Reportage TPI – Kosovo: il conflitto mai finito alle porte dell’Adratico
Gli agguati della minoranza serba alla polizia, gli scontri etnici, le truppe Nato coinvolte, le tensioni con Belgrado e le promesse dell’Ue. A 25 anni dalla guerra, i contrasti tra le due comunità non sono ancora risolti
Mentre gli occhi del mondo erano puntati sui cinquemila razzi di Hamas che colpivano Israele, la presidente del Kosovo Vjosa Osmani rifiutava un incontro diplomatico con il capo di Stato serbo Aleksandar Vučić. Al centro delle tensioni il Kosovo, un territorio internamente ed esternamente lacerato tra nazionalismi serbi e albanesi e di conseguenza una polveriera pronta ad esplodere.
Le tensioni nel territorio e tra Pristina e Belgrado hanno causato negli ultimi due anni varie escalation di violenza che si sono concentrate nella parte nord della regione, abitata da una maggioranza serba. L’aggressione più recente è avvenuta a fine settembre nel villaggio di Banjska, quando un gruppo di 30 serbi ha teso un’imboscata contro la polizia kosovara, uccidendo un agente.
L’agguato è stato l’ultimo atto di ostilità in anni di tensioni che hanno infuocato la regione settentrionale del Kosovo, zona confinante con la Serbia. Tra le crisi più importanti quella scoppiata a Zvečan, in cui si sono contati 50 feriti tra la folla serba e 93 tra le truppe della Nato, stanziata nel territorio con la missione Kfor dalla fine della guerra del Kosovo nel 1999 in qualità di forza neutrale per il mantenimento della pace.
Rispetto ai precedenti, l’attacco a Banjska appare come il più significativo e pericoloso: «È un attacco all’ordine e alla legge nel nord del Paese. È un attacco al Kosovo», ha sottolineato la presidente della Repubblica kosovara.
La polveriera
Il 17 febbraio 2008, il Kosovo dichiarò la propria indipendenza dalla Serbia, la quale insieme a Paesi alleati come Russia e Cina e altri tra cui Spagna e Croazia non lo riconobbero mai come Stato. A causa di ciò, la totale indipendenza del territorio non è tuttora riconosciuta internazionalmente.
Il Kosovo è caratterizzato da una società multietnica sintomatica della storia dei Balcani, con il 92 per cento della popolazione di etnia albanese e il restante diviso tra bosniaci, serbi e altre etnie.
La presenza di cristiani ortodossi, cattolici e musulmani, una cultura della montagna che si giustappone a quella della valle e di divisioni etniche sopra citate, rendono il Kosovo «una eredità storica particolarmente ricca, ma che è anche particolarmente contrastata attraverso differenti ambiti di dominio», spiega Andrea Carteny, professore di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università La Sapienza di Roma e di Storia dei Trattati e della Politica Internazionale a UnitelmaSapienza.
Questa disomogeneità anche storica produce quindi la mancanza di un nation-building, ossia della costruzione di un’identità nazionale, secondo Carteny: tutto questo fa del Kosovo di oggi una naturale polveriera pronta ad esplodere.
Quando ho girato il paese in macchina nel settembre scorso, mi è stato difficile non notare le bandiere che sventolavano all’ingresso delle città e dei villaggi. La nazionalità delle bandiere, albanese o serba, indicava quale fosse l’etnia maggioritaria nella popolazione che viveva in quei territori. A Pristina, capitale del Kosovo, sono tenute alte le bandiere albanesi e nell’aeroporto principale della regione vengono venduti molti gadget raffiguranti il vessillo dell’Albania, pochi quelli che invece riproducono lo stemma del Kosovo.
Dal mio viaggio di reportage ho appreso che gli abitanti non percepiscono il Kosovo come uno stato indipendente a cui appartengono, ma come parte integrante dell’Albania o della Serbia, a seconda di che etnia abbia l’interlocutore con cui si parla.
Sebbene si dica che la religione non giochi un ruolo attivo nelle tensioni tra serbi e albanesi, la cultura storica religiosa, tuttavia, è uno dei motivi che rendono il Kosovo un territorio sacro e irrinunciabile per la Serbia. Lo spiega padre Sava Janjić, Abate del monastero Patrimonio dell’Unesco di Deçani, una municipalità della parte ovest del Kosovo abitata da una maggioranza albanese.
