Quei bravi ragazzi di Londra
Le gang di Londra sono 250. A nord ci sono gli Shankstarz, a est i Mashtown di Hackney. Per loro un Blackberry vale più di una laurea
Quei bravi ragazzi di Londra
Kirk ha 22 anni. Lo chiamano Blackz perché gli piace vestirsi di nero. Dalla testa ai piedi. E’ nato e cresciuto a Londra ma ha origini giamaicane. Suo padre è stato in galera per spaccio di droga. A casa, da solo con la madre e i quattro fratelli, si sentiva stretto; il college lo ha abbandonato dopo un anno e non ha mai terminato gli studi. Così a 16 anni ha deciso di andarsene. Da allora ha fatto parte di una delle gang più potenti di Londra.
A Tottenham, il quartiere nel nord della metropoli in cui Kirk vive, le gang si affastellano: se ne contano almeno dieci. Chi non fa parte di una è emarginato. In tutta Londra le gang nascono e muoiono come il nulla. Si moltiplicano, si uniscono e si dividono. Tanto che è difficile tenerne il conto. Ufficialmente esistono almeno 435 gang, 250 delle quali “attive”. In particolare, 62 sono definite dagli inquirenti ad “alto rischio” e sono responsabili dei due terzi dei crimini. La polizia ha schedato 4,800 nomi, ma i membri effettivi dovrebbero essere almeno il doppio. Questo piccolo esercito è diventato l’incubo di chi deve mantenere l’ordine pubblico.
A nord ci sono gli Shankstarz, i Northumbledon Park (NPK) e i Blacks; a est i Mashtown di Hackney, noti per la loro rivalità con Tottenham. Si spartiscono il territoro senza punti di riferimento. Si identificano con i codici postali dei rispettivi quartieri che abitano: E9 a Hackney e SW2 a Brixton. A Haringey, Enfield e Waltham Forest le gang ci sono ma non si vedono. Puoi camminare tranquillo senza che ti succeda nulla. Se vogliono ti trovano loro, assicura Kirk. E’ più che altro, ma non solo, una questione “tra neri”: «Se alzo gli occhi e vedo un nero mi chiedo sempre se sia una minaccia o meno; se vedo un bianco no».
Di gangsters ne esistono d’ogni tipo: dai criminali da strada di 14 anni agli spacciatori di crack di 24. Si dividono tra “olders” e “youngers”. Otto su dieci sono uomini. Più della metà sono neri; il 23 per cento bianchi. Fino a poco fa indossavano le bandane. Oggi perlopiù girano in bicicletta. Si muovono come avvoltoi tra i quartieri dove sono cresciuti e che conoscono come le loro tasche: mirano il nemico, lo pestano, lo accoltellano e lo uccidono, se necessario. Senza pietà. Stime non ufficiali riportano che i capi delle gang più a rischio muovono quantità di denaro che si aggira tra i 12 e i 90 mila euro al mese. Sino ad oggi sono stati riconosciuti 53 paesi d’appartenenza tra le loro vittime – perlopiù afro-caraibici – due terzi delle quali sotto i 24 anni.
Tutti si conoscono fra di loro. A scuola non ci vanno. Nella migliore delle ipotesi, i genitori sono troppo impegnati a lavorare per saperli nel bel mezzo di qualche rapina; nella peggiore sono in galera loro stessi. Vanno a zonzo a far danni e rubano il possibile. Sono violenti e arrabbiati con il mondo perché dimenticati dalla società che li governa ma che non riconoscono. Si scambiano le ragazze come giocattoli e fanno uso di crack e marijuana. I più grandi sfrecciano con le macchine per le vie del territorio che controllano. Quando arriva la polizia si danno alla fuga con la coda tra le gambe. Poi riappaiono, sempre lì, tranquilli come prima.
La polizia li conosce bene. Uno ad uno. Ci sono foto e minuziose descrizioni di alcuni di loro appese ai muri delle questure. Tanto che Scotland Yard ha pensato a un nuovo piano da 75 milioni di euro l’anno per intensificare le operazioni contro le gang. Così, oggi, il comando centrale anticrimine dell’Operazione Tridente (così è chiamata dalla polizia metropolitana l’offensiva contro le gang) conta 1,000 uomini spalmati sui 19 quartieri critici, ognuno dei quali provvisto della propria squadra speciale d’intervento.
