Perché il piano ReArm rischia di fare cilecca

Per aumentare le spese militari nell’Ue, Von der Leyen punta su una montagna di prestiti agevolati ai singoli Stati. Ma i più indebitati vorranno evitare di esporsi ulteriormente ai mercati. Così il piano della Commissione difficilmente centrerà l’obiettivo 800 miliardi. E allontanerà ulteriormente la difesa comune europea, arricchendo le aziende Usa. Finché Putin avrà 6mila testate nucleari non ci conviene metterla sul piano della guerra
Perché il piano ReArm Europe rischia di fare cilecca
Si fa presto a dire riarmo, ma il piano di Ursula von der Leyen per aumentare di 800 miliardi di euro le spese militari nell’Unione europea rischia seriamente di fare cilecca. Per com’è stato caricato, usando l’arma dei prestiti anziché quella dei contributi a fondo perduto, il bazooka potrebbe esplodere una cifra assai inferiore a quella sbandierata dalla presidente della Commissione. Peggio ancora: lasciando carta bianca, o quasi, ai singoli Stati, la prospettiva è quella di difese nazionali che si muoveranno a velocità diverse, in base alle volontà politiche dei rispettivi governi e alle possibilità di spendere a debito, allontanando così la concretizzazione di quell’esercito comune europeo caldeggiato da molti ma perseguito da pochi.
Non solo: con quei pochi vincoli che sono stati abbozzati da Von der Leyen, a trarre profitto da questa corsa al riarmo saranno verosimilmente soprattutto le grandi aziende di armi statunitensi, che già oggi assorbono circa i due terzi delle nostre forniture. Infine, siamo proprio sicuri che per cautelarci dai nervosismi di una superpotenza atomica come la Russia la strada più intelligente sia quella di comprare più droni e carri armati? Ma andiamo con ordine e analizziamo una per una le incognite del pacchetto ReArm Europe.
Cosa prevede il piano Rearm
Il piano si impernia su cinque pilastri. Primo: attivazione, per le spese militari, della clausola di salvaguardia nazionale prevista dal Patto di Stabilità europeo. In questo modo i singoli Stati potrebbero irrobustire i propri arsenali senza curarsi dei vincoli di bilancio dell’Ue (non scatterebbe alcuna procedura d’infrazione). Secondo i calcoli della Commissione, se tutti i Paesi incrementassero la propria spesa per la difesa in media dell’1,5% del Pil nazionale, si mobiliterebbero 650 miliardi di euro in quattro anni.
Secondo pilastro: istituzione di un fondo, denominato Safe (Security Action for Europe), con il quale la Commissione metterebbe a disposizione degli Stati una cifra pari a circa 150 miliardi di euro in prestiti garantiti per acquistare da produttori europei attrezzatura bellica (artiglieria, sistemi di difesa aerea, droni, strumenti informatici). Il denaro verrebbe raccolto in via accelerata facendo ricorso alla procedura d’emergenza prevista dall’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, che consente di derogare alle tempistiche standard.
Terzo pilastro di ReArm: possibilità per gli Stati di utilizzare i fondi europei di coesione per aumentare la spesa per la difesa. Quarto e quinto pilastro: smuovere capitali privati attraverso un ampliamento del campo d’intervento della Banca europea per gli investimenti e l’accelerazione dell’Unione bancaria.
I nodi del piano di riarmo: Parlamento europeo scavalcato
Uno dei punti più contestati del pacchetto ReArm riguarda la legittimità del ricorso all’articolo 122, che permette alla Commissione e al Consiglio dell’Ue di adottare provvedimenti in via accelerata senza interpellare il Parlamento: una procedura d’emergenza che è già stata utilizzata per far fronte alla pandemia di Covid nel 2020 e alla crisi energetica nel 2022.
Oggi, per far decollare il pacchetto di riarmo, Von der Leyen sembra fare affidamento sul secondo comma dell’articolo in questione, nel quale si prevede che, «qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo», il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a quel Paese «assistenza finanziaria» da parte dell’Ue. Ossia prestiti.