Secondo Sava, il territorio del Kosovo «comprende probabilmente i luoghi più sacri della chiesa serbo-ortodossa e dei Balcani», sottolineando dunque l’estrema importanza culturale del Kosovo per i serbi. Insieme al monastero di Deçani, all’interno della regione sono presenti altre tre chiese ortodosse risalenti al XIII secolo che fanno tutte parte del Patrimonio dell’Unesco. Tra queste vi è il Patriarcato di Peć, il quale storicamente è la sede spirituale e residenza degli arcivescovi e patriarchi serbi.
Dunque, l’aspetto religioso, storico ed etnico del Kosovo per la Serbia rappresentano alcuni dei fattori che inevitabilmente incidono sull’impossibilità odierna del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte della Serbia e quindi di un compromesso tra Pristina e Belgrado. «Il Kosovo è un problema, quindi, in cui da entrambe le parti c’è qualcosa di irrinunciabile», spiega Carteny. «Belgrado può dare tutto secondo le posizioni ufficiali fuorché l’indipendenza assoluta e Pristina può accettare tutto fuorché il fatto di non essere assolutamente indipendente».
Inoltre, dalle interviste raccolte sembrerebbe che i serbi kosovari non parlino albanese e gli albanesi kosovari non si esprimano in serbo, segnando la mancanza di una lingua comune nella regione. Questa realtà sociale, ma anche politica, si riversa sull’educazione: in Kosovo è infatti prevista una divisione scolastica tra serbi e albanesi in cui le lezioni vengono tenute nella lingua etnica di appartenenza.
Ciò influisce sul quadro socio-politico kosovaro, rendendo difficile se non impossibile una comunicazione e integrazione. «Il problema di queste regioni, come anche in una parte considerevole della Bosnia, è che le comunità non comunicano tra di loro; quindi, se non c’è convivenza poi di fatto la pace che c’è è una pace separata», sostiene Carteny.
Alla ricerca del dialogo
L’Unione europea si è presa carico del compito di creare un dialogo tra Kosovo e Serbia, facendo da mediatrice. Nel 2013, venne raggiunta l’intesa per la normalizzazione dei rapporti tra le due delegazioni, ma mentre il documento venne firmato, i punti dell’accordo non furono mai implementati. Al centro delle divergenze è la questione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo, finalizzata a creare un coordinamento territoriale di fatto capace di dare un’identità regionale alla minoranza serba. La realizzazione delle municipalità ha però ricevuto forti resistenze interne da parte delle autorità di Pristina, creando uno stallo mantenutosi fino ad oggi.
Secondo il professor Carteny, seppur divisi culturalmente e religiosamente, si sarebbe potuta creare quella che sarebbe stata una stabilità data dalla quotidianità delle persone che abitano la regione balcanica. Tuttavia, ricorda Carteny, essendo il governo attuale di Albin Kurti, primo ministro del Kosovo, e l’amministrazione kosovara di stampo nazionalista, esse attuano il principio di sovranità sul territorio. Di conseguenza, periodicamente vengono applicate delle norme che creano delle tensioni, traducendosi così in una rigida affermazione della sovranità territoriale contro la minoranza serba.
Secondo il precedente comandante della missione Nato in Kosovo, il generale dell’Esercito Italiano Angelo Michele Ristuccia, il problema reale è rappresentato dalla sfiducia tra le parti. Questa crea tensione e ansia sia nei governi di Pristina e Belgrado che nelle persone che abitano il Kosovo, influenzando in maniera negativa il processo di pace e di stabilizzazione e portando ad una polarizzazione etnica. Ristuccia si diceva sicuro a settembre, mentre ricopriva il ruolo di Comandante della Kfor, che l’unica soluzione possibile fosse quella politica, dunque un accordo: una situazione problematica poiché ammetteva non esistesse al tempo – e non esiste tuttora – la volontà delle parti di arrivare a una soluzione politica.
