Reportage TPI – L’urlo di Shatila: la rabbia e il dolore dei palestinesi nei campi profughi in Libano
Il campo profughi di Shatila, a Beirut, ospita quasi 20mila persone. Molti non sostengono Hamas. Ma tutti appoggiano “qualsiasi azione di ribellione contro l’occupazione” israeliana. Ecco le storie di chi lotta da 75 anni per tornare a casa e ora teme un’altra catastrofe umanitaria
«A Shatila i fili della luce che penzolano arrivano all’altezza della faccia». Lo dice Amena Al Madani, 22 anni, quando le viene chiesto di descrivere la vita in uno dei campi per profughi palestinesi più conosciuti di Beirut, in Libano. «È come muoversi in una ragnatela, devi guardare dove metti i piedi», continua. «A Shatila devi stare attento a non morire».
Nel campo di un chilometro per un chilometro vivono circa 20mila persone. È fatto di vie strette che si aggrovigliano in vicoli ancora più stretti, dove a volte il sole non arriva e la strada resta bagnaticcia. Si chiama campo, ma non ci sono tende. Sarebbe più giusto definirlo un quartiere, anche se chi lo abita non gode degli stessi diritti di un libanese.
Negli anni le tende si sono trasformate in palazzine. Mattone dopo mattone, Shatila è cresciuta. E con lei le persone arrivate qui dal 1948, insieme anno di nascita di Israele e Naqba, “catastrofe” per i palestinesi. Generazione dopo generazione.
«I miei bisnonni hanno lasciato la Palestina quando i miei nonni erano piccoli. Sono venuti a Shatila pensando di tornare a casa presto». Poi i loro figli sono cresciuti, si sono sposati e hanno avuto figli, che hanno avuto figli. Senza mai tornare.
Sentimenti contrastanti
Amena è una giocatrice di basket. Fa parte della squadra di Shatila, Basket Beats Borders, letteralmente “il basket abbatte i confini”, un progetto nato nel 2016 per promuovere lo sport come integrazione e alternativa, soprattutto per le giovani donne del campo.
Per i palestinesi non è facile uscire dal Libano, «ma grazie alla squadra, anche se non possiamo partecipare a competizioni ufficiali, abbiamo avuto la possibilità di viaggiare, anche in Italia», dice. «Oltre agli allenamenti, avevo iniziato a studiare fisioterapia, ma ho dovuto smettere per ragioni economiche», spiega. Così, oltre a giocare, Amena allena i bambini del campo due volte a settimana.
A Shatila non c’è spazio per un campo da basket, quindi ci si allena fuori, oppure all’ultimo piano di una palazzina dove un terrazzo è stato chiuso per ricavarne uno spazio per gli allenamenti. Non entra molta luce, ma è già qualcosa.
Quando Hamas ha lanciato la sua operazione contro Israele, il 7 ottobre, a Shatila si festeggiava «Tutti sono scesi in strada. Si distribuivano dolci e caramelle ai bambini», racconta Amena. Le strade strette si sono presto riempite di bandiere palestinesi che, con il passare dei giorni, si sono diffuse anche fuori dal campo. Fuori dal Libano e dal Medio Oriente. In Europa e negli Stati Uniti, nonostante le restrizioni imposte sulle manifestazioni a sostegno della Palestina.
Poi è subentrato il dolore per le immagini che arrivavano da Gaza, e il sentimento a Shatila si è spaccato. «Sono felice e profondamente triste allo stesso tempo», sintetizza Majdi Majzoub, 51 anni, per tutti “Captain Majdi”. Padre di tre e nonno di uno. Da lui e da due italiani è nata l’idea di Basket Beats Borders, di cui è anche istruttore sportivo. «Felice perché vedo un’azione di resistenza dopo molti anni, e addolorato per il prezzo che i palestinesi a Gaza stanno pagando. Viene chiesto loro di evacuare, ma non ci sono luoghi sicuri a Gaza e i confini restano chiusi», dice. Un po’ come in uno scenario distopico di Suzanne Collins e dei suoi Hunger Games. Solo che non è finzione.
Un secondo fronte?