La polizia conta che ogni anno il 12 per cento dei furti, il 14 degli stupri, il 17 delle rapine, il 26 dei furti aggravati e il 40 delle transazioni illecite commerciali facciano capo alle gang. Un quinto delle aggressioni e il 50 per cento delle sparatorie sono a loro carico. Così come il 16 per cento del traffico di droga su Londra. Affari da capogiro: un chilo di eroina e cocaina e 10 mila sterline sono stati sequestrati lo scorso 8 febbraio in due appartamenti a sud di Londra, proprio mentre la polizia annunciava alla stampa il nuovo piano.
Tra le gang, però, si ha la percezione che la strategia della Met sminuisca la complessità del problema o, addirittura, che sia mirato esclusivamente contro i neri. «Un’intera unità speciale della polizia riservata esclusivamente a “noi”, che siamo il 3 per cento della popolazione britannica, è quanto meno eccessiva», osserva Kirk volgendo lo sguardo in cerca di sostegno verso i suoi amici gangster. Per i neri la polizia in Gran Bretagna è “ingiusta”, persino razzista. Il padre di Kirk, arrestato negli anni Novanta, ha tramandato il messaggio a suo figlio. Che farà lo stesso con il suo.
È una tradizione storica e culturale che, malgrado le differenze etniche, ha la meglio sul “nemico”. Di fronte alle forze dell’ordine sono tutti coesi. Come lo scorso agosto, quando Londra “bruciava”. In quel caso, non solo le gang, ma anche la gente comune è scesa unita in strada per saccheggiare la città in seguito all’uccisione di Mark Duggan da parte di un poliziotto. Chiunque abbia partecipato agli scontri oggi non parla più.
Anche per questo motivo il commissario che dirige le operazioni, Steve Rodhouse, insiste sul fatto che la polizia non vuole criminalizzare un’intera generazione. L’intento è far comprendere che le forze dell’ordine lavorano insieme alle comunità locali per prevenire il crimine e offrire una migliore opportunità ai giovani che non vedono sbocchi alla violenza. E gli uomini in divisa si avvalgono, per questo lavoro in profondità, di persone come Finnbar, un assistente sociale di 25 anni, che lavorano per fare la differenza sul campo: convincere gli “youngers” a lasciare perdere la violenza.
Finn – così lo chiamano – li approccia per strada e accetta gli insulti che gli rivolgono, fin quando non si fidano di un ragazzo del nord simile a loro e si lasciano persuadere. Secondo Finn, «il problema delle gang va sconfitto alla radice. I bambini devono sentire il bisogno di poter dire la propria. E’ necessario renderli partecipi di un programma che faccia loro comprendere i rischi del crimine ma anche che i loro problemi, incomprensibili ai più, vengono ora seriamente affrontati». Così da agevolare il loro inserimento, sia pure graduale, nel mondo del lavoro.
Eppure, tanto è complessa la situazione che il pugno di ferro della polizia è sinora sembrato effettivamente servire a qualcosa. La situazione è migliorata di anno in anno da quando nel 2000 è stato lanciato il Tridente. Le sentenze sono state durissime, specie dallo scorso agosto. Prima di accoltellare qualcuno, dice Kirk, oggi ci pensi due volte.
Un tempo era diverso. Era impensabile uscire di casa senza un coltello nascosto sotto la cintura dei pantaloni. Ci si doveva sempre guardare intorno perché ogni angolo nascondeva un’insidia. Una sera di qualche anno fa, di ritorno verso casa, Kirk è stato aggredito da un gruppo avverso alla sua gang. Erano in bicicletta e gli hanno puntato la pistola contro. Lui è riuscito ad accoltellarne due nel petto, ma ha rimediato uno squarcio in testa e un labbro spaccato.
Che la questione delle gang sia ingrandita e portata agli estremi tanto dai media quanto dalla polizia è un dato di fatto, dice Kirk. «Il problema è serio e va risolto, ma ci descrivono come degli animali rinchiusi in gabbia e fuori controllo. Alle forze dell’ordine piace questa perenne condizione di tensione. Per un periodo – garantisce Kirk – ho avuto tra le mani una pistola della polizia. Da qualche parte deve pur essere arrivata».