Padre Sava su questo punto attacca pesantemente il governo kosovaro, accusandolo di seguire solo gli interessi della popolazione albanese e di attuare politiche apertamente contrarie alle minoranze serbe che non rispettano la natura multi-etnica del Kosovo. «Dopo la guerra, per gli albanesi del Kosovo eravamo solo serbi», dice. Secondo lui l’attuale operato di Kurti e Osmani ha distrutto anni di dialogo e trattative, dimostrando un’amministrazione incurante di creare un rapporto con la minoranza serba.
Anche l’abate di Deçani richiama il fattore sfiducia citato da Ristuccia: «I serbi ora, 24 anni dopo la guerra, non hanno fiducia nel Kosovo, nel suo sistema legale, educativo e sanitario. Vivono praticamente una vita completamente parallela».
In egual modo, l’imam Labinot Maliqi, leader religioso a Pristina e direttore del Center for Peace, pensa che la colpa delle tensioni risieda nell’influenza del governo, ma quello della Serbia: «Le attuali tensioni nei piccoli comuni a maggioranza serba del Kosovo sono purtroppo influenzate dalla politica di Belgrado», dice. «Quindi, quando appaiono tensioni, sono dovute alla politica, ma mai istigate e organizzate dai cittadini comuni. I cittadini serbi non si preoccupano dei cittadini kosovari e viceversa».
Sia padre Sava che l’imam Maliqi concordano sul fatto che gli abitanti del Kosovo vorrebbero solo la pace. «Dobbiamo trovare una sorta di centro politico che preservi le tradizioni delle diverse comunità, ma che allo stesso tempo sviluppi lo stato di diritto, l’ordine e la pace per tutte le comunità e le aiuti a vivere», ha detto padre Sava. «Le differenze etniche in Kosovo non sono una novità del dopoguerra, sono sempre esistite e abbiamo imparato a conviverci. Crediamo che la diversità sia un valore che deriva dalla volontà di Dio; quindi, consideriamo anche le differenze etniche come un valore aggiunto nella nostra società», ha affermato l’imam Maliqi.
Secondo padre Sava, dei circa 100mila kosovari di etnia serba che abiterebbero la regione, la maggioranza non vivrebbe nel Nord del Kosovo – come molti media scrivono – dove sono concentrate le tensioni, ma nella zona centrale e meridionale, tra enclave isolate e municipalità a maggioranza serba.
Un futuro ancora incerto
Una settimana prima dell’agguato serbo avvenuto a fine settembre contro la polizia kosovara, alcune delle personalità intervistate, tra cui padre Sava, avevano commentato dicendo che non vi fosse alcuna possibilità che la Serbia arrivasse ad usare un qualsiasi tipo di azione militare contro il Kosovo. La maggior parte dei kosovari di etnia albanese e serba contattati non hanno voluto invece esporsi dal punto di vista politico, non rilasciando interviste.
Interpellato sugli esiti della missione Nato in Kosovo, il generale Ristuccia mi confidava a settembre come secondo lui Kfor fosse una «storia di successo» in quanto «progressivamente il numero delle forze che sono state schierate nell’area è diminuito, il che è un indicatore dei grandi risultati che dal 1999 ad oggi sono stati conseguiti». Nel 1999 erano 50mila i soldati impiegati in Kosovo; a settembre 2023 circa quattromila. Ciò che mancava tuttavia erano le condizioni affinché pace e stabilità diventassero irreversibili, aveva concluso il generale.
A causa della tensione tra Belgrado e la sua ex provincia a maggioranza albanese, l’Alleanza Atlantica il mese scorso ha annunciato il dispiegamento di ulteriori 600 soldati nella regione.
Il futuro del Kosovo appare al momento incerto, soprattutto con la guerra Russia-Ucraina ancora in corso. Difatti non si sa se o quanto il conflitto in cui è protagonista la Russia, storicamente legata alla Serbia, possa essere condizionante nelle future scelte diplomatiche dei due governi. Ugualmente, rimane un’incognita se o quanto il recente passaggio di comando della missione Nato dall’Italia alla Turchia possa influenzare in qualche modo la stabilità della regione.
Una cosa è certa: le guerre Russia-Ucraina e Israele-Palestina e le loro conseguenze umanitarie, politiche ed economiche ci hanno insegnato che non possiamo più permetterci di sottovalutare i conflitti esterni ed interni dei Paesi, Kosovo incluso.