algoritmica. Una volta cuore mercantile della West Bank, oggi il centro storico di Hebron somiglia a una vera e propria “ghost town”, dove centinaia di coloni e soldati ebrei erodono la vita sociale dei palestinesi infiltrandosi nelle loro case in un perimetro di pochi chilometri quadrati. 

Casa di Issa
La casa di Issa Amro si trova a Tal Rumeidah, un antico insediamento romano situato a ovest della Città Vecchia in cima a una collina – da cui il nome – coperto da campi verdeggianti di ulivi millenari; un luogo denso d’incanto compromesso dalla presenza costante dei soldati. Amro è uno storico attivista palestinese, cofondatore del gruppo Youth Against Settlements, l’organizzazione nata nel 2006 per contrastare l’espansione delle colonie israeliane attraverso la nonviolenza e la resistenza dal basso, e figura di riferimento di Breaking the Silence, una ong israeliana fondata da veterani nel 2004 per denunciare le violazioni compiute dai soldati in Cisgiordania, che raccoglie e pubblica testimonianze anonime di militari e organizzava tour a Hebron per mostrare gli effetti dell’occupazione.

Siamo i primi ad andare a trovarlo dall’inizio della guerra. Seduto all’ombra di un vecchio ulivo dentro il suo giardino appena recintato per difendersi dai continui attacchi dei vicini coloni, Amro racconta come molte cose siano cambiate dal 7 ottobre. «Quel giorno stavo rientrando a casa, ma i soldati israeliani mi hanno bloccato, minacciato e respinto, impedendomi di proseguire» racconta.

«Ho provato un altro percorso e una volta arrivato al mio giardino un altro gruppo di soldati mi ha fermato e arrestato. Sono stato ammanettato e dopo avermi bendato mi hanno portato in una base militare. Avevo le mani legate con delle fascette di plastica così strette da perforarmi i polsi. Mi hanno spogliato, rinchiuso in una piccola stanza su una sedia scomoda con l’aria condizionata puntata addosso al massimo e lì sono stato torturato e stuprato per dieci ore di fila. Mi sputavano addosso e mi scattavano foto mentre cantavano e festeggiavano come dei forsennati. Un soldato mi ha avvicinato due volte il pene al viso, poi mi hanno puntato una pistola alla testa e a quel punto mi son detto “è fatta”, pensando fossero i miei ultimi momenti. Ho perso conoscenza due volte senza ricevere cure mediche, poi mi hanno liberato. Per due settimane non hanno permesso a nessuno di avvicinarsi alla mia abitazione sbarrando l’ingresso principale, sono rimasto isolato e senza cibo. Dopodiché hanno posto la mia casa sotto sequestro per altri sedici giorni; adesso per tornarvi tutte le sere devo superare quattro posti di blocco e quasi ogni notte coloni e soldati attaccano non solo me, ma la maggior parte dei palestinesi che vivono qui intorno. L’esercito israeliano agisce come le milizie, ogni soldato ha la propria opinione e il proprio mandato politico, rendendo sempre più difficile la vita dei palestinesi. Ci sono incursioni nelle case, operazioni in città, la West Bank è frammentata senza continuità; mancano lavoro, scuole e università. C’è una guerra non annunciata in corso contro i palestinesi in Cisgiordania, accompagnata da espulsioni e una pulizia etnica, soprattutto nell’Area C e nell’H2 di Hebron. Abbiamo molto in comune con gli ebrei, veniamo dalle stesse radici. Ma loro hanno il potere, sono ben sostenuti e sono cresciuti con l’idea suprematista: “Noi siamo migliori di voi”».

Resistenza non violenta
Masafer Yatta è un’area montuosa dalle sfumature bibliche. Punto focale del conflitto israelo-palestinese, comprende 19 villaggi ed è situata a sud del governatorato di Hebron, nella cosiddetta Area C della West Bank – l’antica Giudea e Samaria – una delle zone più contestate dai coloni israeliani dalla fine della Guerra dei Sei giorni del 1967 – o la “Grande bugia” come la chiamano qui -, considerata territorio occupato dall’Onu e dalla Corte internazionale di giustizia. Nel villaggio di Tuwani si trova la sede storica del «Joint struggle center for arab jewish peace», il centro della resistenza non violenta arabo-israeliana, dove attivisti di nazionalità palestinese, israeliana e provenienti da tutto il mondo lottano da anni fianco a fianco contro alcuni degli insediamenti più estremisti, sfidando le armi a mani nude e facendo presenza protettiva nei villaggi.

