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L’uccisione di Soleimani è un calcolo elettorale di Trump: ora si rischia davvero una guerra Usa-Iran

Immagine di copertina
Illustrazione: Emanuele Fucecchi

Lo spettro di un nuovo conflitto in Medio Oriente diventa reale con il raid Usa a Baghdad. L'analisi di Giampiero Gramaglia

Una pericolosissima escalation nelle relazioni già tesissime tra Stati Uniti e Iran, un passo deciso verso il baratro di un conflitto dalle prospettive forse non bene calcolate: è la considerazione che con formula quasi identica, ‘major escalation’, accompagna i titoli sull’attacco americano che, poche ore or sono, ha ucciso il generale Qassim Soleimani e altri comandanti militari iracheni e iraniani appena fuori l’aeroporto di Baghdad. C’è su New York Times, Al Jazeera, Le Monde.

L’azione ordinata dal presidente Donald Trump, probabilmente cogliendo un’opportunità segnalata dall’intelligence e dai militari, getta tutto il 2020 in una prospettiva sinistra di guerra e di sangue: rischia d’innescare un conflitto nella regione e di avere come corollario sussulti di terrorismo un po’ ovunque nel mondo.

E c’è il dubbio che il magnate presidente anteponga i suoi calcoli elettorali a ogni altra considerazione. I giorni a cavallo tra il 2019 e il 2020 hanno visto un rimbalzo di provocazioni e reazioni che hanno repentinamente rialzato il livello dello scontro.

La retorica anti-iraniana dell’Amministrazione Usa era da settimane in sordina. Sabato 28 dicembre Trump ordina una ritorsione, dopo l’uccisione d’un contractor americano in una base a Kirkuk attaccata da milizie filo-iraniane: raid aerei contro cinque postazioni filo-iraniane in Iraq e in Siria, almeno 25 vittime, “un successo” secondo il Pentagono.

Trump avvicina le lancette dell’orologio alla mezzanotte della guerra

Per tutta risposta, razzi cadono in prossimità di una base che ospita soldati americani a Taji, a nord di Baghdad; e Iraq, Iran e Russia denunciano concordi la violazione Usa della sovranità irachena, “un atto di terrorismo” per Teheran, “inaccettabile e controproducente” per Mosca.

Con la politica del ‘pugno sul tavolo’, già sperimentata in Siria a due riprese, Trump eccita, com’era scontato, l’opinione pubblica irachena, contro gli Stati Uniti e innesca proteste anti-americane, nel contesto d’un Paese scosso da mesi da violente proteste sociali, economiche e politiche.

A Mar-a-Lago si tiene una sorta di consiglio di guerra, con i segretari agli Esteri Mike Pompeo e alla Difesa Mark Esper. A Baghdad, l’ambasciata statunitense, un edificio immenso, è sotto attacco: una torretta va in fiamme; la protezione fornita dalle autorità irachene si rivela non a tenuta stagna.

Alla fine, il magnate dà a Teheran la colpa degli incidenti anti-americani e decide di inviare “immediatamente” 750 soldati Usa in più in Medio Oriente, l’avanguardia di un contingente più numeroso.

Tensione Usa-Iran: cosa sucede ora

Mostrati i muscoli, Trump sembra stemperare le tensioni e tornare a toni meno bellicosi, mentre a Baghdad torna una calma tesa, dopo il ricorso ai lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine.

Dura poche ore: l’attacco che uccide Soleimani ed altri infiamma di nuovo la situazione e la Regione, dove gli Stati Uniti del magnate presidente vestono i panni degli alleati incondizionati d’Israele e dell’Arabia saudita.

E adesso? Il livello d’allarme s’è alzato, le lancette dell’orologio della pace si sono bruscamente avvicinate alla mezzanotte della guerra. Ci vorrebbe la lucidità, e l’autorità per stemperare animosità e rivendicazioni, ma i protagonisti diretti sono più incendiari che pompieri. I comprimari? L’Europa ha forse lucidità, ma temo le manchi l’autorità  – e magari pure la volontà – di farla valere.

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