Per Majdi, palestinese “della prima Naqba”, l’equazione è semplice: «Se non ci fosse un’occupazione, non ci sarebbe una resistenza». «Molti Stati europei hanno organizzato le loro resistenze al nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, perché per i palestinesi dovrebbe essere diverso?». «Più recentemente – continua Majdi – vedo la stessa cosa accadere in Ucraina, ma l’Occidente guarda con un occhio solo».
Come Majdi, sono tanti i palestinesi che non supportano Hamas, ma che non possono non supportare «qualsiasi azione di ribellione contro l’occupazione». Per molti, infatti, l’attacco di Hamas allo Stato di Israele che ha fatto più vittime israeliane che nei cinque anni della Seconda Intifada (2000-2005), ha rappresentato un nuovo atto di resistenza arrivato dopo tanto tempo. «Un nuovo giorno, una speranza per noi e per le future generazioni», dice Manar Shaamie, 41 anni, che lavora nel campo del sociale con un’associazione dedicata all’emancipazione delle donne.
Allo stesso modo, sono molti che non riconoscono il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, conosciuto come Abu Mazen. «Sarebbe anche il momento di aprire un nuovo fronte», dice Majdi, che non entra nelle dinamiche politiche libanesi, ma si riferisce alla Cisgiordania o West Bank. Quella zona a ovest del fiume Giordano amministrata dall’Anp dove la continuità territoriale palestinese è venuta meno e nell’area hanno cominciato a proliferare insediamenti israeliani, considerati illegali anche dalla comunità internazionale. Questo perché «quando avranno finito con Gaza, si occuperanno della Cisgiordania», dice.
Eppure, le nuove tensioni tra il gruppo armato e partito politico libanese Hezbollah e Israele esplose all’indomani dell’attacco di Hamas, rendono i 120 chilometri di confine tra il Libano e Israele il luogo più probabile nel caso di apertura di un secondo fronte. Più della Cisgiordania. «Ma una guerra sarebbe costosa e la situazione in Libano è già difficile», dice Majdi, sollevato che il tanto atteso discorso di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, non abbia innescato una guerra più ampia. «C’era timore per quello che avrebbe potuto dire, ma adesso siamo più tranquilli».
Attaccati alla tv
Ad un mese dall’inizio della guerra, il morale a Shatila è cambiato. «Si è ribaltato di 180 gradi», dice Amena. «Ci aspettavamo una reazione, ma non così». L’adrenalina iniziale ha lasciato spazio alla riflessione. Le celebrazioni sono diventate manifestazioni di solidarietà, incontri e iniziative per diffondere le ragioni della causa palestinese. «Il nostro modo di fare pressione è manifestare davanti alle ambasciate – dice Manar – chiediamo che vengano aperti i confini».
Il gruppo WhatsApp della sua associazione conta centinaia di membri che ogni giorno fanno affidamento su di lei per le notizie. Condivide lì le immagini e i video che arrivano da Gaza. «Alcuni di noi hanno parenti e amici all’interno della Striscia o in Cisgiordania», luogo, quest’ultimo, dove dal 7 ottobre le aggressioni da parte delle autorità israeliane e civili insediatisi – i coloni – si sono inasprite.
Pur non essendo un territorio controllato da Hamas, secondo un incrocio di dati dell’Onu e del ministero della Salute dell’Anp in Cisgiordania sono più i palestinesi che hanno perso la vita nelle ultime settimane che in qualsiasi altro periodo simile negli scorsi quindici anni. E il 2022 era già stato l’anno in cui si sono registrate più morti tra i palestinesi della West Bank, dalla fine della Seconda Intifada.
In quei pezzetti di Palestina al di fuori della Palestina che sono i campi profughi come Shatila non si dorme bene e si fa fatica a mangiare. «Da fuori continuiamo a vivere le nostre vite: ci alziamo, andiamo a lavoro, ma non è come prima. Siamo altrove», spiega Amena. «Quando comincio a mangiare, ecco che un’immagine orribile del genocidio in corso mi appare nella mente, e non riesco più ad andare avanti». Neanche guardare una serie tv durante i pasti per distrarsi sembra più funzionare.
«Molti sono in depressione», continua, sfiancati dal senso di impotenza. I telegiornali vanno a tutte le ore. «Li ascolti anche solo camminando per la strada. Non si parla d’altro e la gente cerca di farsi forza a vicenda».