Oriel Eisner, 33 anni, vive a Gerusalemme e lavora per un’organizzazione chiamata Center for Jewish non violence. Viene a Masafer Yatta dal 2016, dove coordina le delegazioni di attivisti ebrei che si uniscono alla resistenza locale. «Di solito portiamo gruppi di 40-50 persone per viaggi della durata di 9-10 giorni» racconta a TPI. «Gran parte del nostro focus qui è dedicato a tour, progetti lavorativi e azioni, ma adesso possiamo a malapena muoverci. La situazione non è mai stata così grave. Prima del 7 ottobre, l’esercito e i coloni operavano come due gruppi distinti, collaborando in modo coordinato. Ora invece i coloni sono stati arruolati come riservisti e prestano servizio nelle aree in cui risiedono. Sono state istituite anche squadre di sicurezza civile, dove i coloni hanno ricevuto armi, uniformi e attrezzature dell’esercito, lavorando in sinergia con i militari». Uno dei principali cambiamenti degli ultimi mesi consiste proprio nell’emergere di milizie di coloni-soldati che pattugliano i villaggi e causano problemi, creando situazioni spaventose in cui godono di una considerevole libertà d’azione e sfoggiano un atteggiamento di fanatismo, senza più ritegno», spiega Oriel.

Dal 7 ottobre sono state espulse quasi 40 comunità palestinesi dalla West Bank, molte delle quali nella Valle del Giordano e qui a Masafer Yatta. Alcune di queste composte da poche famiglie, altre da gruppi più grandi di 100-250 persone, costrette ad abbandonare le loro abitazioni a causa delle violenze e delle minacce dei coloni. «Quello che è cambiato nelle ultime settimane», prosegue Oriel, «è che la vita in Cisgiordania ora è completamente ferma. L’esercito ha messo blocchi stradali fuori dalle città e dai villaggi; il villaggio di Susia è bloccato da mesi, nessuno può entrare o uscire. I palestinesi hanno sempre più difficoltà ad arare la loro terra e far pascolare le loro pecore. Se in passato i coloni si limitavano alle molestie, e in seguito l’esercito interveniva ordinando alle persone di andarsene, ora sparano direttamente in aria o a terra verso chi passa. Proprio oggi i coloni hanno attaccato un pastore, l’esercito è intervenuto, gli ha sparato addosso e poi l’hanno arrestato; ieri è successo lo stesso a un altro gruppo di sette pastori: pascolare al di fuori del proprio villaggio adesso è considerato un reato e ora che la stagione della pastorizia è alle porte la resistenza si fa sempre più intensa, usciamo con loro il più possibile. Potrebbe essere un anno davvero difficile. Stanno impedendo a chiunque di spostarsi, e questo avrà un impatto economico enorme. Da mesi le persone non percepiscono più alcun reddito dal Quarantotto (Israele, ndr), è davvero una situazione disperata».

Avamposti agricoli
Per Oriel, Masafer Yatta è uno dei punti storicamente presi di mira dall’occupazione sin dagli anni Ottanta poiché è un’area relativamente accessibile da Israele, e dove si trovano alcuni degli insediamenti più violenti come Havat Ma’on. «Ma questa zona ha una lunga storia di resistenza, in particolare a Tuwani» sottolinea Oriel, «con storie e testimonianze incredibili di successi raggiunti nel tempo: abbiamo creato un piano urbanistico, messo l’elettricità, asfaltato le strade, costruito una scuola e una clinica medica. Tutto questo è stato possibile grazie alla resistenza non violenta. Ma negli ultimi tempi», prosegue, «c’è stato un cambiamento storico per il movimento degli insediamenti: in passato, pochi di questi avevano degli avamposti agricoli. Ora invece hanno capito che basta mettere un paio di coloni in cima a una collina, costruire una piccola fattoria, portare alcune pecore e con quelle possono conquistare tutta la terra che vogliono, con il sostegno dell’esercito e dell’amministrazione. Un cambiamento che negli ultimi anni ha avuto un impatto enorme». Solo a Masafer Yatta si trovano più di una dozzina di questi avamposti agricoli, che oggi occupano il 10 per cento della Cisgiordania, tutti nell’Area C. In questo modo le comunità che dipendono dalla pastorizia vengono distrutte e molte in questa zona ora sono completamente circondate. Si tratta dell’ultima arma dell’occupazione: molto efficace, molto più economica e in grado di sottrarre enormi porzioni di territorio ai palestinesi.