Ma secondo alcuni giuristi, tra cui Pasquale De Sena, professore di Diritto internazionale all’Università di Palermo ed ex presidente della Società italiana di Diritto internazionale e dell’Unione europea, il ricorso al 122 è illegittimo perché mancherebbe il presupposto dello stato di emergenza.
La minaccia russa a cui Von der Leyen ha fatto più volte riferimento in queste settimane non sembra così concreta e impellente per l’Europa. E nemmeno il disimpegno militare annunciato da Donald Trump rispetto al vecchio continente può essere un buon argomento per giustificare l’urgenza, almeno finché il territorio dell’Ue sarà presidiato da 21 basi militari Usa per un totale di oltre 80mila soldati yankee.
Ragionando in punta di diritto, se il Parlamento europeo ravvisasse l’illegittimità del ricorso al 122 potrebbe chiedere l’intervento della Corte di Giustizia europea, ma si tratta di uno scenario da escludere totalmente, dato che la Commissione gode del sostegno della maggioranza dell’emiciclo.
ReArm: perplessità finanziarie
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L’incognita principale per il piano ReArm riguarda l’effettiva possibilità di arrivare a mobilitare una cifra vicina agli 800 miliardi di euro: significherebbe quasi la spesa per la difesa dei Ventisette, che nel 2024 è stata pari a 326 miliardi di euro.
La Commissione europea ha soltanto predisposto una serie di cornici normative e finanziarie volte a stimolare la spesa militare, ma la decisione di procedere o meno con gli acquisti rimarrà in capo ai singoli Stati. E considerato che non sono previste somme a fondo perduto ma solo prestiti, è possibile che i governi – in particolare quelli dei Paesi con debiti pubblici elevati – decidano di limitarsi a interventi moderati.
Per i 150 miliardi di euro del fondo Safe bisognerà capire nel dettaglio che tempi saranno fissati per la restituzione e quanto saranno calmierati i tassi d’interesse. Ma anche i 650 miliardi potenzialmente attivabili tramite la clausola di salvaguardia sarebbero di fatto somme a debito, trattandosi di extra-deficit sul bilancio dei singoli Stati.
In un articolo pubblicato sul proprio sito, il gigante dell’investment banking Goldman Sachs ha rilevato che l’attivazione della clausola di salvaguardia «lascerebbe la spesa per la difesa nazionale esposta allo stress del mercato dei debiti sovrani».
Il caso italiano è emblematico. Se il nostro governo decidesse di sfruttare appieno il margine previsto dell’1,5% del Pil, la spesa per la difesa del nostro Paese aumenterebbe di circa 30 miliardi di euro. Non è ancora chiaro se questa deviazione sarebbe accettata per un solo anno o se andrebbe spalmata su quattro anni. Certo è, però, che per reperire quei soldi bisognerebbe necessariamente rivolgersi al mercato, che ce li presterebbe – come è ovvio – applicando tassi di mercato, andando così ad appesantire ulteriormente il nostro debito pubblico, già oggi molto oneroso (135% del Pil). E quando il debito aumenta anche i rendimenti pretesi dal mercato lievitano, innescando una spirale che andrebbe a fiaccare ancor più i conti pubblici italiani.
Se si tratta da armarsi, l’Ue si rende improvvisamente disponibile a chiudere un occhio sugli indebitamenti nazionali, ma è tutt’altro che scontato che, a queste condizioni, i singoli Stati decidano di usufruire della flessibilità concessa. Il ministro dell’Economia italiano Giancarlo Giorgetti lo ha detto chiaro e tondo: «L’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale non deve compromettere la sostenibilità delle finanze pubbliche». Tradotto: andiamoci piano.