Londra, in realtà, è una città sicura. Così la pensa Joshua Surtees del The Guardian, il quale spiega che sono le rivalità tra le diverse parti in gioco a rendere il discorso assai più complicato di quello che normalmente viene descritto. L’immaginario tradizionale inganna l’osservatore esterno. E di rado ci si spinge oltre l’idea comune di violenza e povertà come reali motivazioni dietro le azioni delle gang.
Queste agiscono disorganizzatamente. La loro gerarchia non si sviluppa verticalmente o orizzontalmente. Né sembra esserci alcun pensiero ideologico dietro il loro operato. Non c’è un boss riconosciuto ufficialmente, eppure gli “olders” fanno il buono e il cattivo tempo. Sono loro che decidono come spartire un colpo andato a buon fine.
Funziona così: se fai una rapina e ti va bene ti tieni la refurtiva senza che nessuno se ne accorga, altrimenti ti viene sequestrata dal tuo superiore. Un giorno, ricorda Kirk, gli “youngers” della sua gang hanno fatto irruzione nell’abitazione di un anziano non vedente. Hanno preso 50 mila sterline in contanti e se le sono spartite tra loro. Il tutto è avvenuto alla luce del giorno, ma quando uno degli adulti è venuto a conoscenza della rapina ha requisito il bottino.
I piccoli gangster di Londra controllano enormi quantità di denaro che spesso però transita nelle loro tasche per sparire con la stessa velocità con cui è stato accumulato. Spacciano marijuana e crack, si imbottiscono di sterline. Ma le entrate vengono male amministrate e spese nel giro di pochi giorni. Vestiti, telefoni e roba firmata: oggetti necessari per esibire e affermare il proprio dominio sul territorio.
Si impiega più tempo ad azzuffarsi per guadagnare denaro e credibilità di quanto ci si impegni per mettere i soldi da parte e costruire un’organizzazione più seria. Ma quest’ultimo aspetto, evidentemente, non è quello che realmente interessa le gang. «Ogni singolo membro sa di essere nel torto in quello che fa», dice Kirk questa volta con l’approvazione spontanea dei suoi compagni. Ma le incertezze per il futuro e la pigrizia rendono tutto più difficile: un destino che credono essere già segnato.
Del resto, questo sembra giustificare il loro comportamento. Gli scippi servono per sopravvivere alla quotidianità. Ma anche per viziarsi di cose apparentemente inutili. E’ il risultato di una società incentrata esclusivmente sul consumo, dove un Blackberry vale più di una laurea. Per loro i soldi sono al centro di tutto e arricchirsi è fondamentale: «Get Rich Or Die Trying» (diventa ricco o muori cercando di farlo), sussurra timidamente Kirk.
Dopo essere stato condannato per possesso di armi e dopo sei mesi in comunità, oggi Kirk sta provando a farsi un’altra vita. «Sono nato da solo e morirò da solo», filosofeggia. Il lavoro è occasionale. Quando lo chiamano, Kirk lavora come assistente di un produttore cinematografico e si arrangia come può. Ha la passione per i film. Il suo preferito è Fight Club e sogna di diventare il nuovo Spike Lee. Ma non è facile, circondato da un mondo che gli sta stretto e che dice non appartenergli più. Lasciare Tottenham non è possibile. Il centro di Londra costa troppo.
Così, nella Perfida Albione che ha fatto del multiculturalismo uno strumento necessario per fare fronte alle diverse comunità, convivono insieme più città: quella chic di Knightsbridge e quella finanziaria della City, quella povera di Catford e quella violenta di Tottenham. Non solo: specialmente in periferia, dentro gli stessi quartieri, eleganti e ordinate case vittoriane distano poche centinaia di metri da palazzi abbandonati o in rovina. Contraddizioni che rendono Londra la capitale più imprevedibile al mondo. Un po’ come la storia di Kirk.
Tutto questo devono sapere i nove milioni di persone che, tra luglio e agosto, per i Giochi, si apprestano a fare le valigie per la Gran Bretagna: possono trovarsi in una sala da té di gentilezza vittoriana. O davanti a ragazzi con felpa e cappuccio che possono loro far passare un brutto quarto d’ora.
*Una copia dell’articolo di Giulio Gambino, “Gangs of London”, è pubblicata da pagina 82-85 su l’Espresso 9-15 marzo 2012