Sapere che c’è qualcuno che festeggia del male altrui fa impressione. Ma Shatila non è il posto dell’oggettività e della pacatezza. Qui, il sentire non può che essere polarizzato. A Shatila non c’era elettricità anche prima che scarseggiasse in tutto il Libano e l’acqua che esce dai rubinetti è salata. Questo vuol dire che lavarsi mani e faccia o fare una doccia è come fare un bagno al mare. Se ci si passa la mano umida intorno alla bocca, il sapore di salato rimane sulle labbra per ore.
I diversi strati di crisi, da quella politica a quella economica, che compongono un Paese come il Libano hanno un impatto ancora maggiore in posti come Shatila, per via delle condizioni di partenza. Come spiega Majdi, ancora oggi i bambini palestinesi rimangono fuori dai sistemi scolastici libanesi, e la legge impone restrizioni sui lavori che un palestinese può svolgere nel Paese. È infatti l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, a fornire i servizi di base come istruzione e assistenza sanitaria.
L’emblema dell’oppressione
Come descrive Manar, Shatila non è vivibile. Non è pulita. Non è sana o sicura. «Eppure è la mia terra – dice – anzi, – si corregge – è il simbolo della mia terra». «È l’unica cosa che mi rimane e non potrei pensare di lasciarla. Non potrei pensare di vivere al di fuori». Anche se lavora al di fuori dal campo, infatti, ogni sera Manar torna a casa. O al simbolo della sua casa.
C’è rabbia, a volte violenza, sicuramente speranza, ma non c’è rassegnazione a Shatila. Né tra i più anziani, né tra i giovani e i bambini. Anche i bambini a Shatila conoscono la loro storia. All’indomani dell’attacco di Hamas, «ci siamo seduti e ne abbiamo parlato», spiega Majdi. «Lavoriamo per mantenere viva la nostra memoria, per tramandare chi siamo e quello che ci è successo. Così che anche loro possano sentirsi palestinesi».
Amena racconta che al primo allenamento dopo il 7 ottobre i bambini erano tutti in fermento. Poi le cose sono peggiorate e all’incontro successivo avevano già la testa da un’altra parte. «Non mi ascoltavano neanche più. E non tutti sono palestinesi», sottolinea Amena. Nel campo di Shatila vivono adesso anche molti siriani scappati dalla guerra dal 2011.
«È un genocidio, non finirà presto», continua. «E il supporto incondizionato di molti Paesi occidentali peggiora le cose». Il potere della legittimazione genera mostri in grado di incrementare la forza distruttiva. Come sottolinea Manar, tra i palestinesi non c’è la speranza che il supporto alla loro condizione arrivi dall’alto, dalle leadership di governi e istituzioni. Almeno in Occidente, infatti, il supporto arriva dalle piazze. «Lo vediamo con le manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo. E non abbiamo bisogno di altro, solo delle persone», dice.
Una partita più grande
Allo stesso tempo, però, è ancora una volta triste e incoraggiante per Majdi, vedere come tante proteste vengano soppresse in Europa e negli Stati Uniti, ma anche così tante persone supportare la causa palestinese: «Ci dà gioia e speranza».
Da un punto di vista occidentale, prima del 7 ottobre la questione israelo-palestinese era forse data per sopita. Solo con l’inasprirsi del conflitto è tornata, però, al centro del dibattito la soluzione a due Stati, «che dopo anni di occupazione è difficile da implementare», dice Majdi. «Forse per i più giovani è più facile da accettare – continua – anche per le nuove generazioni di israeliani che nel frattempo lì sono nati e cresciuti». Ma per chi arriva dal 1948 è diverso, «tutti i miei avi erano lì prima di loro».
Se Amena crede che Hamas abbia agito «per il bene di tutti i palestinesi», Majdi spera invece che la causa sia stata la sola a muovere l’azione. «Anche se con la visita del presidente americano Joe Biden e dei vertici della sua amministrazione in Israele e il ministro degli Esteri iraniano in Libano, sembra già una partita più grande dove non c’è solo la causa palestinese sul tavolo, ma i rispettivi interessi nella regione», conclude.