Sami Huraini, 27 anni, è un altro storico attivista palestinese di Masafer Yatta. Fa parte del Popular Struggle Coordination Committee, un’organizzazione che coordina la resistenza nonviolenta in tutta la Palestina, fondata prima da sua nonna Fatima al rientro dalla Nakba in Sudafrica e poi portata avanti negli anni da suo padre Afez. «Dal 7 ottobre, la Cisgiordania ha vissuto un drastico cambiamento che ha dato nuova autorità ai coloni israeliani, consentendo loro di intraprendere azioni più audaci per approfittare della situazione e acquisire ulteriori territori palestinesi» dice a TPI. «Nei progetti coloniali di Masafer Yatta, implementati fin dai primi giorni di guerra, si sono verificati episodi preoccupanti in luoghi come Tuwani e Harruba, dove vengono erette tende in cima alle colline per espandere gli insediamenti. I coloni, vestiti in uniformi militari, hanno iniziato ad invadere i villaggi con una violenza estrema, minacciando intere famiglie con armi da fuoco e intimando loro di lasciare le proprie case entro 24 ore; solo nelle ultime settimane si sono verificati episodi del genere a Susia e in altri cinque villaggi della regione.

Anche l’attività di costruzione di nuove strade come la “Green Line” per appropriarsi delle terre palestinesi», ci spiega Sami, «si è intensificata e i pastori locali, oltre a non poter pascolare, rischiano rapimenti e pesanti sanzioni pecuniarie. L’aratura delle terre è stata vietata da una decisione del tribunale, e la stessa restrizione si applica alla raccolta delle olive. I coloni, sostenuti dall’esercito, adesso sembrano avere carta bianca per agire indisturbati. Ma le violenze non riguardano solo i pastori, ci sono anche casi di incendi dolosi e demolizioni di abitazioni, che sono aumentate del 90 per cento da ottobre. 

Common struggle
La lunga storia di resistenza a Masafer Yatta ha assistito anche a fasi di violenza durante gli anni Ottanta e Novanta, ma dal 1999 gli attivisti hanno scelto di impegnarsi in azioni non violente per contrastare l’occupazione. «La nostra lotta si basa sulla convinzione che la presenza umana sul campo sia cruciale per proteggere la terra e resistere senza cedere alle provocazioni, prendendo ispirazione da figure come Nelson Mandela», sottolinea Sami. «La situazione attuale però, caratterizzata da nuovi crimini e violenze e che trova giustificazione nella data del 7 ottobre, fornisce all’esercito israeliano la scusa per commettere atti di genocidio e massacri. Tuttavia, va sottolineato come la causa principale di questa escalation di violenza sia l’occupazione stessa, un problema che persiste da oltre vent’anni».

La “common struggle” o lotta congiunta, è una relazione storica importante per la difesa di questi territori. La presenza di israeliani, palestinesi e stranieri, specie di fronte ai coloni-soldati, ha dimostrato di avere un impatto significativo in grado di dissuadere gli aggressori.  Inoltre, la comprensione da parte di molti israeliani della situazione e dei diritti palestinesi, unita al rifiuto di servire nell’esercito, rappresenta un segnale positivo in risposta all’occupazione sionista. Tuttavia la situazione post 7 ottobre rende difficile il dialogo, poiché la violenza e la repressione stanno raggiungendo livelli senza precedenti. Per Sami, «l’opinione pubblica del Quarantotto è influenzata da una percezione distorta della realtà, complicando ancor più la possibilità di un confronto costruttivo».

In questo contesto, la voce dei palestinesi, degli attivisti e delle persone coinvolte direttamente sul campo è cruciale per far conoscere al mondo la complessità della situazione e le sfide che la popolazione locale affronta ogni giorno.

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