Anche perché le opinioni pubbliche – fatta eccezione per quelle dell’Europa orientale – non sembrano molto favorevoli alle politiche di riarmo. Secondo un sondaggio condotto da Youtrend, il 43% degli italiani vorrebbe mantenere invariate o diminuire le spese militari, mentre un altro 25% sarebbe disposto ad aumentarle ma non oltre il 2% del Pil (attualmente siamo all’1,5%).
Fondi di coesione: soldi tolti al Welfare
Nel ventaglio di soluzioni tecniche prospettate da Von der Leyen, ha suscitato critiche bipartisan la facoltà concessa agli Stati membri di aumentare gli acquisti di armamenti attingendo dai fondi di coesione europei, soldi che dovrebbero servire a ridurre i divari territoriali, economici e sociali nell’Ue.
Non si tratta di un obbligo ma solo di un’opzione che ciascun Paese può liberamente scegliere di esercitare o meno, eppure la sola possibilità di destinare alla difesa somme originariamente stanziate per le politiche sociali ha sollevato perplessità – più o meno marcate – all’interno di tutti i gruppi politici del Parlamento europeo. Incluso il Partito popolare di Von der Leyen: «I fondi europei devono essere utilizzati per i loro obiettivi originali», ha sottolineato l’eurodeputata spagnola del Ppe Maravillas Abadia Jover.
In Italia, si sono levate voci critiche non solo dalle forze di centrosinistra e della Lega, ma anche dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha già escluso l’utilizzo dei fondi di coesione per l’acquisto di armi.
ReArm: compreremo da aziende Usa
Degli 800 miliardi di euro annunciati da Von der Leyen, solo i 150 miliardi del fondo Safe sarebbero vincolati al principio del “Buy European” – che prevede di privilegiare acquisti da aziende europee – e alla presentazione di progetti coordinati tra gli Stati membri.
Per il resto, il piano lascia liberi i Ventisette di agire in ordine sparso, spendendo ognun per sé e rischiando quindi di comprare cose diverse da produttori diversi, aggravando così gli squilibri tra un Paese e l’altro. Il contrario di quella difesa comune europea di cui tanto si parla da tre anni a questa parte.
A guadagnarci più di tutti, fra l’altro, sarebbero verosimilmente i colossi della difesa Made in Usa, che già oggi sono di gran lunga i principali fornitori del vecchio continente.
Secondo un rapporto presentato a inizio marzo dall’istituto di ricerca indipendente svedese Sipri, nel quinquennio 2020-2024, complice la guerra in Ucraina, le importazioni di armi da parte dei Paesi europei della Nato sono aumentate del 105% rispetto al periodo 2015-2019 e il 64% di queste forniture è arrivato dagli Stati Uniti. Per l’Italia gli acquisti dall’America sono stati addirittura il 94% del totale.
Minaccia russa?
Von der Leyen ha elaborato il pacchetto ReArm giustificandolo con l’esigenza di farsi trovare pronti, come europei, di fronte alla minaccia di Putin, definito un «vicino ostile». L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica, diretto dall’economista Carlo Cottarelli, ha recentemente calcolato che già nel 2024 i Paesi dell’Ue hanno speso per la difesa il 18% in più rispetto alla Russia: 547 miliardi di dollari contro 462 miliardi. Ciò significa che la corsa al riarmo nel vecchio continente è già iniziata. Secondo i dati ufficiali del Consiglio europeo, tra il 2021 e il 2024 la spesa militare degli Stati membri dell’Ue è aumentata complessivamente di oltre il 30%.
Ma rimane un problema difficilmente eludibile: Mosca dispone di quasi 6mila testate nucleari, mentre nell’Ue l’unico Paese a essere dotato di atomica, la Francia, conta meno di 300 testate. Anche includendo il nucleare del Regno Unito non si arriva a un decimo della potenza atomica russa. Finché Putin avrà questo vantaggio, noi europei possiamo anche armarci fino ai denti con tank, droni e contraeree, ma metterla sul piano della guerra non ci